“C’è ancora domani”: Delia, Filippa e la sorellanza

Tempo di lettura stimato: 8 minuti
Mentre il film di Paola Cortellesi continua a riempire le sale in tutta Italia, proviamo a rifletterne mettendo insieme lotte per i diritti, istruzione e una novella di Boccaccio.
Delia (Paola Cortellesi) nella scena finale del film.

 

È intitolata a Giovanni Boccaccio la scuola che, nella scena finale del film C’è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi, diventa seggio elettorale, a Roma. Un seggio dedicato alle donne cittadine che, nel giugno del 1946, per la prima volta nella storia dell’Italia unita, partecipano in massa a consultazioni elettorali di rilievo nazionale. È un’abitudine che continua tuttora, quella di utilizzare gli edifici scolastici per le votazioni, e che tuttavia nel film acquista una risonanza particolare. Scuola, cioè istruzione, e voto, cioè libertà di espressione e rappresentanza, vanno di pari passo, tanto che al tempo dei governi liberali il raggiungimento di un certo grado scolastico era prerequisito per accedere al suffragio prima dei 30 anni. E non pare un caso nemmeno l’associazione con Giovanni Boccaccio (a Roma non esisteva nessuna scuola elementare Giovanni Boccaccio e la scena è ambientata nell’ex ospedale Forlanini), l’autore meno ortodosso del famigerato canone letterario, scrittore sfruttabile per imporre una certa visione della donna e della società ma poco politicamente impegnato, poco italian-patriottico.

A guardar bene, nel Decameron non si trovano solo episodi di violenza domestica e di abusi pari a quelli raccontati nel film di Cortellesi. Qua e là Boccaccio, anche se in maniera ironica, carnevalesca, sembra anche immaginare antidoti al regime patriarcale che quegli episodi ha reso possibili.

Nella settima novella della sesta giornata, dedicata a «chi con alcuno leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno», tutto ruota intorno a un articolo dello Statuto (la Costituzione del Medioevo) del Comune di Prato, che puniva con la morte sul rogo le donne che fossero state colte in flagrante adulterio (sorta di delitto d’onore collettivo) o che facessero sesso per denaro. Cosa che rischia di travolgere la signora Filippa, innamorata di un altro illustre pratese: Filippa viene denunciata dal marito e processata in tribunale e al cospetto del magistrato non nasconde la propria colpevolezza, anzi la proclama con orgoglio. Facendosi avvocata di sé stessa, Filippa sostiene che le leggi devono essere emanate con il consenso di coloro a cui sono rivolte: «le leggi deono esser comuni e fatte con consentimento di coloro a cui toccano». Dunque le norme che riguardano le donne dovrebbero essere discusse e votate anche dalle donne.

Svelato l’ingiusto fondamento del diritto, Filippa trasforma la sua arringa difensiva in un attacco contro le disparità di genere e chiede al giudice di verificare le conseguenze del suo comportamento adulterino sul marito. Il quale ammette che i doveri di moglie, a letto e fuori del letto, Filippa li svolgeva adeguatamente. L’amante pertanto non sottraeva nulla al consorte. La legge di Prato – ecco il «pericolo» o «scorno» scongiurato – verrà infine modificata per la parte che riguardava le mogli adultere (la pena capitale resterà invece per le sex workers).

Il sorprendente finale della novella, raccontata da Filostrato, è accolto dalle sette giovani della brigata con sguardi di timido assenso, come a cercare conferma reciproca a dubbi e pensieri che già loro avevano formulato nella realtà ma che non possono approvare apertamente davanti ai maschi: «l’una l’altra guardando», «soghignando»; sanno che l’opera di Filippa riguarda anche loro, che il cambio sarebbe un beneficio per tutte.

È una morale solo apparentemente progressista quella che, nella novella, consente l’aggiornamento del Codice penale, visto che presuppone la stereotipata insaziabilità delle «femmine» e l’impossibilità di frenarne l’appetito sessuale, persino con le leggi. Eppure si intravede una speranza, quel «domani» di cui nel film Delia desidera con tutte le forze essere parte attiva. Delia non ha amanti, fa in modo di non averne, né cerca la salvezza da un matrimonio-carcere attraverso un nuovo principe azzurro capace di catapultarla in un altrove migliore. Dietro il suo ruolo di donna semplice e poco istruita, ha ben chiaro che qualcosa intorno a lei, a loro, sta cambiando, e che sua figlia Marcella potrà spezzare la «catena dell’immolazione materna» e il «servaggio» che Sibilla Aleramo aveva scritto tramandarsi di madre in figlia, di generazione in generazione, tra il silenzio omertoso di parenti e vicini/e. Grazie al sostegno di un soldato afroamericano – vera e propria alleanza intersezionale del film – Delia consegna a Marcella una possibilità inedita di futuro, basata su una scelta consapevole che non riproduca, con un po’ di denaro in più, l’oppressione in cui il padre costringe la madre. E glielo dimostra facendo tesoro dei messaggi dei tanti manifesti affissi sui muri di Roma per il suffragio finalmente davvero universale, maschile e femminile. Uniche escluse, tanto per cambiare, le sex workers, fino al 1947 considerate indegne del diritto di voto proprio come nella novella di Boccaccio erano considerate indegne della clemenza dello Statuto pratese.

