Una ferita, una sola, la mia amata maestra mi inflisse, alle scuole elementari: e il modo ancor m’offende (anche se più tardi capii che si trattava di una ferita iniziatica, dal valore terapeutico). Avrò avuto nove o dieci anni, incominciavo a cibarmi e a dissetarmi con i libri; e un bel giorno entrai in classe felice, entusiasta, sventolando un libretto dalla copertina rigida color crema, di cui ricordo il titolo (Dante, mistico pellegrino), ma non l’autore. Si trattava della parafrasi della Commedia, scoperta negli scaffali di casa, per me ben presto troppo magri, e bevuta con passione trascinante. Non sapevo nulla di Dante, ovviamente, e neppure della Commedia, che per me non era ancora “divina”.
Però, in maniera confusa, intuivo che quel libro antico e difficile, aspro, strano, doveva contenere messaggi grandi e profondi. La storia di quel viaggio all’altro mondo mi sembrava complicata, anche assurda, con la sua marea di personaggi, di luoghi, di figure, d’idee; ma ero affascinato dall’altezza d’ingegno dello scrittore, dalla sua invenzione sconfinata e dal rigore di diamante che scandiva il cammino del testo. Incredibilmente la maestra, dalla quale mi aspettavo approvazione, s’infuriò: non ammetteva che io avessi letto e ora esaltassi il mio innocente, ma per lei trasgressivo e blasfemo, Dante in prosa. Non capii, allora, le ragioni e il senso della contestazione, e rimasi malissimo. Anni più tardi, leggendo infine Dante in poesia, incominciai a rendermi conto della difficoltà e del fascino sconfinato di quelle rime, di quei ritmi, di quelle strutture complesse, necessarie, non eliminabili, non parafrasabili. Intuii a poco a poco che quel che contava e non poteva ridursi a “racconto”, a “parafrasi”, appunto, erano proprio le forme, la forma del contenuto pulsante nell’intreccio ininterrotto dell’energia prosodica e di quella semantica fluenti nella versificazione. Capii, leggendo e rileggendo, che l’alterità di Dante, la sua assoluta inattualità, sono rappresentate perfettamente dalle straordinarie strutture formali del suo capolavoro, gotiche e scolastiche, cattedrali di parole e di ritmi. Anni dopo mi imbattei nel saggio di Croce su Dante, che negando il valore “poetico” della “struttura” (la terzina, le tre cantiche di trentatrè canti più uno introduttivo, la perfezione centenaria, gli innumerevoli richiami interni da magnifica mnemotecnica spirituale) cancellava il senso di quell’immenso esercizio di passione e d’intelligenza struttiva. Lo rifiutai con fermezza, da adolescente che s’innamora delle avventure intellettuali sublimi e respinge la tentazione di razionalizzare secondo categorie astratte, preferendo lo sciame allo schema.
D’altra parte erano gli anni dello strutturalismo e della semiologia, e la Commedia sembrava fatta apposta per svolgere sofisticati esercizi di lettura su quello stupefacente poliedro di parole e d’immagini dagli equilibri cristallini, imperniati su richiami a distanza, su un tappeto significativo d’intertestualità e d’intratestualità, dal profondo valore ideologico e poetologico. Poi furono i maestri della filologia e della storia a riprendere per me, con me, in direzione construens, il lavoro avviato dalla mia maestra sul piano destruens. A sedurmi fu allora la forza, la profondità, l’innovatività della presenza di Dante nel Novecento. Studiando la tradizione e la fortuna dei classici vidi con chiarezza che, dopo le Prose della volgar lingua di Bembo, già intorno alla metà del Cinquecento, il sole dantesco si eclissa, scompare dall’orizzonte culturale. La gloriosa, vivida presenza che riverberandosi in infiniti echi di memoria poetica nel Canzoniere petrarchesco, nel Decameron, nell’Orlando Furioso, aveva dominato la cultura e la lingua dei grandi libri italiani ed europei, d’improvviso diventava tenebra, vuoto.
