Come insegnare la filosofia

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Sul recente libro di Massimo Mugnai, “Come non insegnare la filosofia”, Raffaello Cortina, Milano 2023

Quando uno studioso stimato come Massimo Mugnai pubblica un libro sull’attuale insegnamento della filosofia nella secondaria di secondo grado (Come non insegnare la filosofia, Raffaello Cortina, Milano 2023), questo non può che suscitare grande interesse in tutti coloro che si occupano del settore. Mugnai è professore emerito di una prestigiosa istituzione accademica come la Scuola Normale Superiore di Pisa e il suo testo è stato pubblicato da uno dei maggiori editori italiani. La cosa non è però notevole solo per l’autore e l’editore, ma anche e soprattutto per la gravità del messaggio: Mugnai fustiga l’impreparazione degli studenti («i giovani che hanno perso interesse per lo studio e che, quando arrivano alle superiori, non sono più in grado di seguire ragionamenti astratti o complessi, e addirittura quasi non sanno più scrivere», p. 162), denuncia i mali della manualistica italiana, e stigmatizza «il problema dei docenti» (pp. 158-162) per via della loro formazione accademica troppo sbilanciata negli insegnamenti storici (pp. 158-159), poiché sono così «abituati a concepire lo studio della filosofia quasi esclusivamente dal punto di vista storico» (p. 176) da fare «resistenza al cambiamento» (ibidem, ma anche cfr. p. 162). Essi, al contrario, dovrebbero adottare «un radicale cambiamento», guidati da quello che Mugnai ritiene essere il suo «giudizio giustificato» (p. 22). La condanna è senza appello: l’attuale sistema della didattica della filosofia è «obsoleto e controproducente» (p. 22).

Come se tutto questo non fosse già impressionante, colpisce la qualità dei nomi messi in campo nei ringraziamenti. Per citarne solo alcuni (che riporto in ordine di comparsa), Marco Santambrogio, Francesco Ademollo, Vincenzo De Risi, Diego Marconi, Mario Piazza e poi ancora Carla Bagnoli, Vincenzo Fano, Alessandro Pagnini, Maria Rosa Antognazza e Luca Sbordone. Una speciale menzione è dedicata poi a Teodosio Orlando e Andrea Sani che lo avrebbero «guidato nell’intricato mondo dell’insegnamento della filosofia alle superiori» (p. 10). Tanti nomi e nomi tanto prestigiosi danno l’idea che il testo sia il frutto, se non di una comunità di ricerca, quantomeno di un confronto serio e rigoroso con molti esperti della filosofia e della sua didattica, studiosi che possiedono un ampio spettro di competenze. L’opera, insomma, non si presenta come il pensiero estemporaneo di un solitario, ma sembra il prodotto di una riflessione svolta in sintonia con molto del meglio del mondo filosofico italiano.

Il libro però, purtroppo, si direbbe scritto da qualcuno che non conosce in modo adeguato ciò di cui tratta. Si potrebbe pensare che questa mia valutazione sia eccessiva e ingenerosa. Devo qui limitarmi a quattro esempi, tra i possibili: essi saranno sufficienti, spero, a mostrare che invece essa è fondata. Invito il lettore che andasse di fretta a procedere direttamente al quarto esempio.

In primo luogo, a p. 108 Mugnai scrive:

Ogni anno il docente di filosofia è tenuto sia a spiegare una parte del manuale sia a leggere e commentare un testo filosofico a piacere. Quindi il docente, ogni anno, deve proporre un percorso storico ragionevole, impiegando come guida il manuale, e trovare il tempo per presentare e commentare un classico della filosofia occidentale.

Nel passo vi sono più cose non vere. Sulla base della normativa vigente, non c’è obbligo per il docente di fare quanto sopra descritto. Quanto poi alla questione “lettura del classico”, già la riforma Gelmini, nel 2010, ne aveva lasciato cadere l’obbligo. Anche sul piano della prassi effettiva, non sono pochi i colleghi che non usano affatto il manuale (eventualmente lasciando che lo studente volenteroso o bisognoso vi attinga autonomamente).
Come non bastasse, però, il testo di Mugnai, subito di seguito, continua:

Oltre a questi, naturalmente, il docente ha numerosi altri impegni e obblighi burocratici (incontri coi genitori, con i colleghi per la programmazione didattica ecc.).

