Con l’inserimento dell’insegnamento dell’educazione civica quale disciplina trasversale, l’offerta formativa di storia dell’arte, arte e territorio, arte e immagine etc. si è arricchita di percorsi specifici relativi alla cittadinanza, che hanno messo al centro soprattutto il patrimonio culturale, esempio virtuoso di bene comune.
La Costituzione italiana, del resto, pone la tutela del patrimonio artistico fra i suoi principi fondamentali, come recitato dall’articolo 9, recentemente modificato per includere la protezione dell’ambiente:
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali.
Anche l’accesso e la partecipazione alla valorizzazione del patrimonio, sanciti dalla Convenzione europea di Faro, sono stati ampiamente esplorati; essi permettono, infatti, di riaffermare il valore educativo del bene culturale, nell’ambito storico, estetico-emozionale e quale elemento di aggregazione per la comunità.
Le prospettive fin qui affrontate sono, chiaramente, preziose: il patrimonio storico-artistico è depositario di valori simbolici che contribuiscono alla costruzione di un senso comunitario libero da pericolose derive identitarie e nazionaliste. Si tratta però di un approccio valido soprattutto quando applicato al passato storicizzato, caratterizzato da un’evidente individuazione, soprattutto in ambito scolastico, di opere d’arte cardine (i “capolavori”), dal valore universalmente riconosciuto, capaci di narrare (e far narrare) un passato comune.
Molto più difficile è applicare questo tipo di approccio all’arte contemporanea, specie quella prodotta più di recente, per la quale spesso non esiste uno status condiviso di patrimonio e la questione della tutela è meno urgente, e anzi talvolta persino deleteria, come dimostrano i risultati della precoce musealizzazione di molti artisti di oggi.
Eppure l’arte contemporanea permette di affrontare questioni urgentissime legate al tempo presente e non rintracciabili, se non in letture ex post, nel dibattito culturale dell’Età moderna: dal femminismo, affrontato direttamente dalle artiste a partire dalle avanguardie, dall’autorappresentazione delle minoranze, culturali e di genere, dall’ecologia alla sostenibilità, fino persino, come vedremo, all’analisi dei meccanismi di costruzione e validazione dell’immagine, utilissima in un mondo digitale pesantemente manipolato.
L’arte contemporanea, così come la storia e la letteratura, racconta la trasformazione del presente, anche nei suoi aspetti meno nobili: molte delle opere più scandalose – e veicolate dai media – permettono, se contestualizzate, di affrontare argomenti utili alla formazione di cittadini consapevoli, al di là del giudizio critico o ideologico. La famigerata banana di Cattelan, ovvero l’opera The Comedian, ad esempio, è un ottimo spunto per aprire un dibattito sull’immaterialità dell’economia odierna (e, di conseguenza, sulle nuove sfide lavorative che i ragazzi si troveranno ad affrontare), in maniera molto più immediata e iconica di uno studio di economia.
La mancanza nell’arte contemporanea di opere finite e, di conseguenza, di capolavori con pretese universali, spesso voluta dagli stessi artisti, aiuta a mettere in discussione la posizione essenzialista che vede l’arte come elemento di per sé salvifico, naturalmente incline all’apertura e alla pacificazione dei popoli. Tale posizione, certamente utopica e affascinante, non tiene conto della realtà di molte produzioni artistiche del presente e soprattutto del passato, create per celebrare campagne militari espansionistiche e despoti, e, dato ancora più importante, rafforza l’idea di una storia dell’arte come disciplina fissa e immutabile, portatrice di un valore estetico assoluto.
È invece proprio la continua rinegoziazione e risemantizzazione a costruire la forza della disciplina (e, in generale, delle discipline storiche). Valga, a questo proposito, l’esempio della problematizzazione dell’opera di Gauguin, espressione, specie negli anni tahitiani, tanto di una poetica ambizione a una pittura di puro simbolo e colore, quanto del più bieco colonialismo patriarcale, come messo in luce da diversi articoli e mostre (ad esempio Gauguin Portraits, alla National Gallery di Londra, nel 2019).
Insegnare a rispettare qualcosa e, allo stesso tempo, a metterne in dubbio le istanze dal punto di vista etico, culturale o sociale, è, ovviamente, molto complesso per un insegnante, ma anche capace di far sorgere negli studenti una reale capacità di giudizio e pensiero critico rispetto alle produzioni del passato come alle problematiche del presente.
Lo stesso museo, invece di essere accettato in modo aproblematico (e “sacralizzato”) quale luogo di partecipazione sociale, può essere analizzato proficuamente dagli studenti e decostruito nei suoi dispositivi di rappresentazione della cultura egemonica.