La scoperta per me fu progressiva, ma tremenda. Non mi davo ragione che il Seicento e il Settecento fossero stati “secoli senza Dante”: come avevano potuto sopravvivere, quelle età, senza la Commedia? Nella sua edizione critica Giorgio Petrocchi non ricordava neppure una stampa del poema nel secolo di Caravaggio e di Borromini, e solo quattro in quello di Parini e di Voltaire (l’ultima, nel 1795, era stata impressa a Parma dal grandissimo Bodoni). A fronte di decine e decine di edizioni dei Rerum vulgarium fragmenta, che per secoli impressero un segno radicale alla lirica, l’uscita di scena della Commedia costituisce una perdita immensa: un intero universo figurale si dissolve, quasi irreparabilmente.Certo, i grandi non dimenticheranno mai Dante, anche in questo lunghissimo periodo caliginoso. Le angosce notturne di Renzo fuggitivo da Milano nella foresta che costeggia l’Adda, nel capitolo XVII dei Promessi Sposi, nell’“orrore indefinito” di quel gelo che lascia balenare fra gli alberi “figure strane, deformi, mostruose”, deriva certo dalla viva memoria del XIII canto dell’Inferno, con il suo “bosco” ombroso (“di color fosco”) e atrocemente metamorfico (“Uomini fummo, e or siam fatti sterpi”). L’ispirazione dell’Infinito leopardiano s’intreccia senza dubbio con la meditazione sul Paradiso dantesco, fino al riverbero figurale del “gran mare dell’essere” (Par., I 113 ), “quel mare al qual tutto si move” (Par., III 86), nel “naufragar m’è dolce in questo mare”. E come trascurare il riflesso sonoro, cromatico, nel Passero solitario, di uno fra gli incipit più geniali e commoventi della Commedia, quello dell’VIII canto del Purgatorio (“…e ’ntenerisce il core” / “…sì ch’a mirarla intenerisce il core”).
Però il Dante dell’Ottocento è tutto legato alle immaginette infernali di Francesco De Sanctis, al suo teatrino di personaggi, di luoghi, di emozioni. E la critica dantesca di tutto il secolo romantico alternerà questo artificioso sentimentalismo al più secco accertamento di dettagli, in un pulviscolo aneddotico senza punti di vista complessivi. A ripensarla per intero, con poche eccezioni, la critica dantesca del XIX secolo è impressionistica, positivistica, lontana dal centro ideale e ideologico del poema, dalla sua smisurata esattezza e complessità.
Dante, di fatto, è uno scrittore medioevale del Novecento. La natura autentica della Commedia, che è insieme il Libro dell’Universo e la ricapitolazione e riscrittura di una civiltà millenaria, dopo tanto silenzio la scoprono i poeti e gli artisti, ancor prima e più a fondo dei filologi: anche se accanto agli artisti fioriscono presto i grandi critici, l’edizione di Giorgio Petrocchi, le Rime di Gianfranco Contini e poi di Domenico De Robertis, le ricerche filosofiche di Bruno Nardi, i grandi commenti scolastici che “hanno fatto gli italiani” (e non solo loro), Sapegno, Bosco, Singleton, Chiavacci Leonardi, il mio amatissimo Attilio Momigliano. I primi due poeti ermeneuti di Dante sono distanti nello spazio e nelle posizioni di poetica e di estetica: Giovanni Pascoli ed Ezra Pound. Sotto il velame (1900) e La mirabile visione (1902) di Pascoli e The Spirit of Romance di Pound (1910) rivelano lo spessore e la profondità dell’allegorismo dantesco, riconoscendone l’origine medioevale, soprattutto teologica e filosofica.
