A Monza, una mostra molto interessante
La mostra in corso è promossa dal Comune di Monza e organizzata da Civita Mostre, in collaborazione con Magnum Photos e la Casa dei Tre Oci. L’esposizione presenta un centinaio di fotografie in bianco e nero, che ripercorrono la carriera di Robert Capa attraverso i principali conflitti del Novecento, e si configura come un itinerario iconografico dentro la storia di un secolo, vissuto attraverso l’obiettivo del più grande fotoreporter di tutti i tempi.
Alle prime immagini scattate a Copenhagen nel 1932, durante un comizio di Trotskji, fanno seguito gli scatti della guerra civile spagnola e della resistenza cinese contro l’invasione giapponese del 1938.
La seconda guerra mondiale vede Capa sempre in prima linea. Dopo un soggiorno a Londra, nel 1943 è inviato in Nord Africa, poi segue lo sbarco degli alleati in Sicilia e la risalita della penisola verso Napoli e Cassino. Sbarca con la prima ondata di truppe americane sulle spiagge della Normandia, regalandoci alcune delle fotografie di guerra più vibranti ed emozionanti di sempre. Dopo aver documentato la liberazione di Parigi e l’invasione della Germania, nel 1947 è in Russia per un reportage e l’anno successivo è presente alla fondazione dello stato di Israele.
Perde la vita nel 1954 calpestando una mina anti-uomo sul fronte dell’Indocina. Una morte che ha un sapore amaro, una sorta di nemesi del suo modo d’intendere la professione.
La stella polare del lavoro di Capa si può riassumere nella sua celebre frase: «Se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non sei abbastanza vicino».
Robert Capa è stato così fedele al suo motto da essere protagonista gli eventi fino alla morte, e mai semplice testimone. Il suo sguardo sulla realtà è partecipativo. Il suo punto di vista è dentro la storia, immerso nei fatti e tra le persone.
Non è solo una questione di distanza fisica: Capa infatti sosteneva che per fare buone foto fosse necessario schierarsi a favore di una delle parti in conflitto. Una scelta di campo, questa, mossa da una forte tensione ideologica e dalla passione per la giustizia.
Le sue foto di guerra non esprimono dunque un prevedibile e scontato senso di distruzione, non mirano a stupire con visioni cruente. Sono immagini che ritraggono attimi d’umanità rubati alla tragedia della guerra. La famosa foto del miliziano spagnolo è un’icona di ribellione, di slancio vitale verso la libertà, più che una rappresentazione della morte. Nella Londra del ’43, sotto i bombardamenti tedeschi, Capa non fotografa incendi e devastazioni, ma si sofferma soprattutto sui piccoli gesti di resistenza quotidiana contro l’orrore della guerra. La foto più celebre dello sbarco in Italia ritrae un vecchio contadino siciliano che indica la strada a un soldato americano.
È in questa capacità empatica di entrare in sintonia con l’emozione del momento e di darle forma, trasformandola in un’immagine di valore simbolico e universale, che risiede la grandezza di Robert Capa. Il suo obiettivo partecipa non solo agli eventi, ma anche ai sentimenti dei protagonisti, regalando immagini che hanno la forza di sublimare l’attimo. John Steinbeck aveva colto perfettamente quest’aspetto di Capa: «Sapeva di non poter fotografare la guerra, perché è soprattutto un’emozione. Ma è riuscito a fotografare quell’emozione conoscendola da vicino, mostrando l’orrore di un intero popolo attraverso un bambino».
Tuttavia le immagini più impressionanti di Capa restano quelle del D-Day. Il 6 giugno del 1944, tra i marines americani che sbarcavano a Omaha Beach, c’era anche lui, un uomo “armato” di una macchina fotografica; le sue munizioni: pellicole in bianco e nero. Robert Capa riuscì a scattare diversi rullini sotto il fuoco nemico, avanzando al fianco dei soldati americani. Sono le celebri fotografie che vennero pubblicate sulla rivista Life, immagini sfocate e sgranate per colpa di un frettoloso sviluppo in laboratorio. I preziosi negativi, asciugati a una temperatura troppo elevata, si rovinarono irrimediabilmente. Di 106 fotogrammi scattati durante lo sbarco, se ne sono salvati solo 8. Quelle fotografie, così confidenzialmente vicine alla morte, possiedono una potenza visiva e una forza evocativa di straordinario impatto emotivo.
Ma la grandezza di Robert Capa è anche nella sua profonda cultura dell’immagine. L’equilibrio tra gli elementi dell’inquadratura, la geometria delle linee, la disposizione dei soggetti nello spazio, l’uso sapiente della luce, tradiscono una raffinata capacità compositiva. Competenze così sedimentate nel suo sguardo, da dar forma naturalmente a immagini perfette anche nei momenti più critici. Contenuto e forma trovano nei suoi scatti una magica sintesi espressiva, con una nitidezza compositiva che ha dell’incredibile.
