L’occasione per rispolverare un percorso didattico di qualche anno fa nasce da un recente viaggio nella Francia del Sud. Con la memoria ancora fresca di altri viaggi impegnati a seguire segni della presenza romana, memorie occitaniche e vestigia petrarchesche, abbiamo optato per un itinerario naturalistico, ma è bastato incontrare il borgo di Roussillon e i Sentiers des ocres per ricordare che natura e cultura sono sempre interconnessi. Narra infatti un’antica tradizione folklorica che la terra argillosa delle cave del Luberon debba il suo colore al sangue di Sirmonde, la moglie di Raymonde d’Avignone, suicida per dolore dopo che il marito, scoperta l’infedeltà, ne aveva ucciso l’amante. L’eziologia del mito medievale lo lega alla Provenza, ma questo inscena un topos ricorrente, nel quale non sarà difficile riconoscere lo sviluppo narrativo della famosa “novella del cuore mangiato”, nona di quella quarta giornata del Decameron nella quale si discute di «coloro li cui amori ebbero infelice fine».
Nella novella di Boccaccio i protagonisti sono messer Guglielmo Rossiglione (da Roussillon appunto), la sua «bellissima e vaga moglie» e messer Guglielmo Guardastagno, amico dell’omonimo marito, «fuor di misura» inna
morato della donna. Sulla triangolazione amorosa e fatale della leggenda provenzale si innesta però il motivo della cardiofagia: il marito offre in pasto alla moglie infedele il cuore del rivale. Si tratta dell’attestazione più nota di un topos fortunato di cui possiamo provare a riconoscere la storia.
Tra mito e leggenda
Miti molto antichi inscenano senza remore atti cannibalici legati alla vendetta, e particolarmente alla vendetta amorosa: in Seneca, Tieste, per aver sedotto la cognata Erope, è colpito dall’ira del fratello Atreo, lo sposo tradito, che uccide e cucina i tre nipoti e li offre al loro padre perché se ne cibi; nel sesto libro delle Metamorfosi di Ovidio, Procne dà in pasto allo sposo Tereo le carni del figlio Iti, per punirlo di averla tradita e in un altro passo della stessa opera troviamo un esempio di cardiofagia, laddove si parla del mito di Zagreo, figlio di Zeus e Proserpina, su cui ricade la violenta vendetta di Era, che incarica i Titani di ucciderlo. Questi dilaniano il corpo di Zagreo e se ne nutrono, ma il re degli dei riesce a salvarne proprio il cuore che inghiotte, generando poi, dalla propria coscia, Dioniso. Qui il pasto consente la sopravvivenza di Zagreo, il cui spirito divino confluisce in Dioniso, così la vicenda della divinità silvestre, particolarmente legata ai culti orfici, illumina la particolare densità simbolica e religiosa del topos.
La cardiofagia è anche un leit motiv della tradizione folklorica, benché le versioni più recenti e vulgate delle fiabe tradizionali europee per lo più ne tacciano gli aspetti cruenti (la regina che pretende il cuore di Biancaneve come prova della sua morte non lo offre in pasto né lo mangia). Il cuore, del resto, è il centro vitale, la sede dei sentimenti e metonimicamente rappresenta la persona stessa, come racconta la Ballata dell’amore cieco di Fabrizio De André, dove il dono del cuore è l’estrema, crudele richiesta rivolta al devoto pretendente. Sembra implicita l’influenza della metafora eucaristica (il corpo di Cristo), che dagli apparati folklorici facilmente passa alla tradizione lirica: Dante, nel III capitolo della Vita nova, sogna il proprio cuore tra le mani di Amore, che lo offre in pasto a Beatrice:
pareami che disvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno, che le facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente. (Vita nova, III, 9)
Riscritture e orizzonti di attesa
Boccaccio non è Dante e, nonostante la passione per il sommo poeta, il suo mondo è diventato uno spazio orizzontale e laico, la morte, per voce del chierico Petrarca, appare più dubbioso passo che meta finale di un itinerarium mentis ad Deum, quindi la componente teologico-morale non è tra le istanze della novella in cui la leggenda di Sirmonde si unisce al topos del cuore mangiato. Questo ha peraltro attestazioni romanze di oltre un secolo precedenti, in un lai inserito nel Roman de Tristan (fine del XII secolo) e nella Vida del trovatore provenzale Guillem de Cabestaing (1230 circa).
