Cartoline dall’infanzia

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Sul “buon uso” della lettura: piccola rivisitazione di tracce novecentesche sulla figura del bambino-lettore.
Un bambino-lettore.

Nell’ambito scientifico in cui si producono riflessioni sulla scuola, sull’educazione e sulla formazione degli insegnanti non è raro imbattersi in analisi che individuano nella dimensione dell’infanzia una miniera quasi inesplorata per la valorizzazione delle pratiche di lettura. Il tema attraversa ormai un’ampia rete di ricerche interdisciplinari. Sul piano dei contenitori teorici, ci siamo spinti oltre la rassicurante “educazione alla lettura” che ha caratterizzato buona parte delle metodologie del secolo scorso. A farci fare questo passo è stata soprattutto la necessità di riconsiderare il significato stesso della parola “lettura” in relazione alle sue pratiche e ai suoi usi nel mondo contemporaneo.
Osservando in dettaglio il moto inquieto delle pratiche educative, si nota che la loro quadratura con le teorie non dipende più (soltanto) dall’obiettivo della comprensione testuale. Per citare un esempio noto ai lettori della rivista, Elisa Golinelli e Sabina Minuto hanno descritto la metodologia del Writing and Reading Workshop (WRW) come una «cornice pedagogica importante», ma ancora da contestualizzare nella scuola italiana attraverso una didattica nuova e laboratoriale.

Partiremo da una domanda: cosa può la lettura?Un insieme di risorse esistenziali che riguardano la dimensione cognitiva, affettiva e comportamentale del soggetto, legate alla percezione di sé e del mondo, costituisce la posta in gioco del new deal che esplora gli usi, le circostanze, le tecniche del corpo associate alla lettura in contatto con la dimensione dell’infanzia. Si producono ricerche sulle condizioni per cui l’attività mentale del soggetto che legge una storia, o che ne ascolta la lettura, produce effetti benefici sulle competenze cognitive e affettive, sull’immaginazione, sull’orientamento esistenziale e sull’interazione, ossia sulle capacità di entrare in relazione con l’altro. Ma anche sulla capacità soggettiva di affrontare traumi e transizioni dolorose nel corso dell’esistenza.

A muovere l’interesse per questo nodo di questioni c’è l’intuizione che l’esperienza di lettura possa comportare l’apertura di orizzonti di possibilità nelle trame della vita. Nella necessità di ospitare in una formula-contenitore l’insieme di questi effetti, partiremo da una domanda: cosa può la lettura? Più che di educazione, parleremo preferibilmente del “buon uso” della lettura e del suo legame con la dimensione dell’infanzia.

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Una striscia di Calvin & Hobbes di Bill Watterson. [Ehi, stai leggendo quel libro che mamma ha preso in biblioteca? – Mm. – È bello? Ti piace? È eccitante? Ti stai divertendo? – Shh. – Come può essere divertente tutto questo silenzio?]
Non è qui possibile fare il punto sullo stato degli studi e dei progetti che oggi si consolidano intorno a questi temi, alcuni dei quali sono stati raccontati su «La ricerca» [si veda ad esempio L’artigianato della lettura e la formazione degli insegnanti, N.d.A.]. Perciò vorrei porre l’attenzione sul legame emblematico che unisce la dimensione dell’infanzia alla pratica di leggere, concentrandomi su alcuni avamposti presenti nella cultura umanistica novecentesca. Come è ovvio, questa piccola operazione archeologica non può pretendere di dare un’interpretazione unitaria a un fenomeno talmente stratificato e ricco di diramazioni. In altre parole, mi concentrerò su una parte limitata di tracce intorno al modo in cui i bambini leggevano e continuano a leggere, sull’infanzia della lettura – felicissima espressione di Giampiero Comolli – più che su particolari letture d’infanzia o tecniche di lettura. Isolerò alcune domande che oggi possono essere rivitalizzate, o più semplicemente rilette, per generare nuove traiettorie e linee di passaggio nel campo interdisciplinare che coinvolge studi pedagogici, scienze sociali e cognitive, psicologia della lettura.Non esistono forse giorni della nostra infanzia che abbiam vissuti tanto pienamente come quelli che abbiam creduto di aver trascorsi senza vivere, in compagnia di un libro prediletto.