Nel 1919, la legge Sacchi aveva portato in Italia all’abolizione dell’autorizzazione maritale e introdotto le basi per l’accesso delle donne alle professioni, grazie alla definizione della loro capacità giuridica. In teoria, da allora, le italiane avrebbero potuto gestire da sole eventuali patrimoni, testimoniare in tribunale da sé, accendere mutui e prestiti, lavorare in quasi tutti i settori privati e pubblici. Di fatto, i cambiamenti subentrarono molto lentamente e l’avvento del fascismo, dopo promesse iniziali di coinvolgimento politico delle donne come elettrici, finì per bloccare qualunque effetto positivo, anche per il modello femminile di angelo del focolare della propaganda. Nel 1925 una legge concesse alle donne il diritto di voto a livello amministrativo, ma la successiva introduzione della figura del podestà, di nomina governativa, vanificò l’applicazione del provvedimento. Fu quindi con immensa gioia che le italiane di qualunque ceto e fede politica accolsero, dopo la guerra e le lotte della Resistenza, la possibilità di esercitare da sole il diritto di voto. Per questo obiettivo si erano mosse, all’inizio del secolo, tra le altre, Anna Maria Mozzoni e Anna Kuliscioff, indignate dal fatto che il partito socialista (guidato dal compagno di Kuliscioff, Filippo Turati) non sostenesse la loro causa, nella falsa convinzione che le donne avrebbero votato conservatori e clericali:

Forseché le donne di qualunque ceto – professioniste, impiegate, insegnanti, commercianti, direttrici di industrie – non hanno tutte le ragioni del mondo di reclamare per sé i diritti di cui godono gli uomini? O potrebbero venir loro contesi, solo perché la loro bandiera fosse moderata o clericale?

Se i socialisti si sentissero convinti fautori di un suffragio universale autentico, e non a scartamento ridotto, saluterebbero con viva soddisfazione anche le suffragiste non proletarie, come un coefficiente efficace all’auspicata vittoria.

Così tuonava Kuliscioff sulle pagine della «Critica sociale» nel 1910, rivolgendosi proprio al compagno (in tutti i sensi) Turati e ai dirigenti scettici. Il voto sarebbe stato comunque una conquista del progresso, a prescindere dalle opinioni politiche delle singole. L’alleanza contro il suffragio femminile era trasversale a tutti gli schieramenti parlamentari. Questa «confraternita maschile» (così Mozzoni), guidata dai cosiddetti Soloni, faceva leggi a proprio uso e consumo (come pensava la Filippa di Boccaccio), creando vittime e colpevoli per motivi che non avevano nulla a che fare con la vera giustizia. E il movimento suffragista nato nel Regno Unito, percepito e presentato dalla stampa internazionale come frutto di fanatiche terroriste, con idee sovversive, faceva sì che anche in Italia le attiviste venissero impietosamente attaccate, fatte oggetto di vignette satiriche, definite con l’articolo «il», in quanto avevano osato varcare e tradire i confini e i ruoli del loro sesso.

 

Ritratto di un gruppo di partecipanti al decimo Congresso del Partito Socialista Italiano. Fra gli effigiati sono riconoscibili Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Gaetano Salvemini, Argentina Altobelli, Linda Malnati, Grazia Dei, Gatti, Angiolo Cabrini, Rema, Campanozzi e Bellonci1908

 

La Delia di C’è ancora domani sa che tira un’aria nuova. E quando, dalla scalinata del seggio, circondata da altre donne votanti, affronta lo sguardo del maschio violento, mostra di avere compreso pienamente il senso della partecipazione politica: non ci si salva da sole, in nome di chissà quale merito, né ricorrendo a un amante apparentemente migliore del coniuge, né introducendo nuove gerarchie verticali. Ci si salva facendo rete, ci si salva con la solidarietà tra creature marginalizzate, ci si salva con la sorellanza.

Confortata dal proprio successo oratorio e legislativo, a favore di sé e delle concittadine, la Filippa di Boccaccio «lieta e libera, quasi dal fuoco risuscitata, alla sua casa se ne tornò gloriosa». Allo stesso modo, con il vestito e il trucco della festa, liete, libere e gloriose, Delia e le italiane, nel giugno del 1946, tornarono a casa (o in convento) dopo aver consegnato all’urna la scheda elettorale. Così è nata la Repubblica italiana, così il domani di Delia e delle sue sorelle è diventato il nostro oggi, che però, nonostante le leggi e i diritti, assomiglia ancora troppo allo ieri.

Condividi:

Johnny L. Bertolio

Si è diplomato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha conseguito il PhD alla University of Toronto, dove ha maturato una variegata esperienza nella didattica dell’italiano. Attualmente collabora con Loescher come autore e redattore nell’ambito umanistico.

Contatti

Loescher Editore
Via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino

laricerca@loescher.it
info.laricerca@loescher.it