Dante e i classici: una questione di humanitas

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I riferimenti danteschi al mondo antico, in primo luogo a Ulisse, sono tanti e puntuali, e rivelano una comprensione dei classici molto più profonda di quanto non si pensi abitualmente degli autori medievali.
Murale di Dante all’Esquilino, Roma.

Inizierò denunciando un timore che ha attraversato tutta la mia lunga esperienza di docente: quello di non essere mai riuscito a spiegare davvero compiutamente agli studenti il rapporto di Dante con il mondo classico.

Forse tutto si origina da un’idea di Medio Evo stereotipata che quelli della mia generazione hanno maturato durante gli studi universitari; quella di un’epoca lontana dal mondo antico, per certi versi ad esso opposta, e che è stata incapace di cogliere il senso profondo della civiltà dei Greci e dei Romani. Dunque, per un buon classicista, un periodo poco interessante, riscattato però da lì a poco dal vento dell’Umanesimo.

Eppure nella Commedia dantesca, a principiare dal ruolo-chiave di Virgilio, l’antichità classica è onnipresente: i guardiani infernali, gli spiriti magni del Limbo, i personaggi storici e mitologici, Catone e Stazio nel Purgatorio… e potrei andare avanti ancora. Per tacere, ovviamente, delle reminiscenze letterarie (virgiliane, ovidiane, lucanee, ciceroniane, liviane ecc.) che il testo presenta1. No, leggendo il poema dantesco non abbiamo certo l’impressione di distanza dal mondo classico, e – forse – neppure di un suo travisamento; se mai di una sua originale interpretazione. Ma vorrei trasformare questa impressione in qualcosa di più solido, corroborandola con parole e idee di autorevoli studiosi. E magari tornare poi in aula con maggiori certezze…

L’ammirazione per Ulisse e Catone

Torniamo però ai miei dubbi iniziali. Scusate, ma chi può credere davvero a un Ulisse dannato leggendo il canto XXVI dell’Inferno? Mi spiego meglio: dannato lo è, in senso tecnico, in quanto pagano, consigliere fraudolento e autore di un «folle volo»; ma non può sfuggire al lettore l’eccezionale prospettiva “umanistica” (addirittura “illuministica”?) della terzina «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza» (Inf., XXVI, 118-120). Ulisse è qui l’incarnazione piena di quell’humanitas che il mondo greco-romano ha concepito e che Dante mostra di avere bene compreso, affidandola alla memoria della posterità. Non è certo un caso se in Se questo è un uomo Primo Levi identifichi l’urgente aspirazione alla libertà (e dunque all’umanità) di chi è rinchiuso in un lager proprio nel viaggio dell’Ulisse dantesco; di chi vorrebbe navigare ancora «per l’alto mare aperto» (Inf., XXVI, 100) e si deve invece accontentare di ricordare a memoria qualche verso davanti alla zuppa di cavoli e rape.

L’impressione mia è pertanto quella che il suo autore collochi Ulisse all’Inferno “controvoglia”, e fatico a celare questo agli studenti; così come fatico, l’anno successivo, a spiegare la salvezza di Catone (Purg., I), anch’egli pagano e per di più suicida. È come se Dante lo considerasse salvo a priori, senza bisogno di quelle giustificazioni un po’ “acrobatiche” (di sapore tipicamente medievale) usate nel Paradiso per legittimare la presenza tra i beati di Traiano e Rifeo (Par., XX). E tutto ciò, perché? Per un’oggettiva, quasi abnorme, ammirazione per il personaggio che una lunga tradizione classica (lucanea in primis) gli ha consegnato; un’ammirazione che ci appare tanto laica e “umana” da rendere a prima vista bastevoli alla salvezza quelle virtù cardinali che, sotto forma di stelle, ne illuminano il volto severo nella terzina: «Li raggi de le quattro luci sante / fregiavan sì la sua faccia di lume, / ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante» (Purg., I, 38-39). Certo che non può essere davvero così, perché senza Cristo non ci si salva, e sicuramente l’Alighieri immaginò qualche ispirazione divina nei gesti dell’Uticense. Dunque ben vengano le plurisecolari indagini «sotto il velame delli versi strani» (Inf., IX, 63), sfociate anche nelle note letture allegoriche e/o figurali del personaggio; indagini utili, queste, per provare a capire, ma – almeno per me – insufficienti per uscire del tutto dall’imbarazzato (ma per certi versi gioioso) stupore nel sapere che Catone riprenderà «la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara» (Purg., I, 75) al pari dei battezzati.

