C’era una volta il dodo

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Al MUSE di Trento una mostra ci racconta la storia evolutiva da un punto di vista particolare, quello delle “estinzioni di massa”, momenti in cui la scomparsa delle specie ha subito un’accelerazione.

Estinzioni. Storie di catastrofi e altre opportunità ci parla di specie che scompaiono e della vita che ricomincia, presentando il fenomeno dell’estinzione come un fattore naturale. Senza un approccio catastrofistico, ma con lo sguardo rivolto al futuro del pianeta.
Già il titolo fa capire come il concetto di estinzione venga affrontato in modo non necessariamente negativo: con la scomparsa di alcune specie, altre si possono affermare. È il caso dei mammiferi, che prosperano e si diversificano dopo la scomparsa dei dinosauri. Un richiamo al concetto di “crisi” come opportunità, che alcune specie sapranno sfruttare meglio di altre.

La mostra, a cura di Massimo Bernardi, con Michele Menegon, Alessandra Pallaveri e Telmo Pievani, è organizzata in 5 sezioni tematiche, caratterizzate da diversi colori di sfondo che scandiscono il passaggio da una all’altra. I pannelli esplicativi sono semplici e chiari, e mettono subito a fuoco i temi principali del percorso.
All’ingresso ci accoglie un’interessante selezione di fossili, a rappresentare le forme di vita scomparse, il succedersi delle specie. Nella seconda sezione incontriamo le teorie dello scienziato Georges Cuvier (1769-1832) e scopriamo le 5 grandi estinzioni di massa degli ultimi 500 milioni di anni, in cui sono scomparse intere famiglie di organismi.
Le installazioni multimediali che punteggiano il percorso ci aiutano a cogliere in modo immediato, e molto suggestivo, l’argomento. Tocco una parete interattiva e appaiono ombre di creature del passato, estinte nelle grandi crisi ecosistemiche.

Se le eruzioni vulcaniche e l’impatto di asteroidi hanno dato avvio a quelle catene di processi destinate a cambiare profondamente l’aspetto del pianeta, la terza sezione, Il meteorite umano, sottolinea la responsabilità dell’uomo nell’alterazione dell’ambiente e nell’estinzione di numerose specie animali e vegetali. Qui incontriamo tigri dai denti a sciabola, mammut, moa giganti. Ed ecco il dodo dell’isola di Mauritius, raffigurato anche in dipinti, il cui ultimo avvistamento risale al 1662; o il leone berbero, con la criniera che arriva fino all’inguine, scomparso nel Novecento: un piccolo video, nella mostra, ne testimonia l’esistenza, tratto da Il circo di Charlie Chaplin, del 1928.

Ma è sicuramente il tilacino l’animale che mi incuriosisce maggiormente. Con la sua forma slanciata e la grande bocca mi fa venire subito in mente il lupo mannaro in cui si trasformava Remo Lupin nel film Harry Potter e il prigioniero di Azkaban. Dichiarato ufficialmente estinto nel 1982, il tilacino, o lupo (o tigre) della Tasmania, è oggetto delle ricerche di scienziati che tentano di ricreare in laboratorio alcune specie scomparse.

Una delle cose che più apprezzo di questo museo è la capacità di affrontare concetti complessi e difficili in modo rigoroso ma leggero, talvolta ludico. Lungo il percorso della mostra ci attendono alcune presenze virtuali, incaricate di approfondire un argomento o di farci riflettere sul nostro comportamento. In questa sezione è il caso di Patrizio Roversi, che si anima dalla parete appena ci avviciniamo e, scherzosamente, si interroga e ci interroga sulla stupidità umana.

E arriviamo all’evoluzione dell’uomo, nella quarta sezione. Qui è presente uno dei reperti più preziosi della mostra, il cranio di Homo neanderthalensis “Guattari I”, uno dei più completi conservati in Italia e nel mondo, proveniente dal Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma. È proprio l’immagine virtuale di Luca Bondioli del Museo Pigorini ad animarsi per raccontarci qualcosa sul rapporto fra Homo neanderthalensis e Homo sapiens, da cui discendiamo. Molto interessante scoprire che probabilmente anche l’uomo di Neandertal aveva capacità di comunicazione simbolica, si truccava e utilizzava penne d’aquila per addobbarsi.

Ed ecco il momento ludico a cui, ovviamente, non mi sottraggo. Una sorta di specchio interattivo, grazie alla tecnologia del morphing, trasforma il nostro volto riportandoci allo stadio di Neandertal. Mi faccio anch’io una foto in versione donna di Neandertal, ma non la condividerò con nessuno, perché sono veramente terribile, con questo volto primitivo e la camicia a fiori.