La retrospettiva dedicata a Robert Capa suscita nostalgia per un mondo della fotografia che non esiste quasi più. Il lavoro dell’inviato speciale è stato progressivamente cancellato dalle trasformazioni del mondo editoriale e da un controllo sempre più ferreo sui media da parte dei vertici militari. Con la scomparsa della figura del fotoreporter, abbiamo purtroppo perduto anche il rigore, la creatività artistica e la professionalità alla base della qualità delle immagini.
Oggi la fotografia degenera spesso in un dilettantesco intrattenimento da smartphone. I social media sono inondati di immagini, quasi sempre banali, scontate, spesso autoreferenziali e di scarso valore. Una superficie iconografica che colora la rete di vacui e insignificanti momenti di vita, alla disperata ricerca di like e follower. Una marea che s’inabissa velocemente nelle memorie dei server senza lasciare traccia, superata ogni giorno da una nuova ondata. Anche per questo è importante vedere fotografie come quelle di Robert Capa. Fermarsi a guardare e comprendere il valore assoluto di un’immagine, la sua capacità di raccontare, di emozionare, di lasciare nella retina, nel cuore e nell’anima qualcosa di eterno.
Alessio Turazza
Dalla mostra a un recente libro: La ragazza con la Leica
La figura di Robert Capa – non che ne avesse bisogno… – è tornata di grande attualità dopo l’uscita del romanzo di Helena Janeczek, La ragazza con la Leica, Guanda, Parma 2017, che nel 2018 è stato insignito del prestigioso “Premio Strega”. La protagonista è infatti la fotografa tedesca Gerda Taro, che a Capa fu legata da un sodalizio professionale e sentimentale: i due, entrambi di famiglia ebraica e di simpatie social-comuniste, si conobbero a Parigi, dove negli anni Trenta era ancora possibile respirare quella libertà che altrove in Europa era stata soppressa. E fu proprio Gerda, il cui vero nome era Gerta Pohorylle, a “inventare” il personaggio del fotografo americano Robert Capa, che in realtà si chiamava Endre Friedman ed era di origini ungheresi: insomma, oltre che collega e fidanzata, la giovane tedesca fu anche una sorta di manager – per così dire – di Robert.
Nella mostra di Monza appaiono foto di Gerda e Robert, della loro felicità euforica quanto precaria: si tratta di immagini sulle quali l’autrice del libro scrive pagine molto interessanti.
Così come è interessante (anche se un po’ complesso: poi ci tornerò…) il modo con il quale Helena Janeczek ricostruisce il personaggio di Gerda Taro, la cui storia è raccontata attraverso la “prospettiva” – filtrata dal passare del tempo, poiché siamo negli anni Sessanta – di persone che l’hanno conosciuta. Si tratta anzitutto di suoi due ex innamorati, e cioè Willy Chardack, affermato scienziato che vive a New York, e Georg Kurizskes, medico della FAO, che lavora a Roma; insieme a loro è l’amica Ruth Cerf, a tessere a distanza una biografia di quella che è stata – ed è ancora – per loro più di una cara persona perduta prematuramente. Gerda diventa, infatti, il simbolo di una gioventù coraggiosa, talora audace, che ha dovuto misurare i propri sogni e le proprie aspirazioni con situazioni di inaudita gravità e importanza, come l’affermazione del Nazismo in Germania o la sanguinosa guerra civile che aveva diviso gli spagnoli.
Evento fatale, questo, per Gerda, perché nel 1937 – non ancora ventisettenne – ella morì in un incidente, di ritorno dal fronte di Brunete, mentre seguiva da vicino (da molto vicino, secondo i dettami di Capa…) la Guerra di Spagna; proprio quella guerra che ha reso universalmente noto – attraverso i suoi scatti – il “suo” Robert.
Il funerale parigino della coraggiosa reporter vide una folla oceanica, che non riuscì però a consolare l’inconsolabile Robert, lacerato dal dolore e dai sensi di colpa. In fondo, la sua morte nel 1954 in Indocina sembra rappresentarne una sorta di (in)consapevole emulazione di quella di Gerda.
Ma torniamo al libro, brevemente. Certamente si vede un grande lavoro di ricostruzione storica, una documentazione impeccabile, e – dietro l’apparente “assenza”… – un’autrice partecipe delle vicende narrate, che sono di per sé molto coinvolgenti. Personalmente, avrei forse semplificato un po’ gli intrecci di situazioni, riflessioni e piani cronologici, originati dai differenti punti di vista di coloro che ricordano la figura di Gerda. Io, infatti, talora mi ci sono un po’ perso, e ho dovuto riprendere quanto scritto nelle pagine precedenti per “far quadrare il cerchio”. A meno che non fosse proprio questo il fine dell’autrice, e cioè costringere il lettore ad un’attenzione vigile senza se e senza ma, come la coraggiosa vita della sua affascinante protagonista sicuramente merita.
Mauro Reali