L’aggiunta non può che lasciare sbalorditi: cosa c’entrano gli “altri impegni e obblighi burocratici” con la didattica in classe? Come potrebbero mai interferire con la lettura del classico in classe? Si tratta di attività che vengono svolte in altro orario e che non riguardano l’orario di cattedra. A un’attenta lettura delle pagine di Mugnai si capisce che egli pensa all’attuale didattica della filosofia entrando in dialogo con una Guida all’uso di un manuale di fine Novecento (si tratta di Dentro la filosofia, edito da Zanichelli, pubblicato tra il 1996 e il 1997), senza identificarvi quello che in essa è ormai datato per distinguerlo dalla complessità della situazione attuale, e anzi prendendo ciò che è datato come se fosse reale. Del resto, quando parla della didattica per competenze, che effettivamente è un punto di riferimento per l’oggi, egli scrive: «Le competenze, perciò, fanno riferimento soprattutto a conoscenze parziali, finalizzate al raggiungimento di determinati scopi: rendere competente uno studente significa dargli la possibilità di mettere in pratica prima possibile le conoscenze acquisite» (p. 72). Mugnai sembra non avere chiara la differenza tra competenze (per esempio, saper formulare un sillogismo valido) e conoscenze (per esempio, conoscere quante sono le figure del sillogismo) e propone, in due momenti, una maldestra riconversione delle competenze in conoscenze. Cosa significherà mai che le competenze sono “conoscenze parziali”? Proprio per discutere dell’impianto storico della didattica della filosofia – tale, almeno, lo ritiene Mugnai –, capire in cosa consista l’attuale didattica per competenze è cruciale.
Ciò detto, concordo con l’autore che la didattica strettamente disciplinare in genere, e perciò anche la didattica della filosofia, è sempre più compressa. Essa infatti è deviata e sacrificata ad altre urgenze, peraltro tutte importanti, che si assommano le une alle altre: penso al CLIL, ai percorsi PCTO, all’educazione civica, all’orientamento in uscita, senza contare le mille progettualità che ciascuna scuola propone e che spesso toccano l’orario di cattedra.

Un secondo esempio del fatto che Mugnai non è sufficientemente informato si trova nelle pagine in cui tratta del debate/dibattito: Mugnai usa i due termini come fossero lo stesso (pp. 154 e pp. 178-183). Senza avere una conoscenza precisa dell’argomento, egli dedica al tema un intero paragrafo: «Cinema e “debate”» (perché poi le virgolette?). Ora, se “debate” fosse solo la traduzione di “dibattito”, Mugnai farebbe bene a non usare l’inglese, potendo contare sull’italiano. Il punto è che egli ha colto che vi è un duplice uso, ma non sembra averne afferrato la ragione. Si direbbe che egli non sappia che il debate costituisce solo uno tra i molti protocolli di dibattito, e che perciò il termine non può essere trattato come mero sinonimo di “dibattito”. Se, per esempio, egli avesse letto il libro di Manuele De Conti e Matteo Giangrande Debate. Pratica, teoria e pedagogia (Pearson, Milano-Torino 2017), saprebbe che il termine inglese costituisce la forma abbreviata per indicare il World Schools Debate. Se poi conoscesse anche la pratica didattica, molto nota tra i docenti della secondaria superiore e diffusasi in Italia in questi anni, saprebbe che il debate è stato lanciato in Italia dall’ITE “Enrico Tosi” di Busto Arsizio, ma saprebbe anche dell’esistenza di una pratica consolidata in Veneto e di respiro nazionale svolta dalla “Palestra di botta e risposta” e che vi sono i tornei nazionali Age contra delle Romanae Disputationes, basati su altri protocolli rispetto al debate. Mugnai propone il debate tra le pratiche filosofiche della scuola che sogna (finendo per “sposare” inconsapevolmente uno solo dei possibili protocolli, probabilmente nemmeno il migliore per la filosofia), e inoltre al riguardo pretende di formulare dei caveat. Mugnai infatti teme che le attività di dibattito formino i giovani alle modalità in cui si svolgono i talk show. Al riguardo, scrive (pp. 180-181):

Platone direbbe che i meccanismi che regolano queste discussioni sono quelli dell’eristica (o del discorso sofistico), anziché del dibattito filosofico in senso proprio.

