Migranti

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Sono passati 6 mesi dal 3 ottobre 2013, quando un barcone carico di migranti è affondato a poche miglia dal porto di Lampedusa: 366 le vittime, 20 i dispersi presunti. Tanti bambini, tanti ragazzi.

 

 

Secondo il costume nazionale, il fatto è uscito dalle nostre vite con la stessa violenza con cui ci era rimbalzato addosso. Un ricordo sfumato, di morti-numeri – tra gli innumerevoli – che hanno rapidamente smesso di interpellare la nostra coscienza occidentale. Ma almeno questo dovremmo ricordarlo: è successo, e può accadere ancora. “La multiculturalità – scriveva 15 anni fa Demetrio – è un dato di fatto i cui sviluppi appaiono irreversibili e incontenibili proprio perché quanto va accadendo non potrà mai essere arrestato da leggi restrittive sull’immigrazione nei diversi paesi” (D. Demetrio, Pedagogia interculturale e lavoro sul campo, in D. Demetrio, G. Favaro, I bambini stranieri a scuola, La Nuova Italia, Firenze, 1997, pag 25).
Da allora gli studenti migranti hanno determinato un flusso sempre più consistente, soprattutto nelle aree a maggiore sviluppo economico o nei grandi nuclei urbani, definendo un fenomeno strutturale del nostro sistema formativo. E spesso la scuola può rappresentare la migliore cura per chi riesca ad evadere da condizioni di svantaggio, povertà, disperazione.

Al momento, in alcune province tra Emilia Romagna e Veneto, circa il 15% degli allievi proviene da Paesi stranieri. Gli studenti con cittadinanza non italiana lo scorso anno erano 786.630, l’8,8% sul totale degli iscritti nelle scuole italiane. Sono sempre di più gli alunni di seconda generazione: il 47,2% degli studenti stranieri sono nati in Italia. Percentuale che sale all’80% nelle scuole dell’infanzia e al 60% nella primaria. Confermata la prevalenza di studenti rumeni, seguiti da albanesi e marocchini.
Nonostante tendenze incoraggianti sul fronte degli apprendimenti, esistono situazioni confermate, come il ritardo scolastico: nel 2011 l’11,6% dei ragazzi italiani era in ritardo, a fronte del 42,5% dei migranti; alle superiori, in particolare, il 24,4% gli italiani contro il 71,8% gli stranieri. Percorsi per “figli di un dio minore”, a dispetto del fatto che la scuola dovrebbe – nelle intenzioni dell’art. 3 della Costituzione – un”ascensore sociale”. Il 40,7% degli stranieri nell’istruzione professionale e 37,6% in quella tecnica, a fronte del 19,9% e del 35% degli italiani: la scuola secondaria di I grado sembra ( e la situazione è stata ulteriormente aggravata dal forte depotenziamento che la “riforma” Gelmini ha operato sull’istruzione tecnica e professionale) aver rinunciato alla funzione orientativa, per confermare nei vari indirizzi delle superiori destini socialmente determinati. Gran parte degli studenti appena sufficienti alle scuole medie, migranti e no – ma, come dimostra l’Istat, in gran percentuale provenienti da contesti socio-economici culturali non privilegiati – si iscrive nella zona più “debole” della scuola superiore, che concentra svantaggio sociale e ritardo. Il sistema scolastico dovrebbe invece scongiurare l’iterazione di marginalità e di residualità, soprattutto tra i futuri italiani.

Un sistema scolastico fondato su accoglienza, inserimento e cittadinanza consapevole significa concreti risparmi; al contrario, in sua assenza i costi ricadono sui contribuenti. L’inserimento deve essere progressivo e non invasivo, affiancando la possibilità di rafforzare (con il contatto e il confronto) appartenenze ed identità in condizione di autentica espressione delle matrici culturali saldate nel luogo della cittadinanza universale: la scuola.
Mi colpì molto, qualche anno fa, leggere una ricerca pubblicata dal gruppo Abele, L’integrazione dei ragazzi stranieri alle superiori. “Semplificazione”, una parola-chiave che ha caratterizzato costantemente gli ultimi interventi sul sistema di istruzione, oggi più che mai in auge, rappresenta il criterio più inopportuno da riferire a un progetto di scuola. La scuola, semmai, se davvero si investisse culturalmente su di essa, sarebbe da “complessificare”, per renderla più adatta di quanto non sia ad accogliere il senso della diversità e dell’eterogeneità, le cifre dell’oggi. Complessificare la scuola significherebbe renderla più adatta a rappresentare il punto di partenza per sperare in una integrazione sociale non subalterna di tutte e di tutti. In particolare per gli alunni stranieri, che sono passati dai 13.712 (a. s. 1999/00), ai 196.414 (2000/1) ai quasi 800mila di oggi.
Quel dossier metteva in luce un aspetto particolare delle vicende che quotidianamente molti docenti osservano nelle proprie classi: il punto di vista di ragazzi – preadolescenti ed adolescenti – catapultati improvvisamente in una realtà altra; la nostra. E faceva riflettere sulla differenza tra l’inserimento ed integrazione di adolescenti rispetto ai bambini: vita pregressa più consistente e senso di sradicamento più pesante.
Le nazionalità presenti nella scuola italiana sono ben 191: percorsi, viaggi, storie differenti, tutte caratterizzate dallo snodo cruciale che è la migrazione e la fatica esistenziale che essa comporta. L’energia indispensabile per un riadattamento in una realtà sconosciuta, con una lingua a volte incomprensibile, modelli culturali estranei, sovente indifferenza ai saperi e al saper fare già acquisito, che vengono confinati, come il senso della vita altra, quella del “prima”. L’identikit dei più “vulnerabili”: nati all’estero e giunti da noi dopo i 10 anni; arrivano ad anno scolastico già avviato; provengono dal contesto africano; maschi. L’esperienza scolastica non è facilissima: il maggior ritardo si accumula proprio nella scuola superiore, come si diceva.
Se i numeri sono impressionanti, è facile immaginare come ancor più lo siano le storie, gli occhi, i traumi, i sogni di ragazzi che potrebbero essere i nostri figli. Rispondere ai loro legittimi bisogni è un’emergenza assoluta. Loro, invece, non sono un’emergenza, alla quale far fronte con soluzioni improvvisate o con proposte che, come vedremo, nel tempo hanno tentato di violare Costituzione e buon senso.

