Cervelli morali?

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Immaginiamo che uno scienziato pazzo ci rapisca e, dopo averci narcotizzati, espianti il nostro cervello e lo colleghi a una macchina.

 

Questa, con un software adatto, fornisce al cervello input tali che esso non riesce a distinguere la realtà fisica, di cui in effetti non sa più nulla, da quelli che sono gli stimoli predisposti dallo scienziato e inviati attraverso cavi collegati alle terminazioni nervose del cervello. Il soggetto insomma crede di vivere delle esperienze normali, in una vita regolare, senza nemmeno sospettare cosa sta avvenendo. Si tratta di un famoso esperimento mentale di Hilary Putnam, detto del cervello in una vasca (il cervello, per svolgere le sue funzioni, ha bisogno di essere sospeso in un liquido).

Immaginiamo ora che il cervello ritenga di vivere delle situazioni in cui deve prendere delle posizioni morali (in questo capoverso espongo la questione con le parole e nella prospettiva adottata da Maurizio Ferraris alle pp. 6-7 del suo Emergenza, Einaudi, Torino 2016): “c’è chi fa la spia e chi si immola per la libertà, chi commette malversazioni e chi compie atti di santità”. Il problema è: in quelle circostanze hanno luogo degli atti morali? Secondo Ferraris no: “si tratta nel migliore dei casi di atti immaginari, di pensieri, che hanno un contenuto morale senza per questo essere morali. Comminare degli anni di galera a un cervello che ha pensato di rubare non è meno ingiusto che santificare un cervello che ha pensato di compiere azioni sante” (ivi, p. 7, i grassetti sono miei).

La tesi di Ferraris mi pare poco convincente. Cominciamo con l’esaminare l’atto immaginario. Esso si dà quando la mente, fantasticando, esplora in qualche misura mondi possibili. Il soggetto, quando immagina, è consapevole che la sua fantasia non è reale. Quello che avviene invece nel nostro esperimento mentale è ben diverso: il cervello è convinto di compiere azioni reali rispetto alle quali sa che sono buone o cattive (vi è insomma piena consapevolezza e deliberato consenso, per dirla con una terminologia morale classica). Esso intende fare ciò che fa e nella teoria dell’azione le intenzioni contano.

In secondo luogo, stiamo a come Ferraris descrive la situazione: “c’è chi fa la spia e chi si immola per la libertà ecc.”. Senonché, fare la spia e immolarsi per la libertà sono azioni morali e come tali sono meritevoli sul piano morale di biasimo o lode. Perciò non sono solo dei pensieri con contenuto morale, come invece dice Ferraris. Ma forse si può riformulare il passo di Ferraris per renderlo coerente al discorso generale dell’autore: “c’è chi intende fare la spia e chi pensa di immolarsi per la libertà etc.”. Anche così posta, la cosa non risulta però convincente: il cervello non solo intende fare la spia, ma la fa davvero, almeno in quel livello di realtà che è la simulazione che esso vive (e poi siamo proprio sicuri che è il cervello a viverla? sarebbe meglio qui parlare della coscienza: il cervello è un organo fisico). Il cervello manda degli output che dicono al corpo di muoversi, agire, fare, etc. Il software della macchina a esso connessa elabora le informazioni e gira dei nuovi input al cervello, così che esso “ritiene” di aver compiuto proprio quei dati atti (se vogliamo continuare a mescolare cervello e coscienza). Esso comunque, è il caso di dirlo, non pensa di agire come cervello, ma come persona, perché non distingue tra il prima e il dopo il rapimento. Insomma il cervello, mandando degli output, dei comandi al corpo e perciò in quel livello di realtà agisce effettivamente, e perciò risulta a tutti gli effetti responsabile delle sue scelte, dei suoi atti, ancorché virtuali dal nostro punto di vista.

 

Abbiamo così cominciato ad affrontare la questione della responsabilità. Ferraris chiude il suo ragionamento con la boutade già citata: “comminare degli anni di galera a un cervello che ha pensato di rubare non è meno ingiusto che santificare un cervello che ha pensato di compiere azioni sante”. Qui Ferraris aggancia due discorsi con l’intento di squalificarli entrambi. Come però abbiamo visto, il cervello non ha solo pensato di compiere delle azioni, ma ha dato ordine al corpo di farlo. Perciò è responsabile e potrebbe essere premiato o punito per questo sul piano morale. Su quello giuridico, non avendo compiuto alcun crimine nella realtà non simulata, non vi saranno ragioni per perseguirlo nel mondo reale, ma questo solo perché il nostro livello di realtà è altro da quello in cui esso ha agito. A quel livello, invece, il cervello – o meglio il soggetto che ha agito – è perseguibile o encomiabile (almeno in un universo simulato coerente e con leggi identiche a quelle del mondo reale).

Una questione davvero interessante risiede però proprio nella boutade di Ferraris: in prigione andrà il cervello? In realtà no: se la simulazione del computer andrà avanti con coerenza sarà la persona a essere messa in prigione: quell’essere dotato di fisicità virtuale e di una mente che ha agito in maniera criminale. La responsabilità non è del cervello, ma dell’unità psicofisica (mentale e del corpo virtuale in questo caso) che, in quel particolare livello di realtà, ha compiuto un certo atto. Il fatto che sappiamo che essa non è fisica conta poco. In quel livello di realtà è reale, pena il collasso della simulazione.
Ci si potrà poi chiedere a cosa servano le prigioni in un universo a un solo abitante, come quello popolato dal cervello della storia. Esso non può uccidere davvero, né può davvero derubare nessuno, perché coloro con cui interagisce non sono agenti personali, ma entità fittizie. Questo stabilisce una sorprendente asimmetria tra crimine e santità: se si uccide un ente finzionale non si è un criminale nel mondo reale (ma la società farebbe bene a guardarsi da un tale individuo con tendenze criminali), mentre se si compie atti santi verso enti finzionali, vi sono validi elementi per sostenere la santità dell’individuo ed è giusto farlo.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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