Credenze e linguaggi presenti nella scuola: una revisione critica

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Alcune riflessioni sui ritornelli nel discorso sulla scuola, riprese in gran parte dal documento “COSA FARE PER LA SCUOLA: Indicazioni per cambiamenti in un’ottica evidence-based. Norme, orientamenti e atteggiamenti didattici”, disponibile sul sito SApIE, e dal volume di Antonio Calvani e Roberto Trinchero “Dieci falsi miti e dieci regole per insegnare bene” (Carocci, Roma 2019), a cui rimandiamo anche per ulteriori approfondimenti.

Sono tanti gli interrogativi che un docente affronta chiedendosi quali siano le strategie e gli atteggiamenti migliori da adottare per rendere efficace la sua pratica didattica. Purtroppo, tra pubblicazioni, libri di testo e corsi di aggiornamento, circolano parecchie idee spesso non suffragate da evidenze o apertamente sconfessate da queste, che non fanno che confondere ulteriormente.
Una didattica prigioniera di slogan, credenze ingenue o terminologie generiche è quanto di più dannoso per un miglioramento reale degli apprendimenti, in quanto distoglie gli insegnanti dalle azioni concrete che consentono una didattica e una valutazione efficaci e sostenibili. Bisognerebbe sempre domandarsi se affermazioni che si sentono sono espresse con termini chiari e soprattutto se sono suffragate da risultati empiricamente constatati, oppure sono solo frutto di generiche ideologie povere o prive di fondamento.
La ricerca evidence-based è un orientamento sviluppatosi da una ventina di anni che cerca di stabilire, sulla base di comparazioni sistematiche tra più indagini, le strategie e gli atteggiamenti didattici che trovano le migliori conferme di efficacia; uno degli effetti collaterali è anche quello di sollecitare, ai diversi livelli delle decisioni scolastiche, una maggiore consapevolezza critica sulla chiarezza e affidabilità dei modelli culturali e didattici seguiti.
Presentiamo qui cinque questioni, a cui frequentemente si richiamano atteggiamenti e pratiche didattiche, ma che entrano in conflitto con le evidenze disponibili.

La lezione frontale va abolita?

È un ritornello che ricorre ormai da parecchi decenni e che si presenta da sempre come l’insegna dei movimenti “innovativi”. Il miglioramento della scuola si identificherebbe con l’eliminazione delle lezioni espositive e con l’organizzare l’intera didattica mettendo al centro apprendimento autonomo, per scoperta e lavoro di gruppo. Sfortunatamente, nonostante la forte enfasi teorica e l’ideologia che sostiene questo cambiamento (attivismo, costruttivismo), non si sono mai trovati reali applicazioni capaci di dimostrare che sia possibile migliorare la qualità dell’apprendimento per questa via.
Tutta la ricerca più avveduta è ormai concorde nel sottolineare che la lezione frontale non può né deve essere abolita e che i modelli basati sull’istruzione diretta sono preferibili: certamente la lezione frontale va modificata, non va identificata con la piatta esposizione retorica dominante nei modelli tradizionali, ma deve assumere il carattere di un’interazione meglio strutturata e finalizzata verso obiettivi più chiari e condivisi con la classe.
È anche ormai unanimemente assodato nella ricerca scientifica evidence-based che tutte le strategie che riducono la guida istruttiva a favore dell’autonomia e dell’apprendimento per scoperta da parte degli alunni risultano nel tempo meno efficaci, quando non producono veri e propri disastri educativi. I risultati migliori si ottengono quando si pone al centro la figura dell’insegnante: intervallare la spiegazione con dimostrazioni ad alta voce, fornire feedback frequenti agli alunni, favorire le attivazioni metacognitive, sono le azioni didattiche su cui convergono i maggiori filoni di ricerca sulle scienze dell’apprendimento. Questo non vuol dire certo che momenti di problem solving o di apprendimento per scoperta e lavori di gruppo debbano esser aboliti nella didattica ordinaria, ma solo che devono coesistere in contesti in cui la guida istruttiva dell’insegnante venga complessivamente lasciata in primo piano.
Insomma, quella che va totalmente riformulata è la “lezione tradizionale” fatta al 90% di spiegazione del docente e al 10% di interrogazioni individuali, in favore di un modello nuovo che, però, non rinuncia ai necessari momenti di frontalità.

Le tecnologie migliorano l’apprendimento?

Per anni è sembrato che fare buona didattica significasse “innovare” e “introdurre nuove tecnologie”. Riguardo l’introduzione delle tecnologie a scuola disponiamo ormai di una base di ricerche sufficientemente vaste da permetterci di fare ragionevoli bilanci, uscendo fuori dalla logica degli slogan e delle infatuazioni del momento.
La ricerca ha sconfessato la vecchia idea secondo cui le tecnologie rappresenterebbero di per sé un fattore di miglioramento degli apprendimenti degli studenti. Sul piano dei grandi numeri l’impatto delle tecnologie sul miglioramento degli apprendimenti scolastici, tema studiato da oltre trent’anni, risulta nullo o quasi. Le tecnologie tendono generalmente a introdurre fattori di distrattività e sovraccarico, con rischi maggiori nella scuola di base. Ne deriva che investire in politiche generali diffuse di finanziamento delle tecnologie aspettandosi che il livello degli apprendimenti migliori è, quanto meno, una aspettativa poco realistica.
Alla luce di quanto conosciamo sembra più affidabile avvalersi dell’aiuto tecnologico all’interno di metodologie e di didattiche particolari (sulla disabilità, sull’insegnamento delle lingue straniere, su ambienti di simulazione nelle scuole superiori) oltre che in scuole ad indirizzo tecnico per finalità professionali.
Quanto sopra va poi tenuto distinto dall’educazione alla competenza digitale, che è un ambito formativo che rimane di primaria importanza e che giocoforza richiede l’impiego consapevole delle tecnologie. 