La novella e la vida del trovatore provenzale presentano evidenti coincidenze nel plot narrativo, nella ambientazione cavalleresca e provenzale e nella scelta dei loro nomi, tuttavia il confronto permette di osservare varianti sostanziali in cui si esplicita la via per cui Boccaccio interviene sull’immaginario diffuso e dunque sull’orizzonte di attesa dei lettori coevi, che certo conoscevano la storia originaria. Partendo dal testo della Vida e dando per scontata la lettura della novella, proverò a riassumere quello che probabilmente i più già sanno, ma in cui forse qualcuno potrà trovare lo spunto per un’unità didattica che mi è parsa interessante.
Guglielmo di Cabestaing fu un cavaliere della regione di Rossiglione, che confina con la Catalogna ed il Narbonese. Fu uomo molto avvenente nella persona e molto pregiato nell’armi e nelle cortesie e nei servigi di vassallo. E c’era nella sua regione una dama che aveva nome madonna Soremonda, moglie di don Raimondo di Castel Rossiglione, ch’era molto nobile e ricco e cattivo e crudele e fiero e orgoglioso. E Guglielmo amava d’amore la donna, e cantava di lei e componeva per lei le sue canzoni. E la dama, ch’era giovane e gaia e nobile e bella, gli voleva bene sopra ogni cosa al mondo. E ciò fu riferito al marito, che indagò ogni cosa, e un giorno trovato Guglielmo senza compagnia, lo uccise: E poi fece trarre il cuore dal petto e tagliare la testa. E fece arrostire il cuore e lo fece condire con la peverata, e lo fece dare da mangiare alla moglie. E quando la donna l’ebbe mangiato, Raimondo le chiese: “Sapete voi che cosa avete mangiato?” ed ella rispose: “No, se non ch’è un cibo molto buono e saporito”. Ed egli le disse che quel ch’ella aveva mangiato era il cuore di ser Guglielmo di Cabestaing; e perché meglio lo credesse, fece portare la testa innanzi a lei. E quando la donna ciò vide e udì, perdette la vista e l’udito. E quando rinvenne disse: “Signore, per certo m’avete dato così buon mangiare, che mai più non mangerò altra cosa”. E quand’egli udì ciò le corse sopra con la spada, e volle colpirla sulla testa. Ed ella corse ad un balcone e si lasciò precipitare giù. E così morì.
Dal confronto si coglie facilmente che ciò su cui i due testi coincidono è essenzialmente il contenuto: ambientazione provenzale e cavalleresca, triangolo amoroso, uccisione dell’amante, macabro banchetto e morte della donna che si getta dalla finestra. Oltre cento anni separano però i due testi: il primo, per ovvie ragioni, è strettamente legato al contesto cortese che lo ha prodotto: Messer Raimondo di Rossiglione è il feudatario, Guillelm de Cabestaing è il trovatore, socialmente posto a un rango inferiore. L’amante vive all’interno del castello e può intrattenere con la moglie del suo signore un legame amoroso, lecito entro i limiti codificati dal contesto e dal linguaggio cortese. Il suo amore dev’essere, come sappiamo, discreto, protetto da una comunicazione criptica e metaforica che riproduce la gerarchia vassallatica, perfetto anche in virtù della distanza che impedisce l’unione reale tra l’amante e l’amata. La consumazione dell’amore rappresenterebbe una grave rottura dell’ordine sociale (pensiamo a Tristano e Isotta, a Lancillotto e Ginevra, ma anche, tolte le implicazioni teologico-morali, anche a Paolo e Francesca), tuttavia, finché la relazione tra amante e amata si articola entro i termini imposti dal codice cortese, non c’è ragione per punire l’amante. Per questo la reazione del marito appare ingiustificata anche alla popolazione del Rossiglione, che infatti parteggia per i due amanti uccisi, e il re d’Aragona, signore tanto di Raimondo quanto di Guglielmo, esercita la sua paterna giustizia punendo ed escludendo l’omicida e celebrando come martiri i due amanti.
Gli elementi di novità della versione boccaccesca si palesano sin dalla rubrica: la donna è soggetto attivo, amante, e il terzo elemento del triangolo, messer Guiglielmo Guardastagno, è grammaticalmente l’oggetto «ucciso da lui (il marito) e amato da lei». Nel racconto i castelli sono due e ben distanti, circostanza che chiede volontarietà e toglie agli amanti l’alibi dell’incontro accidentale. Inoltre i due uomini hanno lo stesso rango e la loro relazione è qualificata come amicizia tra compagni d’armi, di caccia e di tornei, un legame da commilitoni e da pari, amplificata dal fatto che i due hanno lo stesso nome. Dall’altro lato, la relazione tra gli amanti viene inequivocabilmente consumata: il Guardastagno si innamora «fuor di misura non ostante l’amistà» che lo lega al Rossiglione, la donna non desidera altro che stare con l’amante e i due si incontrano più volte «amandosi forte» e «men che discretamente». La sfrontatezza degli amanti, assente nel precedente occitanico, provoca la reazione del Rossiglione che converte l’antico “amore” per l’amico in odio e organizza la vendetta con fredda determinazione, discrezione, abile simulazione. Il Guardastagno cade nella trappola e muore sotto l’assalto del vendicatore, diffusamente raccontato fin nel particolare ferino del cuore strappato dal petto a mani nude dal marito stesso.
