Alcuni mesi fa un ritratto di Rembrandt, considerato per anni una buona opera di scuola olandese, sottoposto a nuove perizie e a nuove indagini è stato dichiarato un autoritratto originale dell’artista. Nel 2010 l’opera, firmata e datata 1635, era stata donata al National Trust britannico che l’aveva destinata alla residenza di Buckland Abbey, nel Devon, nota per essere stata dimora del famoso pirata Sir Francis Drake.
Rembrandt ci ha lasciato un’incredibile serie di autoritratti che testimoniano in modo inesorabile il passare del tempo sul suo volto, dalla gioventù alla vecchiaia. Solo l’avvento della fotografia ha potuto diffondere in tutta la società questo processo di documentazione.
L’autoritratto pittorico, così come la firma, rivela l’inesorabile allontanamento dell’artista dal suo status di artigiano, la rivendicazione del suo ruolo creativo. Un’orgogliosa affermazione di sé: io ho fatto questo.
Ma l’autoritratto è legato anche allo sviluppo della tecnica e al perfezionamento dello specchio, soprattutto di fabbricazione veneziana. I pittori ricorreranno allo specchio sia come elemento da inserire nel dipinto, sia come strumento di lavoro, tanto che nelle Fiandre del XV secolo un’unica corporazione riuniva pittori e fabbricanti di specchi. Nel corso del Cinquecento lo specchio convesso verrà gradualmente sostituito da quello piano, inventato in Germania o nelle Fiandre e perfezionato a Venezia.
Ed è soprattutto a partire dal Rinascimento che si afferma l’autoritratto: il pittore si raffigura da solo, in primo piano o al lavoro nello studio; inserito in un gruppo, familiare o professionale; in modo simbolico, con elementi che lo contraddistinguono come personaggio storico o sacro; dissimulato ambiguamente nella scena dipinta.
Sandro Botticelli si raffigura di tre quarti, all’estrema destra, nell’Adorazione dei Magi (1476 ca.) degli Uffizi, mentre Raffaello si è rappresentato con un berretto nero mentre guarda lo spettatore dall’affresco La Scuola di Atene (1509-1510) della Stanza della Segnatura in Vaticano.
Ma è soprattutto Albrecht Dürer, di cui risultano decine di autoritratti, il pittore che meglio testimonia questa urgenza di riprodurre la propria immagine e di affermare la propria presenza. Nell’Autoritratto con pelliccia (1500) Dürer si dipinge in veste di Cristo, a sottolineare il potere creativo dell’artista trasmesso da Dio, mentre nella Festa del Rosario (1506) o nel Martirio dei diecimila (1508) si raffigura all’interno della scena dipinta, quasi testimone dell’avvenimento rappresentato. Nel Seicento, il volto addolorato di Caravaggio emerge dall’ombra dello sfondo del Martirio di San Matteo (1600 ca.) nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, ma si riconosce anche nel crudo realismo della testa mozza di Golia in Davide con la testa di Golia (1609-1610) della Galleria Borghese, a testimoniare le numerose interpretazioni a cui si prestava questo genere artistico.
Nel 1646, in un dipinto conservato agli Uffizi, l’austriaco Johannes Gumpp si raffigura tre volte, in un incredibile gioco di sguardi, specchi e rimandi: di spalle, riflesso in uno specchio, mentre dipinge il suo autoritratto. Dieci anni dopo, Diego Velázquez si ritrarrà mentre dipinge la corte di Spagna in Las meninas (1656), in un estremo paradosso spazio-temporale: l’artista che si allontana dal cavalletto per osservare il quadro è lo stesso autore dell’opera. Uno specchio appeso in fondo alla sala riflette la coppia reale di spagna Marianna d’Austria e Filippo IV, rivelandoci quello che è al di fuori del nostro angolo visuale, in un’opera che è la metafora stessa della pittura.
Gli artisti si raccontano, assumendo il ruolo di rappresentanti della condizione umana. Goya si raffigura come un povero ammalato, Van Gogh non nasconde il proprio tormento psicologico e scrive al fratello Theo “si dice […] che è difficile conoscersi, ma non è nemmeno facile dipingersi”, mentre Munch registra nei suoi dipinti non tanto il passare del tempo sul suo corpo quanto la sua inquietudine e la sua angoscia interiore.
Oskar Kokoschka dimostra nei suoi autoritratti di aver colto i caratteri essenziali del proprio volto, contraddistinto da una grande distanza fra il naso e il mento. Ritroviamo questa caratteristica anche in molti ritratti eseguiti dal pittore, come se la comprensione della fisionomia di un altro essere umano passasse attraverso l’esperienza del proprio volto.
Nel Novecento gli artisti continuarono a interrogarsi sulla propria identità, spesso intervenendo direttamente sul proprio volto e sul proprio corpo, manipolandoli. Li aiutò, in questo processo di trasformazione, lo sviluppo di un nuovo mezzo espressivo: la fotografia.