Per come sono però pensati e proposti, di regola, i dibattiti hanno come modello non l’eristica, ma la dialettica. Infatti le attività di dibattito, lungi dall’essere un “fare lo sgambetto all’interlocutore”, sono attività in cui ci si prepara in maniera meticolosa (per esempio, le già citate Romanae Disputationes offrono materiali di qualità per i dibattiti che propongono, come si può vedere sul sito), si impara il rispetto per colui col quale ci si confronta e si dibatte nella consapevolezza che «verità e giustizia scaturiscono dal confronto civile e dal dibattito leale», come recita un passo della Promessa del disputator cortese che apre le gare della Palestra di botta e risposta e quelle delle Romanae Disputationes.

Presenterò il terzo esempio basandomi anche sulla mia competenza di coautore di manuali. Mugnai anche a questo riguardo non sembra conoscere adeguatamente ciò di cui scrive. Nella pars destruens del suo testo critica i manuali e anzi a essi dedica un intero capitolo, il terzo. L’intento di Mugnai è di mostrarne i limiti che, a suo giudizio, sono gravissimi. Nell’introduzione egli infatti spiega, a p. 20, che:

L’unica certezza che ho maturato col tempo è che il manuale di filosofia, l’insegnamento storico-diacronico della disciplina, così com’è concepito non abbia più senso (se mai lo ha avuto).

ma si veda anche la stroncatura di p. 84 ove si dice che il manuale «rende difficile la vita a studenti e docenti».
Mugnai, tra i molti possibili, sceglie, come spiega, «alcuni fra i testi statisticamente “più adottati” dai docenti» (p. 23). Se questo è il criterio, però, non si capisce perché Mugnai non discuta il manuale di Domenico Massaro (La meraviglia delle idee, Paravia 2015), molto venduto, e soprattutto perché ignora il manuale di Riccardo Chiaradonna e Paolo Pecere (Vivere la conoscenza, edito da Mondadori Scuola nel 2022) che, oltre a essere tra i più diffusi, costituisce un testo di particolare qualità.
Sempre se quello sopra esposto è il criterio, non si giustifica la discussione svolta da Mugnai di Argomentare (a cura di Giovanni Boniolo e Paolo Vidali, edito da Bruno Mondadori nel 2003) e di Dentro la filosofia (di cui ho già detto sopra), entrambi nemmeno più in commercio.
Quanto alla discussione (pp. 101-104) de La rete del pensiero (Loescher 2016, di cui sono coautore insieme a Enzo Ruffaldi, Piero Carelli, Ubaldo Nicola), non è chiaro il motivo per cui Mugnai abbia scelto proprio questo, tra gli otto manuali in cui Enzo Ruffaldi è capofila e pubblicati a partire dal 2008. Sarebbe stato infatti da parte sua più rigoroso e conforme al criterio di scelta adottato discutere il testo più ampio, recente e diffuso: Prospettive del pensiero (2021). Questo non solo perché degli otto è il più venduto, ma anche e soprattutto perché costituisce un’edizione maior che rinnova e amplia quanto già fatto nelle edizioni precedenti.

Oltretutto il lavoro di Ruffaldi, come non avviene per altri manuali, nasce da una prospettiva metafilosofica e da una riflessione sulla didattica espresse in contributi rigorosi e meditati pubblicati e aggiornati nel corso di decenni (si vedano, per esempio, Insegnare filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1999 e, con Mario Trombino, L’officina del pensiero. Insegnare e apprendere filosofia, LED, Milano 2004). Il mancato confronto di Mugnai con la riflessione didattica di Ruffaldi mi sembra una lacuna grave in un libro che mette con tanta durezza e con giudizi tanto decisi in discussione l’attuale didattica della filosofia.

