I percorsi di interconnessione tra storia, letteratura e pittura, già suggeriti nella recente segnalazione di una mostra di Filippo De Pisis a Traversetolo (PR), curata da Paolo Campiglio, si spostano ora nel Canton Ticino. È infatti da alcuni anni che nella Svizzera italiana, che vanta strutture museali di prim’ordine, vengono organizzate mostre dal taglio innovativo e originale: non è dunque un caso che il numero di ottobre 2013 del prestigioso Giornale del’arte, edito da Umberto Allemandi, dedichi un voluminoso inserto proprio al Canton Ticino.
A pochi chilometri di distanza, infatti, sono ora aperte due esposizioni meritevoli di visita, e cioè Un mondo in trasformazione alla Pinacoteca Zuest di Rancate, a cura di Giovanni Anzani ed Elisabetta Chiodini, e I paesaggi di Carrà, al Museo d’Arte di Mendrisio, a cura di Elena Pontiggia e Simone Soldini. Ne suggerisco la visita a tutti i colleghi, e ritengo potrebbe essere molto proficuo anche portarci gli studenti, soprattutto quelli dell’ultimo anno di Scuola Secondaria Superiore.
Poiché di Carrà a Mendrisio parlerò in un altro articolo, cominciamo dall’eccellente mostra di Rancate, che ha senza dubbio un intento ambizioso, e cioè quello di mostrare come la pittura – e gli esempi qui sono di area lombarda e ticinese – sia in grado di fotografare l’evoluzione, la trasformazione del paesaggio, rurale e urbano, tra il 1830 e il 1915; ma anche di suggerire, a noi che la guardiamo molti anni dopo, le conseguenti implicazioni di questi cambiamenti sulla società del tempo.
Pensiamo un po’ alla Milano del 1830, quella della Restaurazione, dove si aggirava il Manzoni tra un’edizione e l’altra dei Promessi Sposi, e dove la sensibilità romantica si mescolava con le suggestioni patriottiche risorgimentali. E poi ripensiamo alla Milano post-unitaria, con le fabbriche, il fischiare dei treni, il siciliano Giovanni Verga che si stupisce della sua modernità: quella modernità che gli Scapigliati lombardi da un lato avversavano, dall’altro ammiravano. In meno di cinquant’anni si era “fatta l’Italia”, e con questa si era anche delineato un abbozzo di quegli Italiani che saremmo in seguito diventati.
E la pittura, cosa ci dice a proposito? Se Giovanni Migliara, Giuseppe Canella e Carlo Bossoli mostrano ancora vedute tipiche dell’epoca romantica, si passa poi a una visione della città – e non solo – più attenta ai mutamenti della modernità, dove irrompe anche nei quadri la presenza della ferrovia, dell’industria e del disagio sociale. Tra i principali interpreti di questo successivo mondo in trasformazione troviamo Filippo Carcano, Adolfo Feragutti Visconti, Mosè Bianchi ma soprattutto, a “ridosso” del Novecento, Luigi Rossi, Pietro Chiesa, Angelo Morbelli, Giovanni Segantini, Giuseppe Pelizza da Volpedo, Emilio Longoni e Pasquale Sottocornola.
Sono questi alcuni dei pittori in mostra a Rancate, dei quali voglio proporre solo due opere come campione del percorso suggerito. Si tratta di una deliziosa Veduta del Teatro alla Scala, di Angelo Inganni, composta forse intorno al 1852, e Alla Stazione Centrale, di Angelo Morbelli, esposta nel 1887. Sembra passata un’era geologica, eppure non era trascorsa neppure una generazione. Ma, si badi, non una generazione qualunque, bensì quella che è passata dalla carrozza a cavallo al treno a vapore!
Impossibile affrontare in questa sede l’analisi di altri dipinti, cosa che è fatta con grande cura nel catalogo (Silvana Editoriale), ma che è anche corroborata da una scelta di brani in poesia e prosa coevi ai dipinti e a loro legati per tematiche o atmosfere, con l’intento di evocare lo spirito dell’epoca. Non ci stupiremo, dunque, di trovare il celebre passo manzoniano del cielo di Lombardia, così bello quand’è bello accanto ad un riposante Tramonto lungo il Lambro di Emilio Borsa, o un’aria della Traviata vicino al Cadono le foglie di Adolfo Feragutti Visconti, che rappresenta una giovane smorta degna della Violetta verdiana.
Mi permetto però, da navigato professore di Lettere, di fare un bonario appunto al testo scelto a completamento del quadro Alla Stazione Centrale di Morbelli di cui si è detto. Alla Locomotiva di Giovanni Alfredo Cesareo, proposta dai curatori, io avrei infatti preferito un testo carducciano da scegliere tra l’Inno a Satana e Alla stazione in una mattina d’autunno. Tra l’altro – ironia della sorte – Giosuè Carducci fu di Cesareo feroce avversario, e cercò perfino di impedirgli di accedere alla cattedra universitaria. Rimedio allora io, proprio con l’inizio de Alla stazione… , ode “barbara” composta da Carducci tra il 1875-1877.
Oh quei fanali come s’inseguono
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ’l fango!
Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.
Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri fóschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?[…]
Ed ecco invece il testo di Cesareo cui accennavo prima, edito nel 1905:
Sul fiammeggiante vespero
Nera s’accampa la locomotiva
E accidïosa fumica,
Mentre in torno si mescola e vocifera
La svarïata folla cui l’ansia
Spinge in quell’afa torpida.
Trascorre a quando a quando
Gente che parte: con bagagli in mano
Va i carri un dopo l’altro interrogando,
S’arrischia in fine, e sale
I tremuli sportelli sbatacchiando. […]
Non vi è dubbio che i testi si somiglino, perfino nella scelta lessicale (accidiosa, gente, etc…); eppure il Carducci dimostra la propria superiorità nell’accentuare la dimensione vitale, zoomorfa, della locomotiva, i cui fari addirittura sbadigliano la luce su ’l fango. Egli sa davvero renderla una Bête humaine come il treno dell’omonimo romanzo di Émile Zola (1880): ed in questo sta la differenza tra un grande – anche se discusso – poeta e un dignitoso letterato.