Torno in particolare su un passaggio della sua lettera al Ministro che riguardava la multimedialità e conteneva l’invito a riportare le nuove tecnologie al ruolo di mezzi (intendiamoci, preziosi e insostituibili) “al pari del libro cartaceo, gessi e lavagne”. Confesso che è facile riconoscere in quest’espressione il disagio diffuso e condivisibile per l’esaltazione futuristica e un po’ iconoclasta che talvolta sembra imperversare nelle nostre scuole e che spesso sacrifica le migliori tradizioni di interpretazione e trasmissione del sapere alla pretesa di un’innovazione tout court. Eppure non sono certa che la definizione di mezzi risolva definitivamente la questione.
Allo stesso modo, mi è parso riconoscibile il disagio formulato nel ricordare la tragedia di Carolina e del suo collega romano: entrambi ci paiono vittime di una barbarie le cui responsabilità non possono gravare sulle spalle dei docenti, troppo spesso chiamati a supplire carenze sociali e familiari, senz’altri strumenti che quel poco di buon senso, cultura e umanità che la sorte e la vita hanno dato. Se esiste, come pare, una conclamata emergenza sociale, culturale, civica e dunque anche educativa, non si può tacciare grossolanamente di indifferenza e disinteresse il nostro limite umano di non poter essere altro che docenti, ancorché, ci auguriamo, buoni docenti.
Eppure anche su questo vorrei aggiungere qualcosa. Perché l’evidenza di essere inadeguati al compito non implica necessariamente la rinuncia a farsi carico dell’onere, come certo sa per esperienza il professor Reali.
Vengo al punto. Non credo che oggi la discriminazione degli omosessuali, l’esercizio della diffamazione e l’emarginazione siano più diffuse di un tempo, benché su questi temi qualunque progresso sia e sarà sempre tardivo e insufficiente. L’excursus sulla crudeltà della fama che dilaga impietosa e inarrestabile, confondendo verità e menzogna, già nell’Eneide era corollario al colpevole connubio fra Enea e l’infelice Didone. Tuttavia pare evidente che nulla fosse quel mostro rispetto al turbine di parole generato dai social network. Qualunque sia la nostra opinione sugli stessi, è un fatto che i più giovani ne sono troppo spesso incoscienti e indifesi fruitori, benché gli esiti siano quasi sempre meno tragici dei casi citati.
Un tempo c’era il muretto, ci si trovava lì. Se la compagnia non ti andava più a genio, se incorrevi in qualche bullo, c’erano altri muretti e il mondo era grande. Oggi il mondo è piccolo e la bacheca di Facebook è la stessa per tutti. Se sporcano il tuo nome, calpestano la tua dignità, deridono la tua identità, non c’è luogo in cui tu ti possa nascondere. Loro sono tanti, spesso sono anonimi e perciò potentissimi, le loro parole sono ovunque e per sempre. Questo immagino pensasse Carolina e forse anche il suo coetaneo romano, ma come loro molti altri adolescenti che si sono sentiti inchiodati per l’eternità a un frame della loro vita, a un aspetto della loro personalità, deriso.
La tristissima vicenda di Carolina mi aveva raggiunto proprio mentre introducevo l’epica omerica in una prima superiore, soffermandomi sui concetti di civiltà della vergogna e civiltà della colpa, indagando con i ragazzi come nelle diverse culture si determini la scelta di ciò che è giusto. La coscienza personale e il riconoscimento da parte degli altri (la timé omerica) apparivano come gli estremi di un’asse lungo cui misurare la specifica prospettiva etica di una comunità o di un singolo, oggi come un tempo. Anzi, ci era parso, oggi con maggior fatica di un tempo. In maggio, con quegli stessi ragazzi, ho assistito a uno spettacolo proprio dedicato ai pericoli del web (Nella rete, Teatro del Buratto, Milano – qui il video) e la discussione in classe è stata più ricca grazie alle riflessioni precedenti. Riferisco il percorso perché mi è parso pertinente rispetto agli argomenti in programma e non meno efficace di quelle ore che noi docenti releghiamo ad esperti esterni, salvo poi sottoscrivere non di rado, con la nostra assenza dall’aula e con la scarsa disponibilità a riprendere poi le fila del discorso (il tempo che incalza, i programmi …), il nostro personale distacco e la tacita autorizzazione a considerare archiviata l’esperienza prima che sia stata metabolizzata.
