Ho ricordato il centenario della nascita di Italo Calvino, a Osnago, piccola cittadina della Brianza Lecchese che da oltre un anno ha avviato un progetto di teatro di comunità ispirato dall’autore de Le città invisibili: grazie alla mediazione di Chiara Corno, insegnante, e con la regia di Filippo Ughi, anche Osnago (per l’occasione Oganòs) ha partecipato al progetto che lo scrittore e drammaturgo Gian Luca Favetto ha inaugurato a Sori nel 2016, partendo proprio dal romanzo di Calvino.
Il teatro di comunità è un’esperienza espressiva che ha il suo centro nell’ascolto e nella condivisione: i cittadini, non più soltanto spettatori, portano sul palco la propria voce e la propria storia, mettendo in scena tutti insieme una città che è certo legata a quella reale e visibile che praticano ogni giorno, ma allo stesso tempo diversa, perché nata da una più intima prossimità tra persone che sino a quel momento hanno diviso gli stessi spazi sfiorandosi senza conoscersi davvero. Nel caso di Oganòs l’esperienza ha coinvolto per ora ventidue persone di età, provenienza ed esperienze biografiche differenti, che hanno accettato di costruire la narrazione della propria vita sotto la guida di Gian Luca Favetto e poi di raccontarla alla comunità cittadina. Allo spettacolo, andato in scena il 29 maggio scorso e ricordato proprio nell’anniversario calviniano, è stata associata la mostra Postcards from the future, realizzata dal fotografo Bruno Zanzottera e dalla giornalista Marta Ghelma proprio su ispirazione del romanzo Le città invisibili. Le fotografie di Zanzottera hanno trovato così la prima tappa di un lungo viaggio: mentre scrivo passa da Torino (da domenica 15 ottobre negli spazi della Conserveria Pastis, Piazza Emanuele Filiberto, 11).
Oganòs è dunque un’esperienza non solo locale: partendo dall’avventura di un gruppo di lettura di Sori (Iròs nell’interpretazione teatrale), Favetto è riuscito a coinvolgere diversi comuni italiani in un progetto che si vorrebbe punto di partenza di una pratica permanente di raccolta e condivisione di storie e voci, al servizio di una coesione più autentica fra cittadini, particolarmente importante quando arriva a saldare la relazione tra coloro che da generazioni abitano gli stessi spazi e quanti invece vi arrivano, spesso anche da molto lontano. Questa fantasiosa sperimentazione, come già il romanzo di Calvino, muove in una direzione del tutto opposta ai venti di guerra, odio e divisione che soffiano in queste ore più violenti che mai. Mi piace cominciare da qui per misurare, con un taglio letterario e insieme politico, l’attualità di uno scrittore tra i più importanti del Novecento.
Le fiabe sono vere: il viaggio dell’eroe
Partiamo dal 1956: il 23 ottobre migliaia di studenti e operai scendono in piazza per una pacifica manifestazione di solidarietà nei confronti degli operai e studenti polacchi che a Poznan, nel giugno precedente, erano stati colpiti da una dura repressione; ventiquattro ore dopo i carri armati sovietici entrano in città. Per Italo Calvino, che proprio quell’anno è stato nominato dal PCI membro della Commissione culturale nazionale, si tratta di un momento spartiacque; dirà nell’articolo Quel giorno i carri armati uccisero le nostre speranze («Repubblica», 13 dicembre 1980, qui cit. da I. Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 2002, p. XX):
Noi comunisti eravamo schizofrenici. […] Volevamo essere testimoni della verità, i vendicatori dei torti subiti dai deboli e dagli oppressi, i difensori della giustizia contro ogni sopraffazione. Con un’altra parte di noi giustificavamo i torti, le sopraffazioni, la tirannide del partito, Stalin, in nome della Causa. Dissociati […] Il disgelo, la fine dello stalinismo, ci toglieva un peso terribile dal petto perché la nostra personalità dissociata, finalmente, poteva ricomporsi, finalmente rivoluzione e verità tornavano a coincidere.
Fallita la mediazione affinché il partito sappia farsi interprete di una reale trasformazione, nell’estate del 1957 Calvino dà le dimissioni dal Comitato federale di Torino, e il 7 agosto affida a una lettera pubblicata sull’«Unità» le ragioni della sua sfiducia. Dirà poi, nel seguito dell’articolo citato:
Quelle vicende mi hanno estraniato dalla politica, nel senso che la politica ha occupato dentro di me uno spazio più piccolo di prima. Non l’ho più ritenuta, da allora, un’attività totalizzante e ne ho diffidato. Penso che oggi la politica registri con molto ritardo cose che, per altri canali, la società manifesta, e penso che spesso la politica compia operazioni abusive e mistificanti.
