Questa non è una vera recensione, ma una semplice segnalazione – come si suol dire – “di servizio” a vantaggio di chi abita nella mia regione, cioè la Lombardia. Infatti a Merate, Villa Confalonieri, fino al 29 novembre è esposto uno dei capolavori che abitualmente nobilitano la Galleria di Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma: nientemeno che lo splendido Narciso di Caravaggio, giunto in Brianza grazie a un’iniziativa promossa dalla Fondazione “Costruiamo il Futuro” insieme con le “Gallerie d’Italia” di Intesa Sanpaolo, con Edison in veste di main partner.
Credo che nessun amante dell’arte dovrebbe perdere questa occasione, anche perché la mostra – curata da Giovanni Morale – è gratuita e facilmente prenotabile da questo sito.
L’attribuzione di Roberto Longhi
Ricordo solo che la tela, dipinta tra il 1597 e il 1599, è stata attribuita a Michelangelo Merisi dal grande Roberto Longhi, poiché essa non era direttamente menzionata in alcuna biografia contemporanea all’artista: la sua qualità, comunque, regge assai bene il confronto con altri capolavori di sicura mano del pittore lombardo. Pertanto si suole accogliere senza troppe difficoltà quell’autorevole attribuzione, nonostante periodicamente qualche voce critica associ il dipinto ad altri “caravaggeschi”, come lo Spadarino, Niccolò Tornioli o il ben più noto – anche perché padre di Artemisia… – Orazio Gentileschi.
Quasi inutile aggiungere il fatto che il soggetto derivi dal terzo libro delle Metamorfosi di Ovidio (vv. 339 ss.), opera amata in ogni tempo, ma che ebbe in età barocca particolare fortuna. D’altronde, come poteva il poema latino delle mirabolanti trasformazioni (oltre duecentocinquanta…) non affascinare l’epoca che attribuiva all’arte come finalità la maraviglia, per citare Giovan Battista Marino? Sì, quel Marino che nel suo Adone (1623) non mancò anch’egli di descrivere la triste sorte del bel ragazzo cui troppo a se stesso di piacer gli spiacque.
L’inquietante specularità dei due Narcisi
Tornando a Caravaggio, il Narciso di Palazzo Barberini spicca per l’eleganza dei vestiti d’epoca del giovinetto, per il suo sguardo anelante, per la sua immagine riflessa nelle cupe acque dello stagno, sul quale si protende quasi fosse sospeso. Longhi vi ha visto echi della tradizione pittorica bresciana (Savoldo, Romanino), e aveva ovviamente ragione; noi spettatori ci vediamo un’inquietante specularità tra i due Narcisi, identici per forma ma cromaticamente diversi, quasi a manifestare con il chiaro-scuro la lacerazione derivante dall’insano (e fatale) sentimento amoroso, che la modernità ha addirittura “patologizzato” con il termine di narcisismo. Ennesima dimostrazione, questa, della funzione archetipale che il mito classico ha avuto nel tempo nei confronti della cultura occidentale, e non solo.
L’emozione davanti a un capolavoro
Ovviamente, molto altro si potrebbe (anzi dovrebbe) dire, ma mi ero ripromesso brevità e non voglio venir meno a questo proposito; non posso però non aggiungere una nota personale, significando la profondissima emozione che mi ha regalato questa visita, peraltro del tutto inaspettata, in quanto ho saputo solo da poco di questa lodevole iniziativa. Un’emozione superiore a quella provata le altre volte che avevo visto a Roma questa tela, in quanto nella sua sede abituale essa quasi si mimetizza in mezzo a così tanti capolavori; qui, nella bella villa meratese, ci appare invece come un ospite di riguardo, al quale dedichiamo – finché è in casa nostra – tutte le attenzioni possibili. E poiché l’opera mancava dalle terre lombarde, che diedero i natali al Merisi, dal lontano 1998, il Narciso non è certo ospite frequente dalle nostre parti, e – valorizzato dal pannello scuro al quale è appeso il quadro – sembra quasi consapevole dalla sua preziosa presenza, come pure della sua struggente bellezza: d’altronde è oppure no – almeno un po’… – “narcisista”?