Il ruolo provvidenziale di Roma

Che Dante, nel De monarchia, nel Convivio e – ovviamente – nella Commedia conferisca a Roma antica e al suo impero un ruolo provvidenziale è più che evidente, tanto che Francesca Fontanella, in un recente studio2 dopo aver citato i versi «Ma l’alta provedenza che con Scipio / difese a Roma la gloria del mondo / soccorrerà sì tosto com’io concipio» (Par., XXVII, 61-63), può affermare che «per Dante tutta questa storia, da Enea a Enrico VII, è storia di Roma» (p. 334). Ma ciò è vero non solo per la necessità storica di un istituto imperiale ispirato alla notissima aquila romana di cui parla Giustiniano (Par., VI), che tenga a freno gli appetiti temporali del papa denunciati ovunque nel poema, ma anche per i valori morali e civili che Roma – repubblicana e imperiale – ha saputo tramandare soprattutto attraverso le testimonianze di Virgilio, Cicerone e Livio «che non erra» (Inf., XXVIII, 12)3; e, ovviamente, anche di molti altri, se è vero che Luciano Canfora ha ipotizzato da poco la conoscenza da parte del Nostro – cui attribuisce una sorta di «sincretismo storiografico» – delle Historiae di Tacito4. Insomma, citando ancora Francesca Fontanella, l’Alighieri vorrebbe anche per il suo tempo «quei caratteri dell’impero di Roma che sono in qualche modo espressione di esigenze e di ispirazioni sempre attuali, come il desiderio di una vita civile virtuosa che l’autorità politica deve sostenere, garantendo la pace, la libertà e la giustizia» (p. 340). È dunque giusto – aggiungo io – che «Bruto con Cassio», che ha provato con il cesaricidio a scardinare tutto ciò, «latri» nella Giudecca.

Nessuna incertezza, allora, almeno su questo punto? Purtroppo, almeno una mi si palesa proprio alla lettura del VI canto del Paradiso, ove si ricorda come sotto Tiberio l’impero romano abbia provvidenzialmente consentito che si adempissero le Scritture con la crocifissione di Gesù, sacrificio finalizzato a lavare l’onta del peccato originale («ché la viva giustizia che mi spira, / li concedette, in mano a quel ch’i’ dico, / gloria di far vendetta a la sua ira», Par., VI, 88-91); qui faccio però fatica a spiegare ai miei studenti il perché l’aquila «poscia con Tito a far vendetta corse / de la vendetta del peccato antico» (Par., VI, 93-94). Pertanto me la cavo in due parole: Dante dà a Roma il merito di avere favorito la salvezza umana con la crocifissione di Cristo, agli Ebrei la colpa di averlo condannato. La contraddizione di questa idea è – ai nostri occhi – evidente, ma Dante non è altro che l’incolpevole (?) testimone di una credenza che possiamo comprendere solo scavando nelle profondità più remote e buie della nostra cultura occidentale; e anche di quella classica, non solo di quella cristiana.

Dante su un’edicola a Firenze.

