Compiti per casa: una testimonianza e due considerazioni

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Ancora sui compiti a casa: non un’apologia della sgobbata, ma una semplice testimonianza.

«Uff, sono le nove e mi mancano ancora 10 esercizi»
«Paolo, a nanna!»
«Aspetta mamma, devo finire matematica»

«Allora! È tardi, muoviti!»
«Mamma, ho quasi finito»
«Ma sono le 10!!»
«Ancora un esercizio»

Scene più o meno come questa capitavano nei miei primi giorni alla scuola media. L’insegnante di matematica era famosa per assegnare letteralmente decine di esercizi da un giorno all’altro. Non c’era scampo. I primi giorni era un inferno: finivi a ore terribili, dopo aver agonizzato per un intero pomeriggio, passando dall’ansia all’angoscia, fino alla frustrazione disperata, soprattutto quando gli esercizi cominciavano a non venire.
Oggi la mia cara prof. delle medie sarebbe incalzata da genitori inferociti, supportati se non persino aizzati da psicologi buonisti e pedagoghi di grido. La cosa interessante è che dopo un po’, giorni per alcuni, settimane per gli altri, si finiva per diventare veloci. Non solo, ma anche ordinati. Si imparava a organizzare il pomeriggio per non soccombere. Si imparava il valore dell’essere concentrati per non perdere tempo, del diluire nei giorni i carichi di lavoro, quando possibile.
La questione di fondo non era solo la precisione nel calcolo, il rigore mentale o l’acquisizione delle conoscenze specifiche, quanto soprattutto un modo di disciplinare la mente. E ancora di più, per la prima volta, si cominciava a presentire il bello di una pulizia nel ragionare, il valore del rigore logico, della chiarezza di pensiero: l’esperienza di studio era qualcosa di più che un fatto di intelletto, era un’esperienza che forgiava lo spirito. Scoprire in sé questi progressi era entusiasmante, perché si acquisiva la coscienza di una certa maestria, si era in grado di fare qualcosa di cui molti altri erano incapaci. Del resto, arrivato alle superiori, ebbi un iniziale discreto vantaggio in matematica su quasi tutti i miei nuovi compagni.
Molto del meglio che sono diventato poi dipende da quei lunghi pomeriggi a fare esercizi di matematica nella scuola dell’obbligo; esercizi – ci tengo a precisarlo – di cui oggi non saprei che farmene e che tuttavia mi hanno reso un uomo intellettualmente e, credo, spiritualmente migliore di quanto sarei stato altrimenti.

Il mio, ovviamente, non è un elogio del carico di compiti eccessivo, né un’apologia della sgobbata, ma una semplice testimonianza di come sono state per me le cose. Non ho difficoltà a riconoscere che nell’assegnare compiti, cioè a conferire obblighi, bisogna essere sicuri che chi li deve eseguire abbia davvero modo di svolgerli. Si tratta di una questione morale, prima di tutto, per il docente. Si tratta poi anche di una questione di deontologia professionale: va assegnato solo ciò che serve nel contesto di una programmazione educativa, formativa di classe.
Nell’assegnare compiti, cioè a conferire obblighi, bisogna essere sicuri che chi li deve eseguire abbia davvero modo di svolgerli. Si tratta di una questione morale, prima di tutto, per il docente.Ciò detto e riconosciuto, mi pare che il dibattito sui compiti per casa (qui il testo che mi ha invogliato a entrare in discussione) sia segnata da almeno due limiti importanti. Mi piacerebbe metterli allo scoperto. Il punto è che non si tengono nel giusto conto, mi pare, due fattori fondamentali: la questione dei tempi e delle esigenze di apprendimento individuale e la questione del falso senso di protezione di molti genitori oggi.

Vediamo il primo. Il tempo a scuola è regolato dall’attività didattica che è una pratica sociale, svolta nell’interazione tra docente e studenti, ed è condizionata dai tempi di apprendimento dell’intero gruppo classe. Senonché, persone diverse vivono in maniera diversa quei tempi: i lenti soffrono per un ritmo che li costringe ad accelerare e i veloci si annoiano ad aspettare i lenti e tutti possono trovare i tempi del docente, anche forse per la differenze di età, faticosi.
Che una parte dell’apprendimento si svolga secondo ritmi propri, stabiliti dal discente, è perciò una buona pratica. Essa consente a ciascuno di tenere il proprio passo, così da dosarlo sulla propria stanchezza, e di imparare a regolarlo, magari migliorando i cicli di attenzione.
Il tempo a scuola è condizionato dai tempi di apprendimento dell’intero gruppo classe. Che una parte dell’apprendimento si svolga secondo ritmi propri, stabiliti dal discente, è perciò una buona pratica.Non è poi solo una questione di tempo-ritmo dell’apprendimento, vi è anche un aspetto temperamentale. Gli estroversi apprendono più facilmente in classe, intervenendo, facendosi notare, buttandosi nella mischia. Gli introversi, invece, hanno bisogno di tranquillità, di silenzio, di concentrazione; per loro la vita in classe è importante, ma hanno bisogno anche della pace domestica, di spazi in cui sentirsi a proprio agio. Togliere la possibilità di questo esercizio personale di maturazione intellettuale mostrerebbe scarso discernimento pedagogico e sarebbe una scelta irresponsabile.

Quanto poi al secondo fattore di cui non si tiene conto, cioè l’infelice senso di protezione di molti genitori, esso è un male della nostra società. Capita così che non pochi genitori lottino per abolire la fatica, per appianare gli ostacoli, per facilitare la vita dei figli, fino al punto a volte di fare i compiti per loro o, stanchi di continuare a farli ormai alla loro età, premendo perché siano aboliti tout court.
La formazione scout insegna, tra l’altro, che ciascuno, andando per via, per quanto sia faticoso, deve imparare a portare il proprio zaino.Massimo Recalcati spiega che questi sono i mali della scuola-narciso, in cui il fallimento del figlio, in cui il genitore si specchia, non è tollerato (L’ora di lezione, p. 25). Lo sforzo di tali genitori è retto, ovviamente, da buone intenzioni, eppure finisce per non fare il bene dei figli. La formazione scout insegna, tra l’altro, che ciascuno, andando per via, per quanto sia faticoso, deve imparare a portare il proprio zaino. Mi pare un’immagine utile, eloquente. Tale insegnamento è oggi troppo spesso obliato, eppure è prezioso.
Non abbandonare il figlio nella difficoltà è mostrare comprensione ed empatia, è metterlo in condizione di fare la propria parte, ma non significa fare al suo posto, né appianare a monte le difficoltà. Al figlio la sua fatica, i suoi insuccessi, le sue sconfitte: non sono una tragedia, ma il normale cammino di colui che vive, cresce, matura una propria storia personale. Tali fatiche e insuccessi sono un piccolo bagaglio di dolori e frustrazioni, cui si aggiungeranno però anche soddisfazioni, che lo orienteranno e saranno una risorsa preziosa, la sua forza.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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