È difficile sottostimare l’importanza dell’incipit proustiano del saggio Sulla lettura (Rizzoli 2011), pubblicato nel 1905 come introduzione (polemica) alla traduzione francese di Sesamo e i gigli di John Ruskin. «Non esistono forse giorni della nostra infanzia che abbiam vissuti tanto pienamente come quelli che abbiam creduto di aver trascorsi senza vivere, in compagnia di un libro prediletto». La frase è stata tanto celebrata da diventare anche il claim di campagne promozionali in ambito editoriale, che ne hanno fatto un emblema del desiderio di leggere. Il suo carattere provocatorio si presta a questo genere di operazioni, ma ciò che risalta maggiormente è l’effetto di coincidenza fra l’intensità del vissuto e l’apparente passività che la pratica di leggere realizza, in un modo molto particolare durante l’infanzia. Siamo all’inizio del secolo scorso, l’irrisolvibile conflitto fra la vita attiva e l’inazione riflessiva è ricondotto da Proust al lavoro dell’immaginazione, che alimenta l’esperienza di lettura infantile producendo desideri, schemi e associazioni di significati che il bambino ritroverà nel corso della vita. È probabile che l’autore della Recherche abbia deposto in questo punto un’eredità per il futuro: il segnale che occorre cercare nel nesso fra infanzia e lettura le ragioni profonde della capacità infantile di costruire legami e mondi attraverso una logica associativa – la percezione di somiglianze fra sé e l’altro – che l’adulto tende a mettere da parte, generalmente a vantaggio del senso comune e delle leggi generali di astrazione teorica, quasi sempre smettendo di immaginarsi in un’altra vita.

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Una striscia di Calvin & Hobbes di Bill Watterson [- Mentre tu leggi quel libro noioso, io andrò a fare qualcosa di divertente. – Ok. – Io mi divertirò come un pazzo, mentre tu resterai seduto qui a sbadigliare e a rimpiangere di… – Aieee! – Leggo anche io da dietro le tue spalle, ok? – No. Vai a fare qualcosa di divertente.]
Cosa può dunque la lettura, quando si radica nel terreno dell’infanzia? Non stupisce che sia stato un lettore di Proust a raccogliere e approfondire questa relazione: il filosofo berlinese Walter Benjamin, autore di Infanzia berlinese intorno al millenovecento (1938), ripresa e integrata con altre note in un volume – Figure dell’infanzia (Cortina 2012) – che mette in cornice la sua produzione intorno al nesso tra educazione, letteratura e immaginario. Per rendere conto della sua influenza su questo campo di studi, occorre menzionare almeno uno dei suoi saggi più noti, Il narratore (1936), che rappresenta una fonte imprescindibile per le ricerche sulle comunità narrative e la capacità umana di orientarsi nello spazio e nel tempo attraverso il racconto.

Nella prima serie di scritti, Benjamin presenta delle situazioni costruite intorno a frammenti biografici che pongono al centro della scena la figura del bambino, le relazioni che instaura con gli oggetti che popolano il suo mondo. Lo si nota dai titoli dei paragrafi di “Ingrandimenti”, il testo che apre il volume «come un vero e proprio cortometraggio, se non addirittura come un trailer» (scrivono i curatori Francesco Cappa e Martino Negri a p. 36): bambino che legge, bambino arrivato in ritardobambino goloso, bambino sulla giostra, bambino disordinato, bambino nascosto. Fra queste possibilità, la situazione di lettura è presentata come il richiamo per un gioco. Con essa il bambino compie, per ricominciare ogni volta in modo diverso, l’esperienza del viaggio iniziatico che lo conduce verso vite che gli sono al tempo stesso vicine e lontane.