Il punto è, mi pare, decidere se possiamo sottrarci alla responsabilità educativa su questa nuova frontiera tecnologica della civiltà. Per quel che osservo, i genitori sono spesso (non sempre, s’intende) poco preparati o anch’essi “leggeri” fruitori della rete, mentre i ragazzi, lì dentro, ci vivono, accompagnati da coetanei più provveduti di competenze tecnologiche, ma non necessariamente provvidi, osservati da un mondo adulto che li vuole target, supporter, promotori di merci e di idee nel loro piccolo mondo. E’ un quadro pessimistico e parziale, lo so, ma delle molte occasioni che il web offre si parla abbastanza. Se vogliamo che queste nuove buone occasioni, non siano oscurate dai nuovi pericoli, tocca proprio agli insegnanti, testimoni fra gli ultimi di una civiltà che ancora ci è cara, aiutare i più giovani a trovare la chiave per tradurre in quel mondo nuovo i valori culturali e umani che sono, siamo, chiamati a trasmettere: perché questo del “tradurre” è da sempre il mestiere di ogni pedagogo.
Il web non è solo un mezzo, un canale. I ppt non sono la versione digitale dei nostri schemi fotocopiati. A volte penso che siamo in un età di frontiera, di soglia, come i nostri antenati dell’alto medioevo, che videro tramontare la stagione dei rotoli di papiro, soppiantati dalla pergamena dei codici, e forsennatamente si adoperarono in quell’opera di tradizione per copia che ci ha salvato Cicerone, Virgilio, Seneca, ma altrove anche Aristotele e lo stesso Omero.
Credo che chi ha il compito di educare debba assumersi l’onere di decidere cosa merita d’essere salvato, non tanto in termini di scritture (la rete è più duttile della pergamena e il proliferare delle copie non è un problema, anzi se mai genera problemi), quanto in termini valoriali.
Dobbiamo decidere se ci sta bene che il mondo della rete sia un mondo a parte in cui libertà e responsabilità non siano necessariamente coniugate, o se siamo disposti a lavorare per una sorta di resistenza civile che salvi almeno l’essenziale della buona idea di umanità che dobbiamo a chi ci ha preceduto.
Ci sono temi da cui non possiamo scappare. Proverò a citarne alcuni:
1. il diritto al rispetto del nome (che l’articolo 22 equipara alla capacità giuridica e alla cittadinanza), come espressione della propria persona;
2. il valore della riservatezza e della distanza, come spazio in cui distinguere il vero significato dello scegliersi, dell’avvicinarsi, dell’essere amici o del non esserlo;
3. la responsabilità morale di chi diffama, anche quando non dovesse tradursi in sanzione civile e penale (benché si prepari un debito ampliamento dell’espressione “a mezzo stampa”);
4. il dovere di firmare le proprie parole e di diffidare dei commenti anonimi (penso al fenomeno Spotted, nato come occasione goliardica e innocente, ma già utile a generare il riso di pochi e il pianto di molti);
5. l’idea che l’istante è prezioso, come scriveva Orazio, ma forse, anche se è un istante che ci rappresenta come non vorremmo, può non essere una condanna e certo non vale una vita.
E poi, tornando ai contenuti anche disciplinari del nostro mestiere, alle abilità cognitive, cose sulle quali già di recente hanno scritto – entrando più nello specifico – i colleghi Marco Guastavigna (Slow pc) e Gian Paolo Terravecchia (Il senso del digitale a scuola):
6. il diritto-dovere di un pensiero personale e fondato, a fronte di uno strumento che (taglia e incolla) può renderci uomini e donne sandwich, esperti del retweet e delle condivisioni di pensieri altrui, avatar senz’anima in un mondo liquido. Perché non lavorare, con ciò che le nostre competenze di antichisti e italianisti ci offrono, sulla differenza tra emulazione, imitazione, copia e plagio?
7. il dovere di pretendere per sé un’informazione culturale vagliata e il più possibile fondata: quindi la critica delle fonti come risposta al proliferare di bufale, menzogne e banalità, come tutela di sé e della propria credibilità;
8. la percezione dell’importanza di discernere nel tanto, e potenzialmente nel tutto, ciò che è pertinente all’oggetto della mia ricerca, utile, indispensabile o, al contrario, fuorviante;
9. la necessità di accostare all’approccio simultaneo del link, la prospettiva della diacronia e della consequenzialità logica: il riconoscimento della causa in ciò che viene prima, del fine in ciò che orienta, dell’effetto in ciò che segue. Per questo le presentazioni multimediali che accompagnano le nostre lezioni possono essere molto più che semplici schemi.
Se la cultura che trasmettiamo non assolve alla funzione di fare dei nostri studenti degli individui capaci di distinguere e scegliere e, quindi, dei buoni cittadini, che cultura è?
E se la città che i nostri studenti popolano è anche il web, li lasceremo soli nella costruzione dei loro riferimenti, perché in quel mondo ci sentiamo talvolta trascinati con la diffidenza di chi è nato altrove?
In questa sola accezione la tecnologia mi pare un fine dell’educazione, non meno nobile della soluzione di un algoritmo o del commento di un passo di Dante e, forse, non estranea ad entrambe le cose.