Ad ogni modo, mi fa piacere che, dopo le dure critiche a manuali molto diffusi come l’Abbagnano-Fornero e il Ferraris-Labont, quando arriva a La rete del pensiero, Mugnai lo gratifichi valutandolo «un buon manuale» (p. 101). Mentre però egli cita gli altri coautori, non cita mai né me, né Andrea Sani, ma non si tratta di una dimenticanza sfortunata, di un lapsus innocente: è invece un’omissione rivelativa di altro. Il punto è che noi due abbiamo contribuito solo all’ultimo volume dell’opera e che Mugnai, con insofferenza e senza pudore, confessa (e qui è il caso di stare alle sue parole)

la scarsa propensione a sobbarcarmi la lettura sistematica di testi di oltre mille pagine ciascuno, poco differenti l’uno dall’altro che, progressivamente diventano di una noia mortale.

Insomma, in breve, le stroncature di Mugnai sono date sfogliando qualche pagina dei primi volumi delle opere, perché un lavoro rigoroso lo avrebbe annoiato. Mi limiterò qui a osservare che il fatto che Mugnai si annoi quando sfoglia i manuali e gli paia tutto uguale sembra piuttosto un indizio del fatto che non li capisce. A qualcuno che i manuali li usa in classe, li consulta e magari li scrive, essi finiscono invece col sembrare ricchi di sfumature e profondamente diversi fra di loro.

Anche però entrando nel merito delle critiche che Mugnai avanza ai manuali, mi limito a un solo esempio, ancora una volta rivelatore del fatto che egli non ha una conoscenza sufficiente di ciò di cui scrive. Mugnai stigmatizza la pratica dei manuali di proporre degli apparati didattici (pp. 169-170):

Gli schemi, la scomposizione dei testi presentati, le mappe concettuali e i diagrammi di ricapitolazione, non richiedono altro al discente se non incamerare in memoria i dati, senza quasi fare alcuno sforzo di elaborazione e riflessione autonoma.

In queste poche righe di Mugnai vi sono almeno due problemi. In primo luogo, vi è un non sequitur: dal fatto che ci si serva di ausili per focalizzare e fissare i punti nodali, non segue affatto che perciò stesso non si possa poi sviluppare un pensiero personale e critico. In secondo luogo, e qui entriamo in questioni che gli insegnanti ben conoscono, questi strumenti sono diventati vitali nella scuola odierna dell’inclusione, in quanto indispensabili per gli allievi con bisogni educativi speciali e con disturbi specifici di apprendimento.

Soprattutto, e questo è il quarto punto, mi sembra che il giudizio di Mugnai nasca da un’impostazione errata del problema. Il suo libro infatti ruota intorno al quesito su come si dovrebbe insegnare al meglio la filosofia oggi in Italia alle superiori e il focus è tutto sulla filosofia. Il punto di vista da assumere, invece, mi sembra che sia un altro. Per dirlo in modo netto e solo apparentemente paradossale, il primo compito di un docente di filosofia della secondaria di secondo grado, non è di insegnare la filosofia, né la storia della filosofia, né a filosofare. Quello che infatti è richiesto al docente di filosofia è, in primis, di contribuire a formare sul piano culturale, intellettuale e umano il giovane affidatogli, e ciò in collaborazione con altri professionisti della formazione che compongono il Consiglio di classe e in sinergia con l’istituzione scolastica di cui tale Consiglio è parte. Il primo quesito che, con maggiore o minore lucidità, ogni docente di filosofia si pone nello svolgimento della sua attività professionale, è dunque esprimibile grossomodo così: “Come posso formare, attraverso la filosofia, questo giovane, collaborando coi miei colleghi che devono svolgere, attraverso altre discipline, lo stesso compito?”. La domanda, a livello di sistema, potrà suonare: “Come introdurre alla filosofia questo particolare adolescente in formazione, tenuto conto del suo complessivo percorso scolastico?”. Qui è chiaro che il focus è il percorso formativo della persona. Ora, in una scuola in cui l’impianto storico è pervasivo (storia, storia dell’arte, storia della letteratura italiana, storia della letteratura latina, storia della letteratura greca, storia della letteratura della lingua straniera scelta), è utile che anche l’insegnamento della filosofia sia storico. Ovviamente si potrà mettere in discussione l’impostazione storica della formazione scolastica nella secondaria di secondo grado, ma allora si sposterà il discorso a un altro livello. In ogni caso, proprio non perdendo di vista l’intento formativo complessivo, sarà più facile scorgere che il radicamento critico e consapevole alla tradizione di cui si è parte è un bagaglio utile al giovane, e anzi prezioso. Attualmente un cambio della sola filosofia, così che fosse impostata diversamente dalle altre discipline, romperebbe sinergie molto utili, di alto valore formativo.