Si è trattato di quel breve e felice periodo in cui “multiculturale” era una parola promettente e potenzialmente piena di significato, disponibile ad interpretazioni lungimiranti, aperte, inclusive, presaghe della costruzione di un mondo di uguaglianza, di diritti e doveri per tutti, di accoglienza e arricchimento in essa, di mediazione e reciproco arricchimento. Le migliori esperienze scolastiche vennero raccolte e tesaurizzate nemmeno 10 anni fa in un documento interessante, La via italiana per la scuola interculturale, del 2007. Poi sono diventati un problema: scuri o gialli, incapaci di apprezzare il nostro cibo, con altri culti ed abitudini, diversi. Stranieri, insomma. E troppi. E sono iniziati gli anni bui.

 

Uno dei più lungimiranti spiriti della Lega Nord, Roberto Cota, propone la mozione in tema d’accesso degli studenti migranti alle classi dell’obbligo, su cui allora si discuteva. Da “classi ponte”, dopo un acceso dibattito, si giunge alla denominazione “classi d’inserimento“: come affermò l’allora vicepresidente della Camera Italo Bocchino, per “rendere più evidente l’obiettivo della proposta, ossia l’integrazione degli studenti“. Il testo impegnava il governo a “rivedere il sistema di accesso degli studenti stranieri alla scuola di ogni ordine e grado, favorendo il loro ingresso, previo superamento di test e specifiche prove di valutazione“. A chi non avesse superato i suddetti test venivano messe a disposizione le “classi ponte che consentano agli studenti stranieri di frequentare corsi di apprendimento della lingua italiana, propedeutiche all’ingresso degli studenti stranieri nelle classi permanenti“.

Sostanzialmente, chi non era in grado, da qualunque paese provenisse e qualsiasi fosse la sua lingua madre, avrebbe trovato ad accoglierlo – classi ponte o d’inserimento che si chiamassero – il ghetto delle diversità, il serraglio nel quale far pascolare, tutti insieme, gli esclusi dal consesso della normalità. Nel giugno di quello stesso anno il ministro dell’Interno Roberto Maroni torna sulla questione Rom e alla commissione Affari Costituzionali della Camera annuncia che anche ai minori saranno prese le impronte digitali. Il secondo medioevo italiano stava assestando i suoi fendenti.

Un anno dopo, siamo nel 2009, l’articolo 45 del Ddl sicurezza prevede (ancora nel testo approvato alla Camera) al comma 1 lettera F non solo che i genitori dovranno esibire il permesso di soggiorno per iscrivere i propri bambini a scuola (ricordate l’incipit dell’art. 34 della Costituzione: la scuola è aperta a tutti?); ma soprattutto che, in mancanza di tale adempimento, i presidi sarebbero stati costretti a sporgere denuncia: presidi-spia, dopo i medici-spia, anch’essi previsti dai sagaci politici del centrodestra imperante.

Non persone, senza diritto, senza il pedigree appropriato: una nuova, meno esplicita – ma violentissima – guerra santa, scatenata anche sollecitando il dovere (dall’altra parte della barricata, di quelli nati dalla parte giusta) di denunciare le non-persone per poterle rispedire il più rapidamente possibile nell’unico posto dove meritano di stare: l’abbandono, la povertà, la fame, la violenza. Piatto ricco, per i nostalgici dell’ “ordine”. Ma qualcosa è andato storto. Le “classi ponte” o “di inserimento” sono state dimenticate. I provvedimenti razzisti delle impronte e dei presidi spia sventati dall’opposizione dura, dentro e fuori dal Parlamento. Ma non fino in fondo.

All’inizio di quest’anno scolastico, una notizia sconcertante: 22 alunni, tra gli 11 e i 15 anni, in una classe di una scuola media bolognese, dove nessuno è italiano, tranne i docenti. Si tratta di una prima media che, a detta del dirigente, è stata formata in extremis in agosto, raccogliendo ragazzi arrivati proprio allora in Italia. Lo scorso ottobre, poi, la Lega Nord ha proposto di vietare l’ingresso a scuola agli studenti stranieri che non sanno l’italiano. Che andrebbero invece obbligati a frequentare «classi di alfabetizzazione». È sempre in agguato dunque il virus del razzismo. Contro cui non è sufficiente rammentare le parole di Nelson Mandela: “L’educazione è il grande motore dello sviluppo personale. È grazie all’educazione che la figlia di un contadino può diventare medico, il figlio di un minatore il capo miniera o un bambino nato in una famiglia povera il presidente di una grande nazione”. Tutti coloro che ne sono esenti, però, devono convincersi davvero che un investimento significativo su processi di integrazione meno affidati al bricolage didattico, pedagogico e relazionale è un investimento sul futuro del nostro Paese.

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