Cheng Cheng, Hu Hu, Xiang Xiang e Miao Miao

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Quando la scuola multietnica è un’indimenticabile avventura. Dal numero 15 de «La ricerca», un’insegnante racconta come ha fatto breccia in una classe “un po’ particolare”. Spoiler: c’entrano i crostini con i fegatini e Leopardi.
Mohammad, uno dei giocatori del Villarotta Cricket, Villarotta di Luzzara (RE), © Luana Rigolli.

Il primo studente non italofono frequentava l’Istituto per Geometri in cui insegnavo. Veniva dal Ghana e si chiamava Drissa.
«Drissà» mi corresse, quando pronunciai il suo nome senza accentarlo.

Erano molti anni fa, forse una ventina. La sua famiglia si era trasferita in Italia: lui era stato strappato dalla sua vita in Africa e trascinato a Firenze. Il suo umore aveva il colore della sua pelle, nero come pece, da quando entrava in classe a quando suonava l’ultima campanella, e lui, altissimo ed elegante, spariva a passo sinuoso fino all’indomani.

La preside m’incaricò di tenergli un corso pomeridiano di L2, italiano per stranieri. Prima di allora gli stranieri a cui avevo insegnato la mia lingua erano stati turisti facoltosi e goderecci che, in vacanza a Firenze, abbinavano all’arte e alla gastronomia nostrane anche un’infarinatura dell’idioma ritenuto più fedele all’italiano vero. Lo facevano così, quasi per gioco, per curiosità, per riempire un tempo altrimenti vuoto, e venivano a lezione belli sorridenti, in ciabatte e pantaloni corti, i capelli biondi, l’alito ancora un poco alcolico dalla notte precedente e brava. Drissa era tutto l’opposto. Drissa era molto, molto arrabbiato. Con la sua famiglia, con la città in cui era stato trasferito a forza, con la vita in generale, e anche con me.

Alle otto entrava in classe e si piazzava in un banco periferico, isolato dagli altri. Gli altri (quando lui non c’era) dicevano che puzzava. Non era vero. Aveva il suo profumo, un odore diverso da quelli a cui siamo abituati e che è legato a quello che mangiamo. Chissà cosa mangiava, Drissa.

Iniziai a chiederglielo quando partirono le nostre lezioni individuali. Fu quella la nostra grande occasione. Di lì a poco avrei scoperto che i suoi occhi – fino ad allora tenuti inchiodati al banco – sapevano sostenere il mio sguardo incuriosito, il suo sorriso – che sembrava inesistente – si allargava ai miei maldestri tentativi d’ironia, e la sua dieta – molta frutta, poca carne – avrebbe fatto benissimo anche a me.
E insomma, fu quella la mia prima volta.

La parola “inclusione” all’epoca non andava di moda come adesso, gli stranieri nelle classi erano pochi, pochissimi, sporadici, occasionali. E nessuno ci diceva ancora che chiamarli (appunto) “stranieri” era indelicato e che la dicitura corretta (benché ipocrita) era “non italofoni”.
Il mio battesimo vero e proprio con questo tipo di studenti, tuttavia, sarebbe avvenuto una decina di anni dopo.
Ero stata trasferita d’ufficio in un istituto a indirizzo turistico e commerciale. “Una scuola un po’… particolare”, mi fu detto con un eufemismo da chi la conosceva.
Il settantacinque per cento di quella che in gergo si chiama “utenza”, in quella scuola, era “non italofono”. Di quel settantacinque per cento, la metà era di origini asiatiche. Cinese, nella fattispecie.

Dal team della presidenza mi fu fatto uno scherzetto: una prima classe di trentatré studenti, tutti cinesi, assegnata a me, proprio a me, che – fatta eccezione per Drissa – non avevo mai avuto prima in classe ragazzi che non fossero italiani.

Mi spiegarono che quella che, a prima vista, poteva parere ghettizzazione bella e buona, era in realtà un progetto eccezionale. Poiché gli orientali, se catapultati in classi di provenienze miste, tendono a chiudersi in se stessi rifiutando di imparare, compromettendo quindi il profitto scolastico, per un anno si era scelto di radunarli tutti insieme in una sola classe nella certezza (o nella speranza, almeno) che rendessero di più.
Sì, ma perché affibbiare proprio a me il delicato caso? Non mi fu mai detto. E l’indomani mi ritrovai in un’aula con sessantasei occhi a mandorla puntati addosso.

All’epoca non conoscevo nemmeno la differenza tra ni hao e ni men hao, infatti a scanso equivoci dissi buongiorno. Poi spalancai il registro per fare l’appello. Quello che mi trovai davanti mi paralizzò.

Si chiamavano Cheng Cheng, Hu Hu, Xiang Xiang. Una addirittura Miao Miao. Per avvicinarsi e rendersi più simili a noi, proponevano di essere chiamati Marco, Dino, Massimo. Miao Miao per esempio, pensando di rendermi più facile la vita, mi suggerì di chiamarla Jessica. Le dissi che Miao Miao era molto meglio.

Di quei trentatré, dieci non capivano una sola parola di italiano; altri dieci intuivano ma non articolavano; i restanti (nati e cresciuti in Italia) si esprimevano in un fiorentino disinvolto e accettarono l’ideona che mi venne sul momento: affiancarmi durante le lezioni, diventare interpreti, colleghi, soci, compagni, coprotagonisti di un’annata destinata a diventare (ma ancora non lo sapevamo) indimenticabile.