A poco a poco il “naturalismo” di tanti paragoni, la “spontaneità realistica” di tante immagini, lasciano tralucere, appunto “sotto il velame”, la severa ricchezza allegoristica in linea con quella di Ugo e soprattutto di Riccardo di san Vittore, che brillano, prima impensati, insieme con i più evidenti Tommaso, Bonaventura, Bernardo, nei saggi sulla Commedia di Pascoli e di Pound. E con loro appaiono sulla superficie il “pensiero poetante” di Cavalcanti, l’agostinismo capace di attenuare le posizioni rigidamente aristoteliche che Dante assunse dal tomismo, ma soprattutto la mirabile potenza creatrice della metafora nell’ispirazione della Commedia. La densità dei saggi danteschi di Pound e di Eliot, inventores della poesia novecentesca, matura e si deposita in una riflessione profonda, radicale, sulla tradizione dello “spirito romanzo”, che essi avrebbero fatto riecheggiare nella sperimentazione di tanta avanguardia, fino al Gruppo ’63 di Giuliani e Sanguineti, sapienti rielaboratori della letteratura medioevale.
Né a caso Giuliani aprì l’antologia I Novissimi con l’evocazione del sovvertitore Pound ma anche, insieme con lui, dei rigorosi filologi e linguisti romanzi Väänänen e Norberg. Quanti trovatori provenzali, quanto Cavalcanti, quanto Dante nelle avanguardie del Novecento! Mi conquistò il cuore e la mente la meraviglia metaforica da moderno allegorista (il passo di danza, l’alveare, la fiamma e il cristallo dalle 13.000 facce-versi) con cui la bellissima Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam, amico dei formalisti e dei futuristi, coglieva, negli anni Trenta, la formidabile e inattuale modernità del poema, offrendone una delle immagini più strazianti del nostro tempo. Ma fu anche, a conquistarmi alla forza di Dante poeta moderno, lo splendido sorriso metaletterario dei Nueve ensayos dantescos di Borges, con quell’idea geniale che la Commedia Dante l’abbia scritta per propiziare un nuovo “incontro in un sogno”, in Paradiso, con la perduta Beatrice, dunque per riconquistare l’ala svettante di un suo sorriso. “Dante si può leggere solo al futuro”, scriveva Mandel’štam: è il futuro presente, la latitudine di un meridiano ideale che segna un “Nord del futuro”, e che si riverbera nella poesia di Paul Celan.
È vero, Dante va coniugato al futuro. Siamo noi quel futuro. Il nostro presente è in qualche misura il futuro che il suo pensiero contiene, e attraverso Dante possiamo riconoscere nelle migliori realtà del tempo che viviamo quello che parafrasando un magnifico titolo di Carlo Ossola chiamerò “l’avvenire delle nostre origini”. Nella lingua del pappo e del dindi si stratifica e si sublima l’intera tradizione antica, che si fa germe di speranza, seme di pensiero e di emozione: Omero che si nutre al seno delle Muse; Virgilio che Stazio riconosce come “mamma” e “nutrice”; ma anche Leopardi che torna alla poesia con il Risorgimento e A Silvia, uscendo da un periodo di aridità d’ispirazione proprio attraverso lostudio di Dante; e l’immagine bellissima di Andrea Zanzotto, il quale nella prosa con cui conclude la raccolta delle liriche di Filò, scritte per il Casanova di Fellini, nel 1976, della lingua poetica dichiara che noi “non sap[piamo] di dove venga”, perché arriva da sola, come un’epifania materna, arcaica: “Viene, monta come il latte”; “à inte ’l [s]o saór / un s’cip del lat de la Eva”, “nel suo sapore sapiente c’è un gocciolo del latte di Eva”.Il poema dantesco, dice Osip Mandel’štam,
non è che una sola strofa, unitaria e inscindibile. O meglio, non una strofa, ma una struttura cristallina, un solido. Tutta l’opera è attraversata da un flusso di energia costantemente teso alla creazione di nuove forme, è un corpo rigidamente stereometrico, lo sviluppo per monosillabi del cristallo tematico. Impossibile abbracciare con l’occhio, o comunque raffigurarsi visivamente, questo poliedro di tredicimila facce, mostruoso nella sua regolarità. […] La ricchezza plastica del poema supera tutti i nostri concetti d’invenzione e composizione: la si potrebbe a miglior diritto definire un istinto. […] Solo la metafora può essere un simbolo concreto dell’istinto plastico con cui Dante costruisce a goccia a goccia le sue terzine e le travasa l’una nell’altra. Dobbiamo perciò immaginare che a costruire la coscienza del poliedro di tredicimila facce lavori uno sciame d’api dotate di un geniale fiuto stereometrico, uno sciame che altre api accorrono a ingrossare via via che se ne presenta la necessità.