Molto noto è il lavoro del collettivo Guerrilla Girls che, già negli anni Ottanta, presentava opere-denuncia sull’assenza di opere di artiste donne all’interno dei maggiori musei pubblici occidentali; viene da chiedersi, ancora oggi, quali siano le strategie adottate dalle istituzioni pubbliche per garantire uno spazio di rappresentazione a più ampie categorie di persone: non solo donne, ma afrodiscendenti, persone trans, persone disabili nonché, in maniera trasversale, artisti, operatori e visitatori dalle classi sociali più disagiate, generalmente escluse dai sistemi culturali.
Un dibattito di questo tipo si spinge oltre la semplice partecipazione alla valorizzazione del museo, per affermare la necessità di una riappropriazione dello spazio e dell’ente da parte del suo pubblico.
A partire da queste considerazioni, riportiamo di seguito alcuni esempi pratici di legami fra produzioni di arte contemporanea e temi civici, alcuni dei quali direttamente legati agli obiettivi dell’Agenda 2030. Segnaliamo, infine, la possibilità di superare i limiti di ore imposti agli insegnanti di storia dell’arte grazie a una prospettiva sincronica, cercando cioè di includere, all’interno delle proposte storico-artistiche tradizionali e curriculari, confronti che permettano di aprire lo sguardo al presente, nonché attività di debate, workshop e incontri con artisti viventi, in collaborazione con i musei locali.
Dall’arte femminile all’arte femminista
Se la presenza, seppur sporadica, di grandi artiste in età antica e moderna permette di introdurre il tema della discriminazione di genere, è dal Novecento che le artiste hanno affrontato in maniera diretta la questione dei diritti femminili.
Nel vasto panorama delle pratiche femministe è interessante l’uso preferenziale di alcune specifiche tecniche. Il fotomontaggio, ad esempio, è introdotto dalla dadaista berlinese Hannah Höch (1889-1978) che lo usa in opere come Das Schöne Mädchen, rappresentazione di una donna “moderna” solo apparentemente emancipata; la stessa tecnica è ripresa, oggi, da Martha Rosler (1943), che nella serie Bringing the War Home lavora sul contrasto tra la tranquillità dell’American Way of Life e la violenza della società statunitense (in questo video l’artista racconta i suoi lavori). Tali opere potrebbero costruire ispirazione per fotomontaggi digitali da far realizzare agli studenti, incentrati sull’immagine femminile restituita oggi dai media e dai social network, attività che permetterebbe di sviluppare competenze sia tecnologiche sia emotive.
Altro legame ricorrente è quello fra identità femminile e arte tessile, che affonda le sue radici nel lavoro domestico tradizionale e che è, fino al Novecento, una scelta tecnica quasi obbligata per le artiste, anche nel contesto delle avanguardie. Al Bauhaus, ad esempio, le ragazze venivano invitate a “evitare esperimenti inutili” per seguire il laboratorio di tessitura, considerato più adatto alle loro capacità. Nel secondo Novecento, tuttavia, l’uso del tessuto, del cucito, del ricamo, è stato rivendicato dalle artiste quale pratica femminile e femminista, legata alla trasmissione di memorie familiari e personali. I ricami della sarda Maria Lai (1919-2013) e dell’egiziana Ghada Amer (1963) sono esempi diversi di una riappropriazione della propria storia, culturale e di genere: il loro lavoro potrebbe essere inserito, dagli studenti, in una mostra virtuale, che ripercorra a ritroso la storia della tessitura e del ricamo con particolare attenzione al ruolo femminile nelle prime industrie tessili. La mostra potrebbe essere, inoltre, arricchita da ricerche su pratiche tradizionali locali, ricollegate ad artiste che ne hanno ripreso l’uso (come nel caso di Maria Lai); tale approccio potrebbe dar vita a eventuali collegamenti interdisciplinari nell’ambito della letteratura e della storia.
Rappresentare la propria identità, ricordare la storia
La necessità di rappresentare culture e persone non bianche è un tema di grande urgenza nelle scuole, tanto più perché necessaria a garantire un clima antirazzista, di accoglienza e supporto nei confronti di tutti gli studenti. Sarebbe bene, in quest’ottica, integrare i programmi di storia dell’arte con lezioni su civiltà extraeuropee, in primis quelle mediterranee e islamiche, trattate in maniera spesso troppo superficiale; per le culture più geograficamente lontane esistono, tuttavia, dei limiti legati all’estraneità di alcuni linguaggi espressivi, che rendono difficile per gli insegnanti reperire una documentazione adeguata alla preparazione di una lezione.