La trasformazione più sorprendente riguarda però la donna, di cui il racconto segue l’evoluzione psicologica: prima fiduciosa, poi preoccupata per il mancato arrivo dell’amante, quindi, dopo le rassicurazioni del marito, «un poco turbatetta», sembra quasi presaga della sciagura. Mangia comunque la macabra pietanza e il suo apprezzamento offre al marito tradito l’occasione del disvelamento, che avviene tramite una battuta che evidenzia bene il contrappasso fuor di metafora sessuale: «io il vi credo né me ne maraviglio se morto v’è piaciuto ciò che vivo più che altra cosa vi piacque». Dalla reazione della donna, vera protagonista della storia (come già Ghismonda e Lisabetta da Messina, raccontate nella stessa giornata), si comprende che il racconto sta mettendo a fuoco un tema del tutto assente dal precedente provenzale: «Voi faceste quello che disleale e malvagio cavalier dee fare», dice al marito, contrapponendo al presunto tradimento della relazione maschile (che è la principale colpa del Guradastagno, ben più grave della ferita coniugale) un diverso assoluto affettivo, la passione irresistibile che unisce chi si ama. Con determinazione coraggiosa, la nuova Soremonda assume su di sé la responsabilità del tradimento e rivendica la propria responsabilità nell’oltraggio del marito: «se io, non isforzandomi egli, l’avea del mio amor fatto signore e voi in questo oltraggiato, non egli ma io ne doveva la pena portare». Boccaccio insomma mette in scena una donna coraggiosa che con atti e parole pone a chi ascolta/legge un dilemma valoriale: qual è il patto di fedeltà tradito? Contano di più le relazioni tra uomini, per le quali la donna è proprietà violata, oppure la passione amorosa?
Lo scarto tra moglie e marito è massimo: la vendetta del Rossiglione sul Guardastagno associa alla freddezza calcolatrice del pianificatore la brutalità ferina del cacciatore o del guerriero primitivo assetati di sangue, mentre la donna nobilmente non esita a sacrificare sé stessa, in un suicidio scelto per rispetto a un vincolo di fedeltà amorosa e carnale: «a Dio non piaccia che sopra a così nobil vivanda, come è stata quella del cuore d’un così valoroso e così cortese cavaliere come messer Guiglielmo Guardastagno fu, mai altra vivanda vada!». Allo sposo, colto di sorpresa, non resta che convincersi di avere agito male e riparare lontano, prima di incontrare la riprovazione sociale e la punizione che anche la fonte provenzale prevedeva. Le salme trovano anche qui una sepoltura comune, proprio all’interno del castello in cui si è consumato l’adulterio, e l’autorità civile affida a un’epigrafe il riscatto post mortem dell’ingiuria subita dagli amanti.
Il Decameron insomma presenta un quadro decisamente più complesso della sua fonte. Nella dilatazione testuale i personaggi perdono la bidimensionalità originaria, che li relegava a funzioni/maschere di un sistema sociale sostanzialmente immobile, e articolano un dinamismo che porta entrambi a una crescente consapevolezza dell’amore e della sua assenza. L’operazione si inquadra poi nella cornice che mette in scena un’allegra brigata di giovani che si interrogano sui valori ereditati (la fin amor, il rispetto delle gerarchie, un ordine sociale nel quale il sovrano è garante della giustizia) e ne misurano la tenuta in un contesto profondamente differente da quello della fonte: una civiltà ora mercantile, dinamica, che traspare in filigrana anche nelle novelle di ambientazione cortese, come questa. La cornice chiarisce che è in atto un confronto intergenerazionale, nel quale l’amore e le relazioni tra uomini e donne sono centrali perché centrali sono state sin dal principio delle letterature volgari – e forse lo saranno in ogni tempo, se l’amore e i rapporti tra i generi sono la chiave di lettura per capire come funziona una società.
Intelligenza come desiderio
Il topos del cuore mangiato ha una particolare fortuna, studiata quasi trent’anni fa da Mariella Di Maio (II cuore mangiato, Storia di un tema letterario dal Medioevo all’Ottocento, Guerini e Associati, Milano 1996), antesignana di molti altri studiosi del tema, così che non sarà difficile seguirne le tracce nella letteratura non solo italiana almeno fino a Stendhal.