Il 1956 è dunque, sul piano politico e intellettuale, un anno spartiacque, ma lo è anche sul piano letterario, poiché rende esplicito un orientamento narrativo antirealistico; segna la fine di una stagione e anche della fiducia nella possibilità di incidere positivamente sulla realtà con lo strumento della letteratura: Le fiabe italiane raccolte e trascritte da Italo Calvino escono proprio quell’anno, mettendo in discussione le categorie di vero e di falso, ma forse senza l’intenzione di disimpegno che alcuni vollero leggervi. Scrive infatti nell’introduzione:
Ora che il libro è finito, posso dire che questa non è stata un’allucinazione, una sorta di malattia professionale. È stata piuttosto una conferma di qualcosa che già sapevo in partenza […] io credo questo: le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale alla vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi di un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come un essere umano.
Non ho potuto evitare di soffermarmi sull’ultimo passaggio e su questa particolare idea di verità delle fiabe, riflettendo sul progetto di Favetto. Il suo accompagnamento ha permesso ai ventidue narratori di Oganòs di organizzare le proprie vicende biografiche secondo un filo narrativo, o meglio ancora una direzione (un orientamento, si direbbe in ottica pedagogica) che, come nei viaggi degli eroi e delle eroine delle fiabe, ha una precisa finalità nel «confermarsi come essere umani». L’espressione ha una densità pressoché intraducibile che però possiamo capire meglio nel confronto con altri testi teorici dello scrittore che, negli stessi anni, sta lavorando anche ai romanzi che comporranno la fiabesca Trilogia dei nostri antenati.
La resa al «mare dell’oggettività» e la «sfida del labirinto».
Nel 1960, sulla rivista «Il Menabò», n. 2, appare il saggio Il mare dell’oggettività (poi ripreso in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Einaudi, Torino, 1980):
Rivoluzionario è chi non accetta il dato naturale e storico e vuole cambiarlo. La resa all’oggettività, fenomeno storico di questo dopoguerra, nasce in un periodo in cui all’uomo viene meno la fiducia nell’indirizzare il corso delle cose, non perché sia reduce da una bruciante sconfitta, ma al contrario perché vede che le cose (la grande politica dei due contrapposti sistemi di forze, lo sviluppo della tecnica e del dominio delle forze naturali) vanno avanti da sole, fanno parte d’un insieme così complesso che lo sforzo più eroico può essere applicato solo al cercar di avere un’idea di come è fatto, al comprenderlo, all’accettarlo.
È una riflessione estremamente attuale, se pensiamo allo scoramento che ci coglie anche oggi davanti a problemi non meno complessi di quelli di allora: gli equilibri geopolitici internazionali, l’allarme climatico, una rivoluzione tecnologica non meno incisiva di quella che si apriva proprio sotto gli occhi di Calvino. Lo scrittore anticipa il nostro sentire, in una chiave solo apparentemente fatalista. In conclusione si domanda infatti se, «in mezzo alle sabbie mobili dell’oggettività», si possa trovare «quel minimo d’appoggio, che basta per lo scatto di una nuova morale, di una nuova libertà». Dal momento che il cuore della questione è il senso dello scrivere e del leggere, la risposta arriva dal confronto con la letteratura, in particolare con il Pasticciaccio di Gadda,
dove la coscienza razionalizzatrice e discriminante si sente assorbire come una mosca sui petali di una pianta carnivora. E da questo sprofondamento dell’autore e del lettore nel ribollire della materia narrata nasce un senso di sgomento: e questo sgomento è il punto di partenza di un giudizio, il lettore può in grazia d’esso fare un passo in là, riacquistare il distacco storico, dichiararsi diverso e distinto dalla materia in ebollizione.
Sgomento e giudizio comporrebbero dunque una poetica della negazione secondo l’archetipo montaliano «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»? La soluzione è ancora più articolata.
Nel 1962, nuovamente su «Il Menabò», Calvino pubblica il saggio La sfida del labirinto, che ripropone l’annosa questione del rapporto tra letteratura e società:
Oggi cominciamo a richiedere alla letteratura qualcosa di più d’una conoscenza dell’epoca o di una mimesi degli aspetti esterni agli oggetti e interni all’animo umano. Vogliamo dalla letteratura un’immagine cosmica, cioè al livello dei piani di conoscenza che lo sviluppo storico ha messo in gioco. […] La letteratura del labirinto ha in sé una doppia possibilità. […] Da una parte c’è l’attitudine oggi necessaria per affrontare la complessità del reale […] dall’altra c’è il fascino del labirinto in quanto tale, del perdersi nel labirinto, del rappresentare questa assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo.
La sfida all’inferno: fare qualcosa per il solo piacere di farlo?
