Quando però mi volgo indietro a cercare i momenti che hanno segnato quel passato sempre più sfumato e incerto, si affollano caotici gli episodi e le persone che vi hanno avuto parte.
Non saprei scegliere, tra i tanti maestri e allievi incontrati, quelli da cui ho imparato qualcosa. Né tantomeno individuare una pratica più adatta e giusta di altre, che non sia la consapevolezza – subito acquisita – del rapporto sempre personale che ogni esperienza di insegnamento esige.
Ricordo però il corso di formazione che ha cambiato la mia idea dell’insegnamento. Nulla di entusiasmante: poco più di una lezioncina, recitata con forzato entusiasmo da un relatore affatto brillante. Si parlava di didattica della scrittura, e di come proporla con efficacia. Citando il passaggio di una ricerca sperimentale sul testo descrittivo, effettuata in alcuni istituti e licei artistici, il relatore aveva commentato: “i ragazzi sapevano perfettamente realizzare un ritratto con matita e colori, ma non descriverlo a parole”; e subito aggiunto, senza lasciare spazio alla manifestazione dell’infastidito sussiego di una platea di letterati: “e ciò non dipendeva dalla maggior facilità di una pratica rispetto all’altra, ma dal semplice fatto che l’insegnante di disegno disegnava insieme ai suoi studenti, mentre quello di italiano non scriveva!”.
Fu la rivelazione di una mancanza, che risuonò come un rimprovero: chiedere agli altri ciò che non si era sicuri di saper fare significava condannarsi all’incomprensione e all’inadeguatezza. Tra il sapere e l’insegnare s’insinuava il fare, come misura della distanza tra maestro e allievo. A colmare quell’abisso sarebbe stato dedicato, da allora in poi, ogni mio sforzo e intenzione.
Dall’agenda Loescher 2018-2019, ispirata quest’anno al mestiere di insegnare e a Teach Like a Champion.