Il silenzio del libro invitava a procedere! Il contenuto non era poi così importante. Poiché la lettura apparteneva ancora al tempo in cui, a letto, si inventavano storie per proprio conto. Di queste il bambino segue ancora le tracce mezzo cancellate. […] Lui si mescola ai personaggi molto più dell’adulto. Viene colpito in modo particolare dagli eventi e dalle parole che vi si scambiano, e quando si alza è tutto coperto dalla nevicata di quanto ha letto (p. 55).

La neve cade silenziosa dal cielo, in modo casuale; ricopre le superfici, ne nasconde i colori, ma lascia intuire forme e contorni delle cose. Giocando con il libro, il bambino gioca a nascondino con sé stesso, in una caccia immaginaria che coinvolge fiuto, udito, tatto e gusto. L’intero apparato sensorio arricchisce l’esperienza con dettagli inaccessibili alla vista. In questo gioco egli assimila il contenuto del libro. L’uso del verbo non è casuale, richiama infatti «un confronto fra il leggere e il mangiare» che Benjamin istituisce nel saggio “Letteratura per l’infanzia”: «nell’atto di ingerire nessun mondo delle forme viene assimilato, scomposto e distrutto Il bambino e la bambina non leggono per accrescere il loro sapere, ma per accrescere sé stessi e, soprattutto, per giocare ad essere altro.come nella prosa narrativa» (p. 129). Lo storico e gesuita Michel de Certeau, riferendosi a un momento specifico della «lettura spirituale» nella tradizione mistica moderna, avrebbe definito questi e altri gesti di ruminazione come «la costruzione di un corpo parlante» (La Fable mystique II: XVI- XVII siècle, Gallimard 2013, p. 210). Anche in questo senso, la lettura infantile rappresenta una sorta di esercizio spirituale, cioè una pratica relazionale basata sul riconoscimento e sul potere performativo: un teatro di immagini e uno spazio di voci, un luogo abitato da differenze. Il bambino e la bambina non leggono per accrescere il loro sapere, ma per accrescere sé stessi e, soprattutto, per giocare ad essere altro: «il leggere dei bambini – insiste Benjamin nel finale dell’ultimo saggio citato – non è in rapporto molto stretto con la loro formazione o con la loro conoscenza del mondo, ma con la loro crescita e con il loro potere» (Figure dell’infanzia, p. 130).

Siamo all’«aurora del leggere», per riprendere ancora un’espressione di Comolli (in La tempesta di neve. Infanzia della lettura e infanzia della metafora, «aut aut», n. 191-192, 1982). Il paesaggio che si può intravedere si accorda perfettamente al paradosso proustiano, poiché il potere di cui si parla può essere esercitato solo nell’apparente vulnerabilità con cui il bambino e la bambina si pongono fronte al libro. Le parole di Benjamin richiamano infatti la memoria di un potere utopico e sovversivo, un esercizio del senso del possibile proprio di un’epoca segnata dalla subalternità rispetto al modo in cui gli adulti operano sulle cose. Il lettore comune sperimenta la prossimità e la distanza rispetto alle vicende dei personaggi, agli ambienti in cui si muovono, ai sentimenti che li fanno muovere. Presta loro una parte della sua vita, in modo imprevedibile.«Con gli scarti di lavorazione i bambini non riproducono le opere degli adulti, tendono piuttosto a porre i vari materiali in un rapporto reciproco, nuovo e discontinuo», scrive Benjamin a proposito del «segreto accordo tra artigiano e bambini» (Figure dell’infanzia, p. 90 ss.). In realtà questa dote riassume la condizione del lettore per eccellenza: non il lettore modello di echiana memoria, né l’iperlettore con cui si può identificare – nella definizione di Alberto Abruzzese – «l’interlocutore consumato, superalfabetizzato e letterariamente disinibito». Il destinatario dell’eredità infantile è soltanto l’adulto che leggendo, al di là dalle circostanze che ne definiscono l’identità, diventa per un certo tempo un soggetto terzo. Il lettore comune sperimenta la prossimità e la distanza rispetto alle vicende dei personaggi, agli ambienti in cui si muovono, ai sentimenti che li fanno muovere. Presta loro una parte della sua vita, in modo imprevedibile.