Accanto al gioco, un altro argomento serio: il rischio dell’omogeneizzazione culturale, che sta appiattendo le diversità, facendo scomparire lingue e culture. Faccio mio il pensiero espresso nel pannello esplicativo: “Ma l’uomo non è solo biologia, oggi è soprattutto cultura e questo rende inaccettabile che ciò che rimane della diversità umana sia eliminato, talvolta con violenza, dall’invadenza di un solo modello di sviluppo che vede il profitto come giustificazione di tutto. Un’ottusa e inarrestabile forza chiamata globalizzazione”.

Arriviamo così all’ultima sezione della mostra, quella che ci riguarda più da vicino. Proprio nei giorni dell’inaugurazione sono usciti alcuni articoli sulla crisi della biodiversità, già scesa sotto il livello di guardia, a sottolineare una tendenza verso l’estinzione di intere specie: la “sesta estinzione di massa”. Uno studio internazionale pubblicato su «Science» sostiene che la perdità di biodiversità ha già superato i limiti di sicurezza che garantiscono il benessere fisico e psicologico delle società umane.

La mostra illustra perfettamente questo problema, sottolineando la totale indifferenza dell’uomo verso la pericolosa situazione che ha creato. Stiamo utilizzando molto male le risorse del nostro pianeta. Ed ecco, quindi, il richiamo alla responsabilità dell’uomo e alle possibili soluzioni da adottare. Quali specie sopravviveranno a questa nuova crisi? La risposta è all’esterno della mostra, in una delle sezioni del museo: “Non è la specie più forte che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più ricettiva ai cambiamenti.”

È vero, l’approccio della mostra non è catastrofista, ma non posso dire di sentirmi particolarmente rinfrancata. Soprattutto leggendo il pannello Troppi di noi: “L’osservazione di una semplice coltura batterica ci insegna che non è possibile crescere all’infinito in un sistema chiuso. Analogamente, il pianeta è come la piastra di coltura dei batteri e Homo sapiens l’organismo che continua a crescere come se non ci fosse un limite.”

Questo, però, non vuol dire che ci dobbiamo sterminare da soli. A pochi passi dal MUSE, il mio amato Palazzo delle Albere finalmente riaperto (dove molti anni fa ho avuto modo di visitare delle belle mostre d’arte), ospita fino al 25 settembre una toccante mostra fotografica, La Guerra Bianca, a cura di Marco Cattaneo e della redazione di National Geographic Italia. Sono esposte le foto di Stefano Torrione, che ha recuperato le tracce della Prima guerra mondiale sul fronte dei ghiacciai: resti di baracche, camminamenti, bombe e cannoni, passerelle e scalette sospese nel vuoto, reticolati, foto di fidanzate, scatolette di sardine e scarponi, oggetti riemersi con il ritiro dei ghiacciai. Le due mostre così vicine fanno pensare.

Ma il MUSE non ci può far uscire con pensieri negativi. Come sottolineano gli ultimi pannelli della mostra, oggi abbiamo le conoscenze scientifiche per mitigare gli effetti della crisi in corso.
Una serie di video ci ricorda i grandi incontri internazionali in cui è stato discusso il futuro del pianeta, da Kyoto, 1997 a Parigi, 2015. Due video si fronteggiano su due pannelli contrapposti. Nel primo ascoltiamo l’accorato appello di una bambina canadese di 12 anni, Severn Suzuki, che nel 1992 intervenne alle Nazioni Unite per chiedere un maggior rispetto per il nostro pianeta. Nel video di fronte, realizzato appositamente per la mostra, è ancora lei, oggi giovane donna, a ricordarci che c’è ancora molto da fare e che tutti devono assumersi le proprie responsabilità.
È quindi una domanda il messaggio con cui usciamo dalla mostra: “Siamo pronti a fare qualcosa?”

Estinzioni. Storie di catastrofi e altre opportunità, MUSE, Trento.
16/07/2016 – 26/06/2017
Orari di apertura del museo
Biglietto compreso nel biglietto di ingresso MUSE

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Elena Franchi

È storica dell’arte, giornalista e membro di commissioni dell’International Council of Museums (ICOM).
Candidata nel 2009 all’Emmy Award, sezione “Research”, per il documentario americano “The Rape of Europa” (2006), dal 2017 al 2019 ha partecipato al progetto europeo “Transfer of Cultural Objects in the Alpe Adria Region in the 20th Century”.
Fra le sue pubblicazioni: “I viaggi dell’Assunta. La protezione del patrimonio artistico veneziano durante i conflitti mondiali”, Pisa, 2010; “Arte in assetto di guerra. Protezione e distruzione del patrimonio artistico a Pisa durante la Seconda guerra mondiale”, Pisa, 2006; il manuale scolastico “Educazione civica per l’arte. Il patrimonio culturale come bene dell’umanità”, Loescher-D’Anna, Torino 2021.
Ambiti di ricerca principali: protezione del patrimonio culturale nei conflitti (dalle guerre mondiali alle aree di crisi contemporanee); tutela e educazione al patrimonio; storia della divulgazione e della didattica della storia dell’arte; musei della scuola.

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