Cosa c’è di nuovo nel selfie? Può essere considerato come un’evoluzione dell’autoritratto? Sono alcune delle domande cui cercano di dare risposta studi e convegni dedicati a questo fenomeno che coinvolge tutti, compresi politici e sportivi, religiosi e persone di spettacolo. In questo periodo, per esempio, spopolano i selfies degli studenti alle prese con l’esame di maturità. Nella pagina Facebook “Maturità 2014 tocca a me”, con, ad oggi, 122.000 “mi piace”, il “Contest faccia da maturando 2014” pubblica e premia gli scatti più rappresentativi della condizione di “maturando”. È un modo per esorcizzare la paura, esibendola e condividendola con gli altri.
Probabilmente la prima comparsa della parola selfie avvenne nel 2002, in un forum australiano: “And sorry about the focus, it was a selfie”. La parola si è affermata nel linguaggio anglosassone soprattutto nel 2013, dando origine a una serie di termini connessi come helfie (ritratto dei propri capelli), belfie (del posteriore…) o drelfie (selfie da ubriachi).
Cos’ha di diverso il selfie rispetto al comune autoscatto? Innanzitutto l’utilizzo. Generalmente si ricorreva all’autoscatto nelle foto di gruppo, perché nessuno fosse escluso dal ricordo. Poi si fece strada l’autoscatto singolo, spesso davanti allo specchio del bagno, difficilmente a fuoco. L’avvento dello smartphone e dei tablet con la fotocamera frontale diede l’impulso decisivo al selfie, permettendo di autoritrarsi mentre ci si guarda nello schermo, con una corretta inquadratura, una buona messa a fuoco e una distanza fissa: la lunghezza del braccio.
La tecnologia, infatti, ha sempre avuto un ruolo di primo piano nella rappresentazione del sé. Abbiamo già visto (Dall’autoritratto al selfie #1 – L’affermazione del sé) che il perfezionamento dello specchio fu determinante per lo sviluppo dell’autoritratto. L’avvento della fotografia offrì nuove possibilità agli artisti nell’esplorazione del proprio corpo. Il passaggio dalla fotografia analogica a quella digitale estese ulteriormente le opportunità, permettendo non solo di ritrarsi, ma, soprattutto, di condividere le immagini. La fotografia digitale, infatti, sembra aver cambiato la stessa funzione delle foto personali nella vita quotidiana: da semplice ricordo di un avvenimento a testimonianza di una presenza e occasione di comunicazione con gli altri.
Momento fondamentale e imprescindibile del selfie, infatti, è la sua condivisione sui social network. I selfies sono fatti per essere visti da altre persone, talvolta per emergere dall’anonimato e avere l’illusione di qualche attimo di celebrità. I selfies sembrano rispondere al bisogno individuale di una continua osservazione e riformulazione del sé. Possono diventare lo strumento per crearsi un’identità e costruirsi un’immagine rivolta agli altri. Come scriveva Roland Barthes nella Camera chiara: “Non appena io mi sento guardato dall’obiettivo, tutto cambia: mi metto in atteggiamento di ‘posa’, mi fabbrico istantaneamente un altro corpo, mi trasformo anticipatamente in immagine. […] Un’immagine – la mia immagine – sta per nascere: come sarò? […] Decido allora di ‘lasciar aleggiare’ sulle mie labbra e nei miei occhi un sorriso che vorrei ‘indefinibile’, col quale […] darei a leggere la consapevolezza divertita che io ho di tutto il cerimoniale fotografico: io mi presto al gioco sociale, poso, so che sto posando, voglio che voi lo sappiate” (Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 1980, pp. 12-13).
Dal punto di vista della psicologia della percezione, l’esperienza della somiglianza è basata sul riconoscimento, sulla presenza di una costante, di un’identità nel cambiamento. Come ci spiega Ernst Gombrich in La maschera e la faccia (da E. Gombrich, J. Hochberg, M. Blank, Arte, percezione e realtà, Einaudi, Torino, 1972), se confrontiamo due foto del filosofo Bertrand Russell all’età di 4 e di 90 anni, cercheremo di vedere i tratti – a noi noti – del vecchio in quelli del bambino, mentre sua madre avrebbe cercato di riconoscere le tracce del bambino nel volto del vecchio. Ma il riconoscimento può essere inibito da una maschera. È il caso dell’attore, maestro nell’arte del travestimento. Il bravo attore ci costringe a vederlo in modo diverso a seconda dei ruoli che interpreta. Anche noi, spesso, interpretiamo un ruolo. Talvolta ci modelliamo sulle attese degli altri, assumendo la maschera che la società ci richiede, fino al punto in cui la maschera prende il sopravvento su di noi e conforma il nostro comportamento. Il selfie coglie il ruolo che l’autore-attore sta interpretando in quel momento, come il maturando disperato o, nel caso del selfie after sex, quello dell’amante dopo il rapporto. Il selfie fornisce inoltre qualche scarna informazione sul contesto dell’immagine: sono stato qui, questo è il mio bagno, questa è la mia camera…
Ma i selfies sembrano rispondere anche all’esigenza di trasformarsi da consumatori a “produttori di cultura”, assecondando l’imperativo dominante DIY, Do-It-Yourself, che spopola sia su Youtube che nei blog, magari seguendo i suggerimenti dei vari Selfies Handbooks disponibili online.
Il selfie, inoltre, ha in sé una certa idea di serialità. Come gli altri contenuti dei social network, presuppone una continuità, degli sviluppi successivi da marcare con tags, commenti, “mi piace”, “condividi”… La condivisione, d’altra parte, ha forti implicazioni sociali. L’autoscatto eseguito davanti allo specchio del bagno dava una certa idea di solitudine; il selfie – soprattutto se eseguito in compagnia – e la sua “pubblicazione”, invece, appaiono come indice di una ricca vita sociale, anche se virtuale.
L’anno prossimo l’Università di Marburg cercherà di dare risposta alle molte domande che pone il fenomeno – fortemente interdisciplinare – del selfie attraverso un convegno internazionale, che spazierà dalla psicologia alla sociologia, dalla storia della fotografia alla storia dell’arte e della cultura, dalla teoria delle immagini all’evoluzione dei network. Nel frattempo, probabilmente, il selfie si sarà evoluto in nuove forme e in originali, imprevedibili, espressioni.