Il grande impero che Marco Polo esplora ne Le città invisibili è una metafora della metafora: l’inconoscibile in cui è facile perdersi, tra città che non trovano posto in nessun atlante reale. La ricetta etica che conclude l’opera è probabilmente la parte più nota del romanzo, a cui assegna una caratura morale che piace molto anche a chi non lo ha letto o lo ha dimenticato. Tuttavia scegliere, nell’inferno dei viventi, quel che «non è inferno», è cosa tutt’altro che semplice: Marco Polo avverte il Gran Khan del rischio e della necessità di attenzione e apprendimento continui. Le parole conclusive di Marco Polo sulla città infernale non si possono, però, comprendere senza quelle ch’egli dedica alla città perfetta:
Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t’ho detto.
Il rischio e la necessità di attenzione e apprendimento continui nascono dunque dalla constatazione che la città utopica e quella distopica coesistono nella stessa caotica topìa, che è appunto quel mare dell’oggettività in cui le cose vanno avanti da sé, creando sistemi complessi, labirintici.
Arrivo al fondo del mio discorso riportando per intero il testo della città di Marozia (la mia preferita). Lo precede un’avvertenza: la strage di Piazza Fontana a Milano è del dicembre 1969; nel 1972, Pinelli è già morto, il commissario Luigi Calabresi sarà ucciso il 17 maggio del 1972; non si teme smentita a pensare che il clima sociale e politico di quel momento sia non meno plumbeo di quello attuale, segnato da conflitti brutali – la verità fiabesca, del resto, intrattiene sempre una relazione nascosta con il mondo reale. Ecco dunque la lezione di Marozia.
Una Sibilla, interrogata sul destino di Marozia, disse: – Vedo due città: una del topo, una della rondine. L’oracolo fu interpretato così: oggi Marozia è una città dove tutti corrono in cunicoli di piombo come branchi di topi che si strappano di sotto i denti gli avanzi caduti dai denti dei topi più minacciosi; ma sta per cominciare un nuovo secolo in cui tutti a Marozia voleranno come le rondini nel cielo d’estate, chiamandosi come in un gioco, esibendosi in volteggi ad ali ferme, sgombrando l’aria da zanzare e moscerini. – È tempo che il secolo del topo abbia termine e cominci quello della rondine, – dissero i più risoluti. E di fatto già sotto il torvo e gretto predominio topesco si sentiva, tra la gente meno in vista, covare uno slancio da rondini, che puntano verso l’aria trasparente con un agile colpo di coda e disegnano con la lama delle ali la curva d’un orizzonte che s’allarga.
Sono tornato a Marozia dopo anni; la profezia della Sibilla si considera avverata da tempo; il vecchio secolo è sepolto; il nuovo è al culmine. La città certo è cambiata, e forse in meglio. Ma le ali che ho visto in giro sono quelle d’ombrelli diffidenti sotto i quali palpebre pesanti s’abbassano sugli sguardi; gente che crede di volare ce n’è, ma è tanto se si sollevano dal suolo sventolando palandrane da pipistrello. Succede pure che, rasentando i compatti muri di Marozia, quando meno t’aspetti vedi aprirsi uno spiraglio e apparire una città diversa, che dopo un istante è già sparita. Forse tutto sta a sapere quali parole pronunciare, quali gesti compiere, e in quale ordine e ritmo, oppure basta lo sguardo la risposta il cenno di qualcuno, basta che qualcuno faccia qualcosa per il solo piacere di farla, e perché il suo piacere diventi piacere altrui: in quel momento tutti gli spazi cambiano, le altezze, le distanze, la città si trasfigura, diventa cristallina, trasparente come una libellula. Ma bisogna che tutto capiti come per caso, senza dargli troppa importanza, senza la pretesa di star compiendo un’operazione decisiva, tenendo ben presente che da un momento all’altro la Marozia di prima tornerà a saldare il suo soffitto di pietra ragnatele e muffa sulle teste. L’oracolo sbagliava? Non è detto. Io lo interpreto in questo modo: Marozia consiste di due città: quella del topo e quella della rondine; entrambe cambiano nel tempo; ma non cambia il loro rapporto: la seconda è quella che sta per sprigionarsi dalla prima.
La narrazione accosta leggerezza e pesantezza in un movimento continuo, ma suggerisce anche una via che tiene insieme moralità e libertà, concetti che altrove parrebbero quasi antitetici: «basta che qualcuno faccia qualcosa per il solo piacere di farla, e perché il suo piacere diventi piacere altrui», ma «come per caso, senza dargli troppa importanza», in una spontanea propensione alla simpatia, lontanissima dall’affettazione.
Si converrà che il romanzo Le città invisibili è attraversato da un afflato felicemente politico e che, per estensione, lo è anche il teatro di comunità che l’opera ha ispirato a Gian Luca Favetto, quasi volo di rondine in cui gioiosamente si realizza lo spirito visionario di uno scrittore nato un secolo fa.