Diceva Hegel che “Ciò che è noto non è conosciuto”, intendendo che quando, nel processo della conoscenza, presupponiamo qualcosa come noto, inganniamo noi stessi e gli altri. È un monito epistemico, questo del filosofo tedesco, posto a fondamento di una rigorosa teoria della conoscenza. Ridotto ad aforisma, si è trasformato in un generico invito alla rinuncia alle facili scorciatoie verso verità di comodo. Spero di non scandalizzare nessuno ammettendo che, per me, il concetto di Europa (e di Europa unita, in specie) appartiene al dominio del noto, galleggiando per ciò stesso in una nebulosa indistinta di pigre verità assunte per osmosi e tautologiche petizioni di principio.
Che l’Europa non sia un’entità geografica definita e rintracciabile su una carta geografica credo di averlo appreso relativamente di recente. Dalla scuola materna all’università so di aver ripetuto, più o meno a memoria, il giro d’orizzonte degli inesistenti confini, fatti per tre quarti di acqua salata, e per il rimanente di montagne, nemmeno tanto alte. Che ci fossero un’enorme nazione e una splendida città divise tra due continenti mi sembrava una curiosità capricciosa, frutto non tanto della volontà di qualche geografo quanto delle necessarie circonvoluzioni della Storia.
Mi sbagliavo, evidentemente, ma lo facevo con ottime ragioni. Storiche, appunto. Cosa poteva esserci di più vincolante e identitario di secoli di guerre e orrori? Come fosse un aspro cammino verso la conoscenza reciproca e la fratellanza, mi pareva che le vicende che si sono susseguite dalle guerre persiane ai giorni nostri non fossero altro che il particolare modo che le genti avevano trovato per definire meglio se stesse in rapporto agli altri, e al territorio occupato. Il comune substrato culturale mi sembrava la testimonianza più salda di tale rapporto e di tale identità antropologica. Avrei capito solo più tardi che non di un unico substrato si trattava, e che le matrici di quella che chiamiamo oggi identità europea e occidentale andrebbero ricercate in ambiti geografici e spirituali che occidentali non sono, e tanto meno “europei”.
Amo l’Europa di un amore assoluto e incondizionato. La ragione “nuova”? I miei figli, ai quali auguro orizzonti più ampi di quelli toccati in sorte a me.Europeista convinto, quale da sempre mi considero, ho vissuto questo processo dal “noto” al “conosciuto” come una messa alla prova personale e culturale. Ci ho impiegato del tempo, ovviamente, e la cosa mi è costata fatica e intimo dolore. Ma è stato anche un processo di indubitabile crescita morale e, a suo modo, “sentimentale”. Come quando si scoprono nuove ragioni per amare una persona che si credeva di conoscere bene e che ci ha riservato inattese sorprese. La si ama perché è quella persona, senza bisogno d’altro.
Con l’Europa è lo stesso, almeno per me: amore assoluto e incondizionato. La ragione “nuova”? I miei figli, ai quali auguro orizzonti più ampi di quelli toccati in sorte a me, e volontà di confronto, libertà di movimento, passione conoscitiva, fervore dialettico, competenza linguistica, coraggio progettuale e convivenza pacifica. A loro cerco di instillare il dubbio sulle facili certezze di chi circoscrive i propri confini all’orto di casa o, peggio, rintraccia tra paralleli e meridiani i segni di ineluttabili destini e fatali missioni. A loro vorrei poter dare la scala che permetta di guardare ben al di là dei muri, ahimè non solo metaforici, che i miei coetanei oggi si affannano a erigere a difesa delle proprie paure.
E devo dire che non mi sento solo in questa “missione”: sento la vicinanza dei molti che condividono questo mio punto di vista. Sento, soprattutto, la presenza di una scuola (e di tanti insegnanti!) che hanno voglia di trasmettere non un generico senso di appartenenza a un’indistinta comunità continentale, ma il valore del progetto culturale e umano più affascinante e grandioso che si possa immaginare: quello che vorrebbe far emergere, dalla consapevole diversità, il desiderio di un futuro condiviso e armonico.