Tenendo poi adeguatamente conto dell’intento formativo dell’insegnamento della filosofia, si deve notare che l’incontro coi classici, con i maestri, ha un impatto intellettuale e umano sugli studenti che imparano per imitazione (lo sapeva già Aristotele, che ne parla nella Poetica). Essi, venendo a conoscere le vicende di altri uomini, dei loro insuccessi, delle loro domande, delle loro intuizioni e delle loro conquiste, interiorizzano in qualche misura gli exempla, imparando ad abitarne – criticamente – la prospettiva. Inoltre, lo studio della filosofia attraverso la storia consente di intercettare in maniera più articolata il domandare filosofico, e ne favorisce l’acquisizione e la personalizzazione.

Ancora, l’impianto storico consente un percorso progressivo e graduale (per massa di dati e sua complessità) di assimilazione dei contenuti. Per fare un esempio sommario, avendo riflettuto sullo scetticismo gorgiano e sullo scetticismo di epoca ellenistica in terza superiore e anche magari avendo appreso la critica agostiniana agli accademici, risulterà più facile assimilare in quarta il percorso del dubbio metodico cartesiano o lo scetticismo humeano e, in quinta, l’epoché fenomenologica o il fallibilismo popperiano. L’approccio graduale consente una riflessione e un’assimilazione per step che si perderebbe nell’impostazione per problemi, la quale però, in maniera grossolana e acritica, o si serve di concetti condizionati storicamente senza poter dare gli strumenti per comprenderli, oppure finisce per ricadere in una rudimentale schematizzazione delle soluzioni teoretiche date storicamente. L’esposizione gradualista e storica consente, al contrario, un percorso di migliore acquisizione e consolidamento del lessico specifico e soprattutto delle concettualizzazioni che prevedono vere e proprie reti concettuali da esplorare e interiorizzate criticamente.

L’alternativa è l’arbitrarietà nella scelta delle articolazioni della filosofia. Solo logica, etica, e filosofia della scienza (con nozioni di epistemologia), come propone Mugnai (p. 151)? E l’estetica? E la metafisica? E la gnoseologia? E la filosofia politica? Anche poi risolto in maniera soddisfacente il problema di stilare una lista che non comporti clamorose e arbitrarie esclusioni, un approccio per problemi che pretendesse di condensare in qualche unità didattica secoli di riflessione, al costo di decontestualizzare, semplificare, banalizzare, non correrebbe meno il rischio della dossografia rispetto all’impostazione storica.
Quanto a questa, si tratta di un passaggio nodale ed è, perciò, il caso di fermarsi un momento. È proprio vero che l’insegnamento della filosofia alle superiori è di tipo meramente storico? Mugnai lo assume come ovvio (il manuale «è concepito come una mera narrazione storica», p. 76, ma vedi anche p. 48). In realtà, a ben vedere, la situazione è più complessa di come sembra. Giova infatti distinguere (1) un insegnare storia della filosofia come semplice ricostruzione delle idee esposte nel passato dal fatto di (2) insegnare storia della filosofia entrando però per questa via in contatto diretto con problemi e soluzioni teoretiche. In entrambi i casi si insegna storia della filosofia, ma l’intento e l’esito sono molto diversi. Per quel che ne so, c’è stato un solo manuale nella storia della manualistica italiana più recente in linea con (1). Esso è edito da Laterza ed è stato scritto dai compianti Enrico Berti e Franco Volpi. Il suo titolo è, appunto, coerentemente, Storia della filosofia. Si tratta di un’opera che ha ottenuto un numero molto limitato di adozioni, pur essendo estremamente chiara e rigorosa. Mi sembra che questo sia più che un indizio che, presa nell’insieme, la classe dei docenti di filosofia delle superiori non è interessata a fare solo storia della filosofia, cioè (1). Tutti gli altri manuali che conosco, attraverso la narrazione storica – si può poi discutere, di caso in caso, con quale rigore e con quale successo finale –, si prefiggono sì di portare lo studente a conoscere il dato storico, ma l’intento è di farlo riflettere entrando in contatto col domandare stesso che lo ha generato, così da filosofare. Se questo è vero, tutta la critica di Mugnai per l’approccio storico dell’insegnamento della filosofia nella scuola italiana non sembra essere giustificata, perché di regola i docenti, appoggiandosi a manuali non dediti alla sola ricostruzione storica, portano gli allievi a un approccio che non è meramente “antiquario”, per usare la nota categoria nietzcheana.