La meditazione sull’amore per via letteraria è importante anche oggi: gelosia, possesso, relazioni tossiche e più o meno metaforicamente cannibaliche o vampiresche, ma anche passione, autenticità, lealtà e cura sono nodi imprescindibili per un approccio ai testi autenticamente interrogante, che torni a stimolare la riflessione che fu dell’allegra brigata fiorentina. Anche la classe, del resto, può essere un’allegra brigata e potrebbe essere interessante lasciare proprio ai nuovi lettori di Boccaccio il compito di esplorare le occorrenze attuali del motivo letterario, magari in quegli ambiti musicali o cinematografici dei quali i ragazzi e le ragazze sono non di rado più aggiornati di noi.
Vorrei però tentare in chiusura una riflessione d’ordine generale, partendo da una suggestione pindarica sul tema del momento, l’intelligenza artificiale, questa settimana al centro di un incontro formativo nel Liceo in cui lavoro. Tra molti interrogativi e alcune preoccupazioni che ancora non so soppesare, mi pare di poter mettere a fuoco almeno una certezza: la decodifica e la creazione automatica di immagini digitali o di testi a partire da grafemi-fonemi ha certamente straordinarie potenzialità, ma al momento non è comparabile all’intelligenza umana. Fornendo all’AI conversazionale istruzioni precise possiamo fin d’ora arrivare alla formulazione automatica di una favoletta che riecheggia Esopo, di un sonetto metricamente coerente o di un racconto inedito che presenti un amore clandestino, l’irascibile reazione del tradito e il tragico epilogo, allo stesso modo avremo nelle nostre case fantasiosi e gradevoli tessuti decorativi e affiches disegnati dall’AI, ma né il contenuto e la coerenza formale di un testo, né l’eventuale gradevolezza di un tessuto sono arte. Allora mi sembra che lavorare attivamente sul testo letterario, anche in chiave ipertestuale, ossia a caccia di fonti, possa servire a valorizzare lo specifico della letteratura che è sempre incontro e dialogo tra soggetti che provano emozioni.
Chi insegna oggi ha un compito importantissimo e difficile: se vogliamo impedire che si perda la felice virtualità che ci accompagna da millenni, ossia la condivisione nelle scritture di mondi immaginati e narrati, dobbiamo trovare lo spazio e il tempo della profondità: rinunciare alla quantità delle informazioni (su cui la macchina ha vinto da decenni) e portare i più giovani a riconoscere che le parole e i racconti sono lo spazio in cui singoli uomini, donne e intere comunità hanno dialogato con gli uomini e le donne del loro tempo e con quelli delle generazioni precedenti, per immaginare un mondo che li facesse sentire meno soli, oppure un po’ più liberi e persino un po’ più giusti.
Pur contenendo al suo interno infinite possibilità, l’intelligenza artificiale non sperimenterà mai lo spaesamento che nasce dalla scoperta che il mondo in cui viviamo non è che uno degli infiniti mondi possibili. Quell’inquietudine tanto umana (il «tristo privilegio di sentirsi vivere» per Pirandello), a me pare la culla del desiderio, una forza che spinge gli uomini a unirsi in social catena e a dare vita alla poesia, all’arte e a tutte le opere di genio, che potranno anche essere anonime, come la Vida di Guillelm, ma non saranno mai impersonali. E in questo desiderio, così generativo, mi pare sia racchiusa non poca felicità.
Note bibliografiche:
Mi preme palesare il debito nei confronti di un intervento su Boccaccio tenuto dal prof. Giuseppe Noto (Università di Torino) nel 2016 e oggi disponibile sul canale youtube dell’Accademia delle Scienze di Torino, che nel corso dell’a.a. 2015/2016, ha organizzato cinque incontri sul tema: Storia della letteratura e didattica della lingua: cinque autori irrinunciabili. (link https://www.youtube.com/watch?v=p3rrrYayrDs)
Per una ricognizione sul tema del cuore mangiato, oltre al citato saggio di Mariella Di Maio, si veda Fabio Cavalli, Madonna Soremonda e il mito del cuore mangiato (in Interpretazioni mitologiche dei fenomeni naturali. Atti del Convegno di Studi di Trieste-Gradisca d’Isonzo, 28-29 settembre 2007, a c. di G. Romagnoli e S. Sconocchia, 91-101), dal quale è tratta la traduzione qui riportata (alle pagine 91-92). Il testo originario della Vida si legge in J. Boutiere – A.H. Schutz, Biographies des troubadours: textes provençaux des XIII et XIV siècles, Paris, Nizet, 19732, 530-55.