A partire da pochi frammenti novecenteschi sul valore dell’esperienza di lettura durante l’infanzia, possiamo trarre qualche insegnamento. Innanzi tutto, il significato di questa piccola operazione di scavo smentisce la convinzione che l’infanzia della lettura sia una sorta di riserva indiana, un paradiso perduto o un’età dell’oro. Si tratta piuttosto di una condizione – l’immersione in una storia, il turbamento, la partecipazione emotiva rispetto a eventi di finzione: «quei pomeriggi, infatti, contenevano più avvenimenti drammatici di quanti non ne contenga, spesso, un’intera vita», ribadisce Proust nella Recherche (Dalla parte di Swann, «Meridiani» Mondadori 1983, p. 103) – che può essere risvegliata nel corso della vita dall’incontro intimo tra un libro e il suo lettore. In questi casi, la sensazione di risveglio è dovuta a ciò che Martha Nussabaum ha definito capacità di coltivare l’immaginazione narrativa, per la quale l’arte – quindi la letteratura, «mediante la sua capacità di rappresentare le circostanze particolari e i problemi dei diversi personaggi» (Coltivare l’umanità, Carocci 1999, p. 100) – svolge un ruolo fondamentale. Questo punto è stato sottolineato recentemente anche da Zadie Smith, in un intervento-manifesto intitolato Fascinated to Presume: in Defense of Fiction: «che effetto fa essere quella persona? Provare ciò che prova? Chissà. Posso usare le emozioni che provo io per immaginare quelle che prova qualcun altro?» (Internazionale, n. 1335, nov-dic 2019, p. 106).

Lettura non come costrizione ma come un invito alla costruzione; come la possibilità di abitare uno spazio in cui costruire sé stessi attraverso trame di relazioni.Oggi la valorizzazione della lettura infantile e adolescenziale come spazio di mediazione fra l’esperienza vissuta e i codici simbolici del mondo rappresenta un punto fermo non solo per gli studi sulla dimensione educativa, ma per tutte le ricerche sulla costruzione sociale dei significati. Seguendo le tracce disseminate in queste brevi note, si è portati a intendere la lettura non in quanto costrizione ma come un invito alla costruzione; come la possibilità di abitare uno spazio in cui costruire sé stessi attraverso trame di relazioni; come un’attività che impegna il corpo e il linguaggio, il comportamento, l’immaginazione e gli immaginari culturali.
Nonostante la notevole distanza temporale rispetto ai casi osservati da Benjamin, possiamo riconoscere in questa posizione un seme che aspetta di germogliare per guardare al futuro allargando le frontiere dell’esperibile. Il suo richiamo può servire da stimolo a tutte le figure che lavorano in ambito educativo, a contatto con le storie e il mondo dell’infanzia, per la necessità di esercitare uno sguardo che non esprima nostalgia per un paradiso perduto, ma che sia capace di riconnettersi tramite l’esperienza-soglia della lettura al potere dell’infanzia, al suo senso del possibile e alla sua capacità di immaginarsi in altre vite.

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Daniele Garritano

Ricercatore postdoc in sociologia presso l’Università della Calabria, si occupa di consumi culturali, pratiche di lettura e vita quotidiana. PhD in letterature comparate presso l’Université de Paris 8 Vincennes – Saint-Denis e in estetica presso l’Università degli Studi di Siena, ha lavorato sul tema del segreto nella “Recherche” e sulla ricezione di Proust nella filosofia del xx secolo. Co-fondatore della rivista online «ZS digestioni critiche» (zetaesse.org), ha scritto su «Quaderni proustiani», «Europe», «il Mulino», «Le parole e le cose», «Jacobin Italia». Fra le sue pubblicazioni: “Il senso del segreto. Benjamin, Bataille, Deleuze, Blanchot e Derrida sulle tracce di Proust” (Mimesis 2016); “Platonismo rinascimentale: i “nuovi filosofi” inquieti e ribelli” (Hachette 2016). Ha tradotto e curato l’edizione italiana di “Letture della differenza sessuale” di Hélène Cixous e Jacques Derrida (Artstudio Paparo 2016).

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