Qualcuno, con indulgenza nei confronti del libro di Mugnai, sentite le riserve che ho fin qui esposto, mi ha ribattuto che il libro vuol essere una provocazione, un “gettare un sasso nello stagno” ove poco o nulla si muove. Quello di Mugnai sarebbe insomma, stando anche all’ammissione dello stesso autore (p. 22), qualcosa di mezzo tra il saggio e il pamphlet, ma niente di più. Anche se questo fosse vero – e ho spiegato all’inizio che ciò non corrisponde a come il libro si presenta –, non credo basti a giustificare quello che esso ultimamente fa. Per dirla in positivo, mi piace pensare che qualcuno che voglia davvero aiutare a migliorare le cose, anche solo scrivendo un pamphlet, dovrebbe fare ciò che Mugnai – giustamente – si aspetta che facciano i giovani, cioè svolgere un lavoro serio, rigoroso, impegnato e, vorrei aggiungere, pieno di quell’umile attitudine intellettuale di chi, entrato in un ambiente che non è il suo, prima di sentenziare e di tirare sassi, si informa veramente. A muoversi diversamente da così, si finisce per colpire in modo indistinto un’intera classe docente, anche chi con professionalità, passione e coraggio si mette quotidianamente in gioco; si tira fango su tutta la manualistica italiana che invece, a mio parere, nel complesso è di alta qualità; infine, si squalificano i molti autori che hanno dedicato anni della loro vita e notevoli energie intellettuali a produrre strumenti mediamente di alto profilo e hanno contribuito a formare generazioni di giovani.

Vorrei chiudere questa recensione con un gesto di empatia: Mugnai, come egli stesso racconta, ha vissuto un’esperienza di oggettivo disagio intellettuale, professionale e umano, dovendo valutare ogni anno, per quindici anni (dal 2002 al 2017), centinaia di candidati all’ammissione al corso ordinario della Scuola Normale Superiore di Pisa, leggendo prove di infima qualità e tenendo colloqui con candidati capaci di performance imbarazzanti (pp. 11-19). Il libro nasce da questo disagio ed è un gesto stizzito, esito di una frustrazione vissuta anno dopo anno. Bisogna ammettere che gli aneddoti che Mugnai racconta, pur non costituendo un dato statistico sufficiente, sembrano in effetti l’indizio di problemi del sistema scolastico che andrebbero presi sul serio. Sarebbe infatti utile un’ampia riflessione sull’esistente, per esempio giudicando il percorso di formazione dei docenti (su questo Mugnai dice cose interessanti, cfr. pp. 158-162), quello di reclutamento e di inserimento nella scuola. Si potrebbe poi cercare di capire come promuovere o facilitare a scuola buone pratiche didattiche. Al riguardo posso testimoniare che una di esse lo ha visto protagonista. È stato Teodosio Orlando a ricordarmi, infatti, che nell’ottobre del 2004, per iniziativa di Luciano Floridi, lo SWIF (Sito Web Italiano per la Filosofia) ha invitato Mugnai a presentare ad alcune classi italiane un suo bel testo: Logica modale e mondi possibili. Via email, ne seguì un “carteggio” con gli studenti liceali che lo avevano letto (lo SWIF faceva la DAD già allora!). Gli studenti, tra cui alcuni dei miei, avevano partecipato all’attività con molto entusiasmo (conservo lo scambio di email e l’ho rispolverato con emozione). Il professor Massimo Mugnai – con una pazienza straordinaria, grande generosità, dedizione, competenza e cortesia – aveva risposto a tutti più volte, mostrando con l’esempio “come insegnare la filosofia”.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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