Mentre scrivo questo editoriale ribalza da un sito all’altro di organi di stampa e social network la notizia della signora che si sarebbe allontanata dal proprio posto in treno per non dover sedere “vicino a una negra”. Qualunque commento è superfluo, dopo lo “stronza” di Michele Serra, nella sua Amaca del 23 ottobre.
E sarebbe bello che la cosa finisse qui, se non fosse che la cronaca (purtroppo anche nera) degli ultimi mesi non lascia sperare in niente di meglio.
Stiamo davvero vivendo un ritorno virulento del razzismo? Una fase di involuzione antidemocratica? Un rigurgito di malsane pulsioni d’antan?
Forse è prematuro sbilanciarsi in giudizi e previsioni. Prematuro e di cattivo auspicio.
Ma ignorare il fenomeno non sembra comunque più possibile, soprattutto se, come noi qui, si vuole parlare di scuola. E la scuola, con tutta la fatica che le costa stare al passo di una società e di una politica che sembrano impazzire a corrente alternata, rivela una vitalità e una lungimiranza insospettate.
E dunque di che razza di scuola parliamo?
Di quella dimenticata dalla narrazione politica, se non per rivendicare l’italica precedenza a mensa o in classe? O di quella raccontata dal rapporto di Tuttoscuola sulla dispersione scolastica, vera macelleria sociale di un terzo buono della popolazione più giovane?
O, ancora, di quella del caos burocratico, tra concorsi per dirigenti, nuove immissioni in ruolo, ricorsi al tar e conflitto tra maestre?
Di nessuna di queste, nello specifico. O forse, meglio, di tutte queste e di molte altre ancora.
Vogliamo parlare, infatti, della scuola che periodicamente diamo per spacciata e che invece, chissà come, riesce regolarmente a darci inattesi e insospettati segni di vitale creatività nella soluzione dei problemi (ereditati o creati ad arte, poco importa).
Tra i tanti temi, quello dell’intercultura era uno dei possibili. Se abbiamo cominciato da qui è solo per tentare di ridare un po’ di equilibrio al quadro.
Quando se ne parla, infatti, di solito è per raccontare del “buonismo” radical chic dei mondialisti, o del “cattivismo” spavaldo di certi sindaci. Ma la realtà, a guardarla più da presso, ha contorni sfumati e meccanismi più complessi di così. Ha la passione di Antonella Landi e la pensosa esperienza di Laura Manassero; l’entusiasmo sperimentale di Francesco Vietti e la rigorosa organizzazione metodologica di Mara Fornari, e la poesia di Affinati.
Testimonianze, tutte, di quanto oggi più che mai sia opportuno fare educazione interculturale, e parlare di razzismo. Parlarne a scuola, in primo luogo, come nel posto che meglio si presta per verificare la fondatezza delle affermazioni che circolano sul tema. Occorre farlo con sapienza e giudizio, come esemplifica bene Reali, senza mai dimenticare, però, il grande dubbio che resta sullo sfondo della questione, sollevato con prospettive diverse dagli altri autori della sezione Saperi – Tosolini, Maida, Staid e Cammilli. È un dubbio fondamentale, di metodo e di sostanza. Come può la differenza – etnica, linguistica, culturale – entrare nella quotidiana pratica educativa, al punto da diventare oggetto di riflessione? Non sarebbe meglio comportarsi come non esistesse? Come se non si vedesse?
La questione è cruciale, e lo dimostra anche il Dossier, che ancora una volta volge lo sguardo al di là dell’Atlantico, all’esperienza di chi, in questo caso, da più tempo si interroga sul corretto modo di parlare di “razza” e “identità”: ci è sembrato il modo migliore per avvantaggiarci sull’evoluzione di un dibattito che presto o tardi, anche da noi, potrebbe affrontare la questione con profondità di prospettiva.
Stronzi permettendo, ovviamente…