Dante, Auerbach e l’epigrafia latina

Sono anni che rimedito il saggio Gli appelli di Dante al lettore, contenuto negli Studi su Dante di Erich Auerbach5. Lo studioso, infatti, nel citare tutti i possibili modelli (classici e medievali) di questa prassi, allude anche alle apostrofi al viandante proprie dell’epigrafia funeraria latina, affermando però che – al pari di molti altri esempi – «non hanno molto in comune con lo stile di Dante» (p. 293).
Certamente Auerbach ha ragione, ed è inutile spiegare il perché; eppure, in fondo, una pur labile forma di continuità tra quegli appelli lapidari e quelli danteschi c’è, ed è la volontà di comunicazione attiva tra il mondo dell’aldilà e quello dei vivi. Il defunto romano si appellava infatti al viator perché lo compiangesse e, soprattutto, non ne perdesse la memoria.
Nella Commedia la memoria dei “non più” diventa collettiva ed è affidata per intero al ruolo di mediazione del poeta, che si incarica di interpretare e divulgare collettivamente il messaggio che ha appreso frequentando i Regni oltremondani.
Il rischio da evitare, ora, non è più l’oblio dei defunti tanto temuto dai Romani, ma il fatto che i vivi – ospiti ancora della «piccioletta barca» della Storia – non apprendano dal giudizio divino sui morti le norme per mantenersi su quella «diritta via» che lo stesso Dante aveva smarrito.

Torniamo però all’epigrafia latina, disciplina cui mi applico da molti anni con soddisfazione, e che anche stavolta non mi ha tradito. Ho infatti trovato – nel mare magnum delle sue manifestazioni – un’iscrizione metrica molto particolare di epoca imperiale (CIL V, 4078 = CLE, 84 = EDR, 115904), dove l’appello al viator non solo contiene l’invito a leggere il nome del defunto (Lege nunc, viator, nomen in titulo meum) ma anche un invito a vivere rettamente seguendone l’esempio con la frase Valete ad superos. Vivitis vitam optumam / [si me sequimini] («Statemi bene, voi che siete al mondo. Vivete una vita ottima, se mi imitate»). In fondo – si parva licet – non è quello che anche Dante chiede ai suoi lettori? Tra l’altro, per un caso fortuito, l’iscrizione è da Mantova e contiene l’espressione virgiliana ad superos (Aen., VI, 481)! Intendiamoci, nessuno può pensare che Dante l’abbia letta o conosciuta, e quello che propongo è poco più che un divertissement, un modo come un altro per riagganciarci alla funzione magistrale di Virgilio, per secoli ispiratore di umili epigrafi e grandi poemi.

Le mediazioni virgiliane

Forse la venerazione dantesca per Virgilio offre davvero una soluzione (termine troppo semplicistico) alla questione da cui siamo partiti. E non parlo solo del “medievalissimo” Virgilio allegorico, ma dell’uomo e del poeta che – pur non essendo cristiano – fu interprete di un’arte e di un ethos tanto elevati e portatore di un «lume dietro a sé» (Purg., XXII, 69) tanto visibile da spingere Stazio (e quanti altri?) alla conversione («per te poeta fui, per te cristiano», Purg., XXII, 73)6: una conversione alla cultura e all’humanitas, dunque, prima ancora che alla fede.  L’autore dell’Eneide fu, al pari di Livio, colui che fornì a Dante – già lo si è detto – la chiave di lettura della Romanità, così riassunta dal grande storico Santo Mazzarino7: «La rievocazione [dantesca] del mondo romano si muove sì nel quadro di una interpretatio christiana ma riafferma quei valori classici che Livio aveva esaltato, insomma la virtù che ha fatto degno di riverenza il santo segno. Qui è l’autentico Dante umanista; e qui il significato della sua rilettura di Virgilio» (p. 140). Ma fu anche colui che (insieme con Ovidio) funse da principale mediatore con quel mondo greco che altrimenti l’Alighieri avrebbe largamente ignorato; d’altronde Virgilio (da personaggio) incarna plasticamente tale ruolo quando fa da “interprete” tra Dante (anche lui personaggio) e Ulisse e Diomede avvolti nella fiamma dicendo: «Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto / ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi, / perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto» (Inf., XXVI, 72-75).

