Come leggere un’opera d’arte

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Le neuroscienze offrono un contributo imprescindibile per capire i processi con cui apprezziamo le opere d’arte, sia visive che letterarie. Infatti, come diceva Oscar Wilde, «è dentro il cervello che il papavero è rosso, la mela odora e l’allodola canta».

 

Da neuroscienziati che studiano il funzionamento del sistema nervoso umano, con la grande pretesa di comprendere l’individuo contemporaneo, abbiamo cominciato molti anni fa a interessarci all’arte, a cercare nell’arte delle risposte alla complessità crescente delle nostre domande e a cercare nell’arte nuove domande.
I nostri esperimenti sulla fisiologia della percezione visiva sono sempre stati, e sempre saranno, condizionati dalle risorse tecnologiche, dai metodi di analisi statistica, dal linguaggio con cui vengono descritti, non meno che dal modo in cui i soggetti, usati come cavie da laboratorio, rispondono ai quesiti posti dal paradigma sperimentale. A questi soggetti, siano essi sani o pazienti, viene spesso chiesto di raccontare cosa vedono durante l’esperimento, o di sintetizzare le loro complesse sensazioni nella scelta di premere un bottone piuttosto che un altro, con la costrizione a trasformare percezioni ed emozioni in semplici risposte verbali o motorie.
Proviamo ora, per un attimo, a dare per scontato che la visione non sia solo una semplice analisi di stimoli esterni che colpiscono l’occhio e arrivano al cervello, ma sia anche un processo guidato da un umano istinto di ricerca di nuove conoscenze sempre condizionato dallo stato emotivo interno della persona. Come possiamo, allora, pensare di ridurre tutti questi complicati aspetti della visione umana a una risposta semplice, che ha senso solo per lo scienziato che cerca una spiegazione a un fenomeno la cui risposta è già condizionata dal suo modo di formulare la domanda? Ecco che a svelare i misteri di questo processo viene in aiuto l’artista: l’opera d’arte e il processo creativo diventano il racconto esplicito e diretto di quell’esperienza visiva.

Quattro zampe e una testa? È un cavallo!

Ogni esperienza che facciamo è il risultato di complessissime elaborazioni da parte del nostro sistema nervoso. Tutto ciò che ci circonda non è stabile ma in costante mutamento e soggetto a evoluzioni a volte imprevedibili. Il cambiamento continuo che trascina il mondo circostante e noi stessi ha modellato il nostro sistema nervoso in modo tale che esso riesce a estrarre, con il tramite dell’arte, una sorta di stabilità da ciò che stabile non è. La stabilità che, come unica consolazione, ci salva dall’ineluttabilità del nostro destino.
Questo destino, unito alla nostra natura estremamente sociale, ci spinge, in ogni istante, verso quella che potremmo chiamare un’ossessione: la smania di comunicare e di estrarre un significato da tutto ciò che ci circonda. È un vano tentativo di opporsi all’entropia, di ricomporre ogni dettaglio in una scena coerente con l’intento di forzare il caos in una sorta di ordine e armonia semantica.
L’artista sudafricano William Kentridge, in una memorabile performance intitolata I am not me, the horse is not mine, ci ricorda le nostre abitudini, sottolinea la nostra attitudine a completare le frasi altrui.
«Abbiamo intorno tonnellate di pezzetti di carta che rappresentano forme, ma di quante di queste forme abbiamo bisogno per estrarre un significato da ciò che vediamo? Continuiamo a predire ciò che verrà detto prima di sentirlo, vediamo figure a cui forzatamente attribuiamo un senso. La brama di significato ci porta ad attaccarci ad ogni parola, ci aggrappiamo al significato anche quando questo si disintegra; tutto ciò avviene con il linguaggio, con le immagini, con le idee e perfino con gli ideali. Anche quando l’utopia muore, afferriamo il suo scheletro sperando di resuscitarla con la nostra volontà. E così, anche se la forma del cavallo è ridotta all’ossatura del cavallo di legno, fosse anche solo una linea nera su un foglio, noi restiamo aggrappati all’idea del cavallo che era stato».

 

Il nostro cervello, per permetterci di sopravvivere in un mondo che cambia incessantemente, è alla ricerca perenne di proprietà costanti. Per acquisire conoscenze, a dispetto di questi continui mutamenti, il cervello utilizza meccanismi, alcuni ereditati e altri acquisiti, che gli permettono di organizzare le esperienze e di renderle il più indipendenti possibile dai cambiamenti esterni. Tali meccanismi sono stati svelati, ad esempio, nel caso della percezione del colore, dove lo stimolo cromatico viene percepito come una proprietà stabile di un oggetto indipendentemente dalle variazioni di illuminazione. Questa ricerca di stabilità si manifesta non soltanto nell’attribuire un significato ai segnali che ci raggiungono dal mondo circostante, ma anche nella costruzione, percezione ed espressione del proprio corpo e delle proprie emozioni, in ultima istanza della propria identità.
Senza l’arte, forse, non ci sarebbero significati.
L’arte rappresenta il tentativo estremo di dar forma alle nostre esperienze emotive e sensoriali, l’arte è la ricompensa per la nostra incapacità di raggiungere la perfezione, l’arte esorcizza la paura ed è il più complesso e sofisticato prodotto del nostro cervello. Per questo, forse, è così potente; nelle opere d’arte riconosciamo empaticamente proprio le cose che più ci sfuggono, che sono così difficili da verbalizzare: illusioni, turbamenti, chimere, sentimenti, terrori. Mettersi di fronte a un’opera d’arte diventa forse un modo per dialogare con se stessi. Come diceva Kazimir Malevich commentando la sua opera Black Circle del 1913 [un semplice cerchio nero inscritto in un quadrato bianco]: «L’arte evoca un’esperienza trascendentale».
La cultura in generale e l’arte visiva, la poesia, la musica in particolare contribuiscono a ricostruire il nostro senso di identità, non solo psicologico e individuale, ma anche nazionale e sociale.
Come scrive il poeta Iosif Brodskij, premio Nobel per la letteratura nel 1987, in Dall’esilio (Adelphi, Milano, 1988), «quanto più ricca è l’esperienza estetica di un individuo, quanto più sicuro è il suo gusto, tanto più netta sarà la sua scelta morale e tanto più libero, anche se non necessariamente più felice, sarà lui stesso».

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Ludovica Lumer

Neurobiologa e filosofa, lavora dal 1997 presso il Department of Anatomy and Developmental Biology (University College London) con Semir Zeki, pioniere nello studio della funzione visiva del cervello. Ha condotto ricerche nell’ambito della neuroestetica, studiando la relazione tra percezione visiva e rappresentazione artistica. Ha pubblicato con Semir Zeki “La bella e la bestia. Arte e neuroscienze” (Laterza, 2011) e con Marta Dell’Angelo “C’è da perderci la testa. Scoprire il cervello giocando con l’arte” (Laterza, 2009).

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