Più immediato è l’approccio a opere come quelle di Lynette Yiadom-Boakye (1977), artista britannica di origine ghanese che riprende la pittura del Seicento fiammingo e di Velázquez per ritrarre soggetti quasi esclusivamente afrodiscendenti, riappropriandosi di una cultura che l’ha esclusa, o alla serie Indigenous Women di Martine Gutierrez (1989), presentata alla Biennale del 2019, che celebra le donne Maya e l’identità fluida. L’artista rappresenta sé stessa, donna, trans, di origini indigene, in più vesti, occidentali e tradizionali, in una continua sfida ai canoni condivisi.
Una prospettiva diversa è quella di Delio Jasse (1980), di base in Italia, il quale lavora su fotografie “trovate”, acquistate nei mercatini e online, spesso legate al passato coloniale dell’Angola, suo paese natale, o a quello colonialista dell’Italia nel ventennio fascista. Le foto sono rielaborate dall’artista per esplorarne le contraddizioni e i codici di rappresentazione. Il lavoro di Jasse può essere punto di partenza per affrontare in maniera interdisciplinare la storia del colonialismo europeo e specialmente italiano, attraverso una ricerca che può includere testimonianze di altri artisti e intellettuali di origine libica, eritrea, somala o etiope.
Dall’analisi della storia colonialista occidentale può inoltre scaturire un debate sui beni culturali frutto di appropriazione coloniale, e sulla necessità, o meno, di restituirli ai paesi d’origine. Caso esemplare è la Stele di Axum, etiope, di cui si appropriarono i soldati italiani nel 1935 e che è stata resa solo nel 2005, ma moltissimi sono i reperti museali provenienti da civiltà extraeuropee oggi in Europa.
Arte, natura, crisi ecologica
La questione ecologica, ben presente nell’agenda 2030, è al centro della ricerca di numerosi artisti contemporanei. Fra i più famosi vi è il danese Olafur Eliasson (1967), ambasciatore dell’ONU per il suo impegno nelle tematiche ambientali. L’installazione Ice Watch, del 2014, consiste in blocchi di ghiaccio staccatisi dai ghiacciai dell’Artico che l’artista ha disposto a cerchio per richiamare il quadrante di un orologio. I visitatori erano liberi di toccarne le superfici e assistere al loro scioglimento: un’esperienza intensa, metafora dello scioglimento dei ghiacciai, sempre più veloce per il surriscaldamento climatico. In Italia, l’artista e ingegnere ambientale Andreco crea installazioni e performance volte a sensibilizzare sulle conseguenze della crisi climatica. Climate 04 – Sea Level Rise è un disegno murale realizzato con vernici naturali a Venezia nel 2017, sulle rive del Canal Grande, che mostra le linee indicanti le previsioni di innalzamento delle acque nel secolo corrente. L’opera può essere il punto di partenza di una ricerca interdisciplinare sulla situazione di Venezia: i ragazzi possono raccogliere su internet i dati all’acqua alta negli ultimi cinquant’anni, confrontarli con le previsioni riportate da Andreco (1978) e con i dati forniti da siti quali il CNR-ISMAR Istituto di Scienze Marine. In seguito possono, lavorando in gruppo, raccogliere i dati in tabelle statistiche e pensare a nuove possibilità di rappresentazione artistica della crisi ecologica, mettendo in gioco le proprie competenze emotive.
Verità costruite
È infine potenziale ispirazione per attività adatte a diversi gradi del ciclo scolastico – inferiore e superiore – il lavoro di Joan Fontcuberta (1955), fra i maggiori esponenti della “postfotografia”. Fontcuberta si appropria del linguaggio archivistico, tassonomico e scientifico per creare delle fiction, spesso non dichiarate, veri e propri falsi storici presentati e immediatamente identificabili come documenti “veritieri”. Nella serie Sputnik del 2017 ha presentato la storia del cosmonauta russo Ivan Istochnikov, membro della missione spaziale Soyuz2 del 1968 e misteriosamente scomparso nello spazio. La storia di Istochnikov è raccontata attraverso immagini personali e ufficiali che seguono gli standard sovietici degli anni Sessanta, dall’infanzia alla laurea, fino all’imbarco. A un occhio più attento, si nota che Istochnikov adulto ha i tratti dell’artista, e anche il suo nome è, in realtà, la traduzione in russo di Joan Fontcuberta: un falso storico, costruito ad arte, che porta a interrogarci sulla verità delle immagini e della costruzione storica.
Gli studenti possono lavorare a un’ulteriore decifrazione della storia di Istochnikov, andando ad analizzare e verificare le fonti citate come supporto alla costruzione del suo personaggio e scoprendo quali altri elementi sono stati sfruttati per rendere verosimile la sua storia.