Così, nel Discorso su Dante (1933), forse il saggio dantesco più profondo e originale di tutto il Novecento, Mandel’štam volge in straordinarie immagini metaforiche, che Dante avrebbe amato, la struttura cosmica della Commedia. In faccia alla morte, nel gulag di Stalin, questo poeta-glossatore di genio traduceva in russo per i suoi compagni di sventura Dante, Petrarca e l’Ariosto: per leggerli aveva imparato l’italiano, “la più dadaistica delle lingue romanze”, innamorandosi, attraverso la Commedia, della “puerilità della fonetica italiana”, del suo “bellissimo infantilismo”, della sua “affinità con un melodico balbettio, con un dadaismo originario”.
Lo stesso gesto straziato e ineludibile, anacronistico e umano, compirà pochi anni più tardi, ad Auschwitz, l’ebreo italiano Primo Levi, mentre in fila per la zuppa di cavolo nero si preoccuperà non di far sopravvivere grazie a quel miserabile cibo il suo povero corpo già spossato, ma di riscattare l’umanità della vita con l’atto umanistico di riportare alla luce dalla memoria profonda della mente brandelli del canto di Ulisse, il XXVI dell’Inferno, per tradurlo in francese a Pikolo, balbettando a una a una le sillabe strappate all’oblio con fatica e dolore:
Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo “come altrui piacque”, prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere qui.
“Nella squallida attesa del niente”, là dove l’essere dell’individuo è ridotto al puro stato di sopravvivenza biologica, la soglia dell’umanità è degradata perché sono degradate e svilite sia la vita, sia la morte. Su quella soglia rimane unicamente (sono parole di Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone) “la larva che la nostra memoria non riesce a seppellire, l’incongedabile col quale dobbiamo deciderci a fare i conti”. Il senso profondo di Se questo è un uomo è che “il nome uomo si applica innanzi tutto al nonuomo”, e che “testimone integrale dell’uomo è colui la cui umanità è stata integralmente distrutta”: “L’uomo è colui che può sopravvivere all’uomo”.
Questa soglia ultima del Lager, ma talvolta anche della vita nelle sue fasi più dolorose e disperate, è un dispositivo di disumanizzazione, “una gran macchina per ridurci a bestie”: e “noi bestie non dobbiamo diventare”.Nel luogo fisico e mentale in cui la soglia dell’esistenza è esilissima, “per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà” (a parlare è ancora Primo Levi). La Commedia sembra porsi come il baluardo di questa soglia, come il teatro della memoria che contiene, ripensa, ricanta in poesia altissima, l’intero universo, tutta la storia umana, tutti i libri scritti e letti, tutti i personaggi che hanno meritato di essere ricordati o invece di essere dimenticati, tutte le utopie e le speranze dell’umanità.