Ridurre il numero di alunni per classe innalza automaticamente la qualità dell’istruzione?

Qui si tocca un tema scottante, quello delle cosiddette “classi pollaio”, e bisogna fare attenzione a non essere fraintesi. Non si può che condividere la necessità di investire nell’edilizia scolastica e ampliare gli spazi della scuola, presupposto di base anche per fare una didattica differenziata e realmente inclusiva. Il punto è che il rapporto tra numero di alunni per classe e livello degli apprendimenti è stato a lungo studiato senza che sia stata trovata una correlazione tra i due fattori. Un esempio facilmente verificabile è dato da molte scuole di paesi asiatici, cinesi in particolare, che alle prove internazionali ottengono risultati solitamente migliori di quelli dei paesi occidentali pur avendo più alunni per classe. La spiegazione che dà Hattie – uno dei maggiori esperti di evidence-based education, che si è occupato di questo aspetto – è da ricercare nel fatto che gli insegnanti di classi meno numerose non sfruttano il vantaggio offerto esercitando una maggiore cura per il singolo, con maggiori e migliori interazioni e feedback più rispondenti alle istanze personali; essi continuano invece ad adottare il medesimo metodo fondato su spiegazione, interrogazione e valutazione convenzionale. Dunque nel caso di una riduzione del numero degli alunni per classe ci si dovrebbe chiedere: in che modo con un numero minore di alunni si può beneficiare di questo vantaggio? Quali modifiche si devono apportare alla didattica convenzionale? Senza adeguate risposte a queste domande la riduzione del numero degli alunni per classe non comporterà alcun miglioramento.

Per impostare una didattica adeguata bisogna partire dagli stili di apprendimento degli alunni?

È un suggerimento quasi “di rito”, che si trova ancora molto diffuso nella divulgazione scolastica istituzionale. Il fatto è che la ricerca ha disconosciuto ormai l’affidabilità scientifica e l’utilità pratica di questo concetto. Sugli stili di apprendimento sono fiorite in passato tante teorie senza che si sia mai trovata qualche significativa efficacia empirica: la ricerca non è mai riuscita a presentare percorsi didattici, ispirati a uno dei modelli teorici esistenti sugli stili di apprendimento, che abbiano dimostrato di ben funzionare (facendo ovviamente esclusione per i soggetti con limitazioni sensoriali: non udenti, non vedenti). Se dunque persino la ricerca non è riuscita a mettere a frutto queste differenze, come si pretende che lo facciano gli insegnanti?
Ovviamente questo non vuol certo dire che non esistano differenze tra i soggetti, ma che quelle che interessano a fine didattico, e in particolare per una didattica individualizzata, sono quelli da sempre indicati nella letteratura: il livello intellettivo e linguistico, il retroterra di conoscenze posseduto sul dominio specifico, la capacità di attenzione e la disponibilità al rapporto educativo.

L’attività progettuale della scuola e dell’insegnante è una chiave per innovare e migliorare la qualità dell’istruzione?

Questo è un aspetto non molto analizzato nella letteratura internazionale dal momento che riguarda un tratto tipico della scuola italiana, all’insegna del mito di una creatività ingenua. Ci si riferisce qui alla politica dei progetti che ha caratterizzato la vita scolastica degli ultimi anni ma anticipata anche, nei decenni addietro, dalla richiesta di “sperimentazioni”. Alle scuole e agli insegnanti, dal 1970 in poi, si infatti è chiesto di sperimentare” e poi di progettare. È però rimasto sempre estremamente difficile, all’interno delle centinaia di sperimentazioni e progetti avanzati dalle scuole, trovare adeguati rendiconti di risultati, così da rendere trasferibile il modello.
Quella dell’insegnante che diventa “progettista” si presenta come una mitologia tanto seducente quanto ingannevole. Richiedere alle scuole di progettare senza una preparazione adeguata o supporti specializzati, significa solo sollecitare la produzione di elenchi di “auspici generici”, solitamente mai corrispondenti a ciò che realmente verrà fatto, destinati a non essere sottoposti a controlli affidabili sulla loro efficacia.
La presentazione o l’adozione di un particolare progetto (modello o programma di intervento didattico) dovrebbe essere sottoposta a una selezione molto più accurata e consentita in contesti in cui sono possedute le necessarie abilità. In primo luogo un buon progetto, anche a livello di prima formulazione, dovrebbe dimostrare di conoscere lo stato dell’arte e le conoscenze già acquisite; presentare obiettivi chiari e adeguatamente operazionalizzati; mostrare coerenza tra intervento e obiettivo; mostrare come possa essere ripetibile e disseminabile; essere accompagnato da un sistema di rendicontazione trasparente.

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Loto Valentino Montina

è stato educatore e insegnante di sostegno, specializzato nei comportamenti problema e nell’autismo. Oggi è docente nella scuola primaria e formatore esperto nei problemi dell’apprendimento e nei comportamenti problema.

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