Una riflessione finale

Siamo così tornati a quell’Ulisse dal quale sono partito denunciando i miei imbarazzi danteschi, che, dopo tutte queste parole, sento un po’ affievoliti. Mettere per iscritto i miei dubbi (e interrogare a fondo gli studi critici) mi ha infatti aiutato a chiarirmi le idee confermando ulteriormente la fortissima impressione di vicinanza di Dante al mondo antico, e del suo sforzo di interpretarlo al meglio. Non so se posso davvero spendere la parola «umanista» al di fuori dell’autorità di Mazzarino o dei molti altri che tale termine (con la variante «pre-umanista») hanno adoperato, magari anche polemicamente: tra gli ultimi il filosofo Massimo Cacciari8. La posso comunque usare in un’accezione spirituale e non filologica in senso stretto, col supporto di questa saggia affermazione di Manlio Pastore Stocchi, il quale dice che in Dante «è viva l’esigenza di un rapporto personale e diretto con l’antichità: esigenza che ovviamente non sempre riesce a realizzarsi e più volte s’incanala, per la forza oggettiva delle cose, nelle linee proprie del sapere tardomedievale, ma spesso giunge a risultati originalissimi recuperando al disopra delle sollecitazioni culturali coeve il senso nativo e non adulterato della cultura classica o piegando a fruizioni inedite […] l’esempio e l’autorità degli antichi»9 (p. 30).

Maurizio Bettini ha ragione quando scrive addirittura sulla copertina di un suo libro10 che «perdere Virgilio significa perdere anche Dante»; ciò perché ogni perdita è dolorosa, come lo stesso Dante ci dimostra quando – pur avendo rivisto Beatrice – non sa trattenere le lacrime per la scomparsa di Virgilio «dolcissimo patre» (Purg., XXX, 50). Ma è senza dubbio vero che se perdessimo Dante perderemmo anche Virgilio, e forse anche Omero e molti altri autori o personaggi antichi. Perché li lega quel filo rosso dell’humanitas – cui ho più volte accennato – che arriva fino a noi; e se proviamo, “montalianamente”, a «tenerne ancora un capo» possiamo davvero lasciare da parte – almeno per un attimo – le residue titubanze e sentirci parte di un’esperienza straordinaria che abbiamo il dovere di trasmettere alle generazioni future.


NOTE

  1. La bibliografia su Dante e l’antichità è sterminata e impossibile da riassumere; oltre ai pochi studi che citerò infra, sempre utile la consultazione dell’Enciclopedia dantesca, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1984 (seconda edizione), e spec. – in relazione al nostro discorso – delle voci: Catone, l’Uticense, I, 876-882 (M. Fubini); Classica, Cultura, II, pp. 30-36 (M. Pastore Stocchi); Ulisse, V, 803-809 (M. Fubini); Virgilio, V, 1030-1044 (D. Consoli, A. Ronconi).
  2. F. Fontanella, L’impero e la storia di Roma in Dante, Il Mulino, Bologna 2016. Su questo tema, importante anche lo studio di L. Braccesi, Roma bimillenaria. Pietro e Cesare, L’Erma di Bretschneider, Roma 1999, spec. pp. 53 ss.
  3. Su questa famosa definizione, da ultimo: L. Livraghi, «Livïo […] che non erra» (Inferno, XXVIII 12): delimitazione di un’area di pertinenza, in «Lectura Dantis Lupiensis», vol. 5 (2016), Longo, Bologna 2018, pp. 63-93.
  4. L. Canfora, Gli occhi di Cesare. La biblioteca latina di Dante, Salerno editrice, Roma 2015.
  5. E. Auerbach, Studi su Dante, Feltrinelli, Milano 1979 (settima edizione).
  6. Sull’incontro tra Virgilio e Stazio, da ultimo: G. Aricò, «Facesti come quei che va di notte…». Alcune considerazioni sull’incontro con Stazio in Dante, Purg. XXI-XXII, in S. Audano, G. Cipriani (edd.), Aspetti della Fortuna dell’antico nella cultura europea, Atti del Convegno, Sestri Levante 2014, Il Castello edizioni, Campobasso 2015, pp. 13-48.
  7. S. Mazzarino, Dante e il mondo classico, in «Terzo programma: quaderni trimestrali», 4 (1965), pp. 137-145.
  8. M. Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Einaudi, Torino 2019, pp. 15-51.
  9. M. Pastore Stocchi, s.v. Classica, cultura, in Enciclopedia dantesca, cit.
  10. M. Bettini, A cosa servono i Greci e i Romani?, Einaudi, Torino 2017.
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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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