Certo, non fu una passeggiata. Più che pormi delle domande sulla questione didattica, ricordo che mi tormentavo. Come riuscire ad appassionarli alle lezioni? Perché imbottire quelle giovani menti orientali di sola poesia occidentale? Perché costringerli a rinunciare alle loro radici culturali? Quale interesse potevano provare per Giacomo Leopardi? Una mattina proposi un gemellaggio poetico. Chiamai alla cattedra Fang Fang e Xin Xin e assegnai loro un compito di letteratura: scegliere un classico cinese, proporne un testo molto noto in Cina, trascriverlo in mandarino alla lavagna, leggerlo a voce alta e tradurlo, affiancando all’analisi del testo qualche notizia sull’autore. Scelsero una poesia di Li Bai, noto anche come Li Po, poeta della Dinastia Tang, vissuto tra il 701 e il 762. Considerato una delle principali voci poetiche della Cina, è stato soprannominato “l’immortale caduto”. Li Bai (spiegarono i due) è molto conosciuto per l’esuberante immaginazione visiva e l’eccessiva simpatia nutrita per gli alcolici. Non a caso una notte, ubriaco fradicio, cadde dalla barca nelle acque di un lago mentre cercava di afferrare la luna che vi si rifletteva. E morì annegato come un tonto qualunque. Ma in quella lezione riscosse un successo esagerato, e tutti dopo furono più curiosi di conoscere le vicende esistenziali del poeta di Recanati.

La vera svolta, tuttavia, giunse per noi a Natale, quando li invitai (tutti e trentatré) a casa mia per pranzo. Nessun italiano li aveva mai invitati a varcare la soglia della propria abitazione, tanto che nessuno di loro aveva idea di come fosse strutturata né arredata. Entrarono bussando con i piedi, perché le loro mani straripavano di doni. I maschi si misero ad apparecchiare, le ragazze s’intrufolarono in cucina. Aprivano gli sportelli sgranando quegli occhi stretti, divorati dalla curiosità di scoprire cosa contenessero. Avevo preparato per loro crostini neri ai fegatini, ribollita e salsicce con fagioli all’uccelletto, tre specialità toscane. Loro cucinarono per me patate alla cinese in un misto strano di olio di semi, zucchero, aceto e peperoncino. Studiarono nei dettagli il presepe e l’albero addobbato. Ci raccontammo storie, usanze e tradizioni. I brindisi furono tutti bilingue. Le foto, una valanga. Cominciarono a fidarsi, ad aprirsi, a lasciarsi andare. Io però volevo farli innamorare. 

Per questo m’iscrissi a un corso di lingua cinese.
Imparai che interrogazione si dice kou shi, studiare xue xi, ripassare fu xi, copiare chao. Dalla maestra cinese mi feci dire anche come si diceva marinare, o bigiare (tao xue), per minacciarli meglio. 

Sì, questo fece davvero la differenza. Non si sentirono solo accettati. Si sentirono amati. E avevano ragione, li amavo. Mi stava a cuore tutto quello che le loro giovani esistenze si portavano dietro: i turni massacranti al chiuso delle fabbriche una volta finita la mattinata a scuola, le ferree regole familiari a cui nessuno di loro osava opporsi e al contempo il desiderio di emanciparsi, di liberarsi, di evolversi in qualcos’altro che non fosse un futuro da formiche operose perennemente in corsa verso la ricchezza a tutti i costi. Mi dispiaceva non poter conoscere le loro madri e i loro padri, perché nessuno si presentava mai ai colloqui. Mi si stringeva il cuore ogni volta che Fang Fang mi diceva sorridendo: «profe, ma perché non mi adotta e mi porta a casa con sé?». E mi commossi quando Su Chong, finiti gli studi, m’invitò al pranzo pantagruelico per il suo fidanzamento.

Da allora i confini della scuola si sono vertiginosamente allargati. Adesso una classe priva di alunni stranieri non esiste più. Entrare nell’atrio di molti istituti dà l’impressione di trovarsi in un mercato multietnico dove colori, odori e idiomi si fondono, spesso allegramente, altre volte non senza difficoltà.

La curiosità reciproca può costituire una chiave d’accesso efficace. Io da quei ragazzi ho imparato moltissimo. Briciole di una lingua veramente ostica. La bellezza di un film come Non una di meno, che guardammo insieme in lingua originale con i sottotitoli in italiano. Ricette e segreti culinari che nulla hanno a che vedere con quello che ci rifilano nei ristoranti cinesi delle nostre città. Chicche di storia e di letteratura orientale che ignoravo e che senza di loro non avrei mai conosciuto. E infine l’esistenza di una piattaforma diversa da WhatsApp su cui noi tutt’oggi ci sentiamo per dirci ni hao ma? e sperare che tutti stiano bene.

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Antonella Landi

Insegna Lettere in un liceo di Firenze, dove vive. Firma una rubrica settimanale dedicata alla scuola sulle pagine fiorentine del «Corriere della Sera». Ha pubblicato per Mondadori “La Profe. Diario di un’insegnante con gli anfibi”, “Storia (parecchio alternativa) della Letteratura italiana” e “Tutta colpa dei genitori”. Per Einaudi ha curato l’edizione scolastica del romanzo “Io e te” di Niccolò Ammaniti. Per la casa editrice D’Anna, in collaborazione con la collega Silvia Collini, ha firmato l’antologia per il biennio delle scuole superiori “Controvento”. Il suo blog viene aggiornato regolarmente.

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