In quel luogo estremo l’umanità riconosce la propria finitudine, la propria irreparabile debolezza. Dante è stato il più acuto interprete di questa frale natura. Nel XXX canto del Purgatorio, nell’istante in cui incontra nuovamente Beatrice dopo una siderale assenza (dalla metà della Vita nova in poi è assente nell’opera dantesca), Dante perde Virgilio, che è già ammutolito dall’ultimo verso del canto XXVII, in cui ha incoronato la nuova maturità umana e poetica dell’allievo. Lo svanire di Virgilio è la scomparsa della madre per il bimbo spaventato (“volsimi a la sinistra col respitto / col quale il fantolin corre a la mamma / quando ha paura o quando elli è afflitto”: Purg., XXX 37-45). In tutta la Commedia Dante ha paura, trema, cerca una mamma. Non ha alcun pudore di dirci: come voi, ho paura; però seguìtemi, e ci riscatteremo insieme. In vetta al Paradiso, nel momento in cui sta rappresentando le più alte, difficili, ineffabili verità, Dante torna ad essere un bambino piccolissimo, allattato al seno materno: “Omai sarà più corta mia favella, / pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante / che bagni ancor la lingua a la mammella” (Par., XXXIII 106-108). Mandel’štam, da poeta, per primo ha sentito che in questo cadere, in questo esser vinto dalla paura (“…esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura!”), risiede la natura più umana di Dante, la sua forza, il suo coraggio di condividere con tutti gli uomini il più fragile degli affetti, e io credo anche il più moderno: la tenerezza, limite emozionale della vita. L’infante e il balbuziente, chi inciampa nelle parole e chi non sa ancora trovarle, sono per Mandel’štam, e per noi tutti dietro a lui, l’emblema di una ricerca che non si appaga nell’illusione del sublime e della sua conquista, ma accetta le difficoltà e i rischi, la perdita e l’annientamento:
mi pare che Dante abbia studiato con attenzione tutte le pronunce difettose: che abbia ascoltato accuratamente i balbuzienti, i biascicanti, quelli che non pronunciano certe lettere o parlano nel naso, imparando qualcosa da ciascuno. Si vorrebbe parlare a lungo del colorito sonoro dell’Inferno. Una tipica musica labiale – abbo, gabbo, tebbe, rebbe, converrebbe – come se la fonetica fosse stata creata con l’aiuto di una balia.
La memoria, la scrittura, così come la cura di un oblio che aiuti a ricostruire senza dimenticare, una difficile quanto necessaria ars oblivionis che selezioni e orienti “l’uomo a sopravvivere all’uomo”, divengono una necessità della vita, le restituiscono il dinamismo e la forza fluttuante che strappa dall’oblio e dalla stasi. “La cultura, memoria iniziatrice, che restituisce iniziativa e movimento”: così Ernst Robert Curtius concludeva, citando il poeta Vjačeslav Ivanov vissuto in Russia ai tempi di Mandel’štam e morto in Italia, nell’Epilogo di Letteratura europea e Medio Evo latino, dopo un grande capitolo su Dante.
“Nella odierna situazione spirituale”, scriveva Curtius nel 1948 (ma credo che potremo ribadire l’idea anche nella situazione spirituale dei nostri giorni), “non v’è alcuna esigenza che appaia tanto imperiosa come quella di ristabilire la “memoria”. […] Il dimenticare è, in taluni casi, altrettanto necessario del ricordare. Occorre saper dimenticare molte cose, se si vuole custodire ciò che è essenziale”.
Si può dimenticare tutto, ma non Dante. La domanda fondamentale, di fronte al gesto di Mandel’štam e di Levi, che con la rete slabbrata della memoria, per sospendere nell’oblio il presente assurdo del campo di concentramento, combattono per richiamare alla vita i versi della Commedia, è dunque: come e perché questo libro immenso e di altissimo ingegno, in cui forma e contenuto si rispecchiano in una perfezione di struttura e d’idea, sembra naturalmente instaurare, più di qualsiasi altro, soprattutto una relazione diretta con la vita e con la morte, con le loro radici affondate nel destino umano, nel punto più profondo della nostra esistenza?
La Commedia, ora che ne abbiamo scoperto e accettato l’inattualità di libro medioevale, ci appare il più moderno dei libri, il più novecentesco. Ci sembra che abbia immagazzinato e metabolizzato tutti i libri che lo hanno preceduto, tutta la tradizione, per offrircela rinnovata. E soprattutto ci pare che contenga, più di qualsiasi altro libro, un’idea di perfezione esatta e dinamica, di compiutezza logica e di geometrica quadratura delle passioni, ma anche di salvezza e di felicità per l’uomo: per ogni singolo uomo e per tutta l’umanità.
Ormai possiamo leggere la Commedia come il cielo stellato in cui proiettiamo i nostri sogni. Fatichiamo a decrittare i disegni che noi stessi vi abbiamo riconosciuto e deposto, ma come bambini a bocca aperta leggiamo questo libro pieno di stelle, che al modo dei sogni si manifestano chiedendo comprensione, invitandoci a capirli al nostro risveglio. Quei sogni, quelle stelle, quel libro, sono stati creati per risvegliarci.