Ci dobbiamo figurare la scena: Socrate si trova in carcere, condannato a morte. Egli vive le sue ultime ore prima di bere il veleno. Decide di discutere dell’immortalità dell’anima. Tutti rimangono impressionati dai suoi argomenti, ma due tra i presenti borbottano tra loro. Allora Socrate li incoraggia a parlare apertamente: sono le sue ultime ore ed egli sente che è giunto per lui il momento di fare il proprio discorso più bello. Loro parlino pure, senza risparmiargli nulla. Perciò essi prendono coraggio e scaricano su Socrate le loro obiezioni. L’impatto della critica però è tremendo. Dopo il loro discorso, sembra infatti che il destino ineluttabile di Socrate sarà la dissoluzione. La situazione creatasi è o triste e imbarazzante, oppure una beffa destinata a guastare la speranza di Socrate di fare il proprio discorso più bello. In entrambi i casi sembra non esserci esito positivo.
Andare al testo di Platone è il modo migliore per percepire l’impatto che la situazione ha sui presenti: «Tutti, dopo averli sentiti dire tali cose [scil. Simmia e Cebete], provammo un senso di smarrimento, come poi ci dicemmo l’un l’altro: infatti, mentre prima eravamo rimasti del tutto convinti dal precedente ragionamento, ora pareva che essi ci sconvolgessero le idee e ci gettassero nel dubbio, non solo rispetto al ragionamento già fatto, ma anche rispetto a quelli che si sarebbero fatti appresso; nel dubbio che noi fossimo giudici buoni a nulla, o che la cosa in se medesima fosse tale che non si potesse fare su essa affidamento alcuno» (uso qui e di seguito la traduzione di G. Reale, Brescia 1970).
Triste e imbarazzante, o una beffa, dicevamo. Triste perché, da quanto detto dai due, segue che del loro amico non resterà più nulla, di lì a poco. Imbarazzante, perché quello sembra il momento meno adatto per dire proprio a lui quelle cose. Se però loro non hanno ragione, allora che fiducia si può dare a una ragione, quella dei presenti, che si era prima convinta ai primi argomenti avanzati da Socrate, per poi convincersi dell’esatto contrario per opera di Simmia e Cebete? Un nuovo discorso di Socrate potrebbe suonare lì per lì convincente, ma ormai la fiducia nella ragione, dopo questi avvenimenti, è scossa. Il canto di Socrate non potrebbe fugare questo dubbio.
E davvero Socrate è ben consapevole di ciò che sta avvenendo intorno a sé. Egli coglie lo smarrimento dei presenti e per quanto avviene a questo punto, più che per quello che avverrà dopo nel dialogo, ancora oggi dobbiamo riconoscere che egli è riuscito a compiere nel Fedone il suo canto del cigno. Il maestro del domandare inesauribile, l’uomo dell’umile «so di non sapere», interpretato da alcuni come un padre dello scetticismo, con grande tenerezza per i suoi amici e con tutta la maestria di cui è capace, attacca la misologia, l’odio per la ragione.
Rileggendo le parole di Fedone a questo punto si può capire come il passaggio più importante del dialogo, forse dell’intero insegnamento di Socrate, si trovi proprio a questo punto. Platone mette in bocca a uno dei suoi personaggi più cari un giudizio da cui si dovrebbe partire per valutare l’uomo, l’educatore, il maestro che fu Socrate. «Ho avuto spesso occasione di ammirare Socrate, ma egli non mi stupì mai come quell’ultima volta che io fui con lui. Che un uomo come lui avesse di che rispondere non è certamente nulla di straordinario; ma ciò che io ho ammirato in lui è soprattutto la buona grazia e la benevolenza e la compiacenza con cui accolse il discorso dei due giovani; e poi la penetrazione con cui colse subito il turbamento prodotto su noi dalle loro obiezioni e l’efficacia con cui pose rimedio e ci rianimò e rincuorò, come fuggiaschi e vinti, a seguitare e a riesaminare con lui il ragionamento».
Il fatto che Socrate sappia ribattere non impressiona Fedone, quello che lo colpisce sono «la grazia», «la benevolenza», la consapevolezza penetrante della situazione, «l’efficacia» nel rimediare alla situazione. Socrate sa scegliere i toni e i tempi e lo fa con pregnanza di significato. Non si oppone allo sconforto generale con un monito d’autorità, non fa una paternale forse giusta che risulterebbe però inopportuna e alla fine inincidente. Egli, piuttosto scherza. Sì, scherza. La sua risposta sembra cambiar discorso e comincia da un gesto: accarezza i capelli di Fedone. Egli dice al giovane amico che l’indomani dovrà tagliarli in segno di lutto, secondo il costume del tempo. Ma in realtà, aggiunge poi, dovrebbe tagliarli – e Socrate con lui – già subito, se l’argomento morirà e non si riuscirà a portarlo in vita. Con tenerezza e gravità Socrate scherza e così rialza lo sguardo di tutti al problema, mostrando che va preso con una serietà tremenda. Si dimenticano con ciò i falsi problemi circa la particolare condizione che Socrate sta vivendo e ci si interroga sulla condizione umana che urge e preme tutti.
Non bisogna prendere in odio i ragionamenti, incalza Socrate, finendo per perdere fiducia nella ragione, disamorandosene, così come qualcuno finisce per odiare gli uomini, perché è stato vittima di brutte esperienze con alcuni, magari inizialmente considerati amicissimi e intimissimi. Il fatto di riconoscere che degli argomenti non sono buoni, non deve portare a generalizzare affrettatamente. Né la delusione pregressa deve trattenere dalla onesta costatazione che ve ne sono di buoni.
Al giovane che studia la filosofia e si scontra con la complessità delle questioni, che prova la delusione di scoprire che alcune teorie per cui si era entusiasmato si sono rivelate false, che è timoroso di prendere posizione per paura di una nuova delusione, Socrate, con la tenerezza di un amico e la serietà di un maestro, formula un invito a non darsi per vinto, a non lasciarsi dominare dalla delusione e a ricominciare sempre di nuovo a usare la ragione, riconoscendo, caso per caso, ciò che vale e ciò che non vale. Egli stesso accompagna in questa impresa, fino a quando può. Il magistero non si svolge se non nella disponibilità ad accompagnare.