Faccio notare che, per puri motivi formali, non ogni risposta va bene: dire ad esempio che ciò che conta di più nella pratica docente è la motivazione del discente, è sbagliato. Possiamo dare per pacifico che il discente sia motivato. Il quesito non riguarda il discente, ma – mi si perdoni la nota lapalissiana – la pratica docente. A volte, quando si intraprende un nuovo gioco, il fatto di ricordare l’ovvio, presente in forma contratta nelle regole, è utile: fa risparmiare un sacco di controversie sterili. Allo stesso modo, non vale dire che non c’è qualcosa che conta di più a motivo del fatto che in educazione le cose sono tutte connesse. Sarebbe come dire: “non voglio giocare”. Certo è lecito sottrarsi, ma di questo si tratta. In questo gioco d’estate invece propongo, per un momento, di mettere al bando gli olismi e, almeno per una volta, di buttarsi e di cercare il di più, arrischiandosi sui sentieri argomentativi che sfidano chi voglia mettersi in gioco.
Quanto a me, fino a due settimane fa avrei detto che a contare di più è la competenza del docente. La risposta, abbastanza generica, mi lasciava poi manovra per dire che la competenza non consiste solo nel set di conoscenze, ma anche nelle capacità di trasmetterle e di farle acquisire. Ovviamente si sarebbe trattato di una risposta così vaga e vasta da comprendere tutto, da coprire tutto. Come capita alle tesi onnicomprensive, fagocitanti, il suo punto debole è che finisce con l’essere noiosa e, soprattutto, poco utile.
Se poi si restringe il tiro, non credo che tutte le risposte siano altrettanto buone. Sempre fino a due settimane fa, sarei stato tentato, se costretto a dare una risposta circoscritta, a dire che ciò che conta di più è la competenza sui contenuti da parte, appunto, del docente. Avrei provato a sostenere argomenti come quello secondo cui un docente che non sa, non ha nulla da dare: un docente ignorante non serve a nulla, il suo compito di tradere, di tramandare la conoscenza, è inevitabilmente destinato a essere disatteso. In positivo, avrei potuto sostenere che colui che sa ha le carte in regola per guidare gli altri nel percorso della conoscenza. La conoscenza, insomma, sarebbe una condizione magari non sufficiente, ma di certo necessaria. Ciò basterebbe a renderla la più importante. Oppure avrei probabilmente sostenuto che un docente non preparato sui contenuti è un modello di incompetenza e perciò è quanto vi è di più diseducativo e, persino, umiliante per il sistema stesso: è l’incarnazione dell’incompetenza approvata e, addirittura, legittimata dal sistema. Se perciò il sistema non si dota di docenti preparati nei contenuti ne viene un gran male per chi deve apprendere e non ha nessuno che gli insegni e, alla fine, ne viene una delegittimazione dell’intero sistema. Molto probabilmente avrei aggiunto altri argomenti. Non so se questi o gli altri avrebbero però convinto il mio lettore. Io al momento, dopo le scorse due settimane, non li trovo decisivi e intravedo diverse vie per smontarli.
La risposta che, per parte mia, sarei propenso oggi a dare, di ritorno dalle ferie in Spagna, è che ciò che conta di più è la giusta tolleranza all’errore (o alla incompetenza). Mi spiego con un esempio: nel mondo anglofono (ma anche in quello tedescofono, per non parlare del francofono) che ho avuto modo di frequentare in più occasioni, la soglia di tolleranza all’errore linguistico (alla incompetenza – d’ora in poi lascio implicita quest’aggiunta importante) è mediamente bassa. Si viene socialmente puniti in vari modi per gli errori nella comunicazione: l’interlocutore lancia occhiate di antipatia, esprime fastidio, non capisce, chiude la conversazione, etc. Diversamente vanno le cose in Spagna: la tolleranza all’errore è mediamente alta. Gli spagnoli non solo di solito non puniscono l’errore, ma talvolta cercano persino di capire come mai l’hai fatto e magari esplorano le radici dell’italiano che hanno generato l’errore in spagnolo. In questi casi non solo non ci si sente incapaci, ma si avverte un sincero e divertito interesse per quello che si è. Questa situazione, genera in chi apprende una disponibilità a esplorare, perché egli sa che a farlo ne seguirà qualcosa che, al minimo, non è spiacevole. In certi casi dunque, una alta tolleranza per l’errore è opportuna, perché mantiene alto il desiderio di esplorare, di fare pratica. Ovviamente, non sempre è bene essere tolleranti. Se si insegna a svolgere compiti di alta precisione, una tolleranza all’errore può comportare danni anche molto gravi. Saper tenere il giusto profilo di tolleranza è dunque altamente formativo, perché non inibisce l’esploratività, tiene desta la curiosità intellettuale e la voglia di mettersi alla prova. Al contempo in tal modo non si forma alla sciatteria di chi si accontenta: questa è nefasta perché genera uomini mediocri, intelletti spenti, superficialità e qualunquismo. In questo senso, saper mantenere uno stile di tolleranza progressivo, sempre più esigente, ma di volta in volta bilanciato per la situazione in atto è ciò che indica la via a chi impara, segnala a questi ciò che c’è di più importante e lo rende protagonista attivo nel processo. Se si è maestri nel saper tenere la giusta tolleranza, si può anche rinunciare all’esercizio di un’alta competenza sui contenuti, visto che si può spingere, maieuticamente, il discente ad apprendere per propria iniziativa.
Questa oggi è la mia proposta, ma al lettore lascio il piacere di esplorare nuove piste, di cercare nuove soluzioni, di giocare e di mettersi in gioco, senza la paura di sbagliare.