
La IV giornata del Decameron è dedicata alle vicende di amore infelice. Quella che ha come protagonisti Simona e Pasquino (la settima della serie) si distingue innanzitutto per la condizione sociale dei due: il Decameron come è noto mette in scena personaggi appartenenti a tutti i ceti, dai sovrani più potenti (come il Saladino o Carlo d’Angiò) alla borghesia mercantile, dalla nobiltà feudale ai popolani, ma i «poveri» (così vengono presentati Simona e Pasquino dalla narratrice Emilia) hanno un ruolo nel complesso secondario, e soprattutto è raro che siano protagonisti di vicende tragiche come quella che stiamo esaminando.
Un triste caso di cronaca
La storia è semplicissima, non ha precedenti letterari noti, e se fossimo di fronte a un autore cronologicamente più vicino a noi si potrebbe parlare di una tranche de vie, di un episodio di cronaca fiorentina avente come protagonisti un garzone di bottega e di una misera filatrice. I due, a dispetto dell’umilissima condizione, sperimentano un sentimento di amore elevato, degno di animi aristocratici – e la narratrice ce lo dice esplicitamente, ricorrendo al linguaggio tipico della tradizione romanzesca cortese:
quantunque [a Simona] convenisse con le proprie braccia il pan che mangiar volea guadagnare e filando lana sua vita reggesse, non fu per ciò di sì povero animo che ella non ardisse a ricevere amore nella sua mente, il quale con gli atti e con le parole piacevoli d’un giovinetto di non maggior peso di lei […] buona pezza mostrato aveva di volervi entrare.
Gli innamorati cominciano a frequentarsi e un giorno si danno appuntamento in un giardino insieme a un’altra coppia (lo Stramba e la Lagina, il cui «amorazzo» serve a meglio mostrare, per contrasto, la gentilezza dei protagonisti). Dopo essere stati insieme per un po’, Pasquino si frega i denti con le foglie di una pianta di salvia che cresce lì vicino, e nel giro di pochi minuti muore, chiaramente avvelenato. Simona viene accusata di averlo ucciso, di fronte al giudice il dolore non le permette di spiegarsi con parole efficaci e il giudice, per capire come si sono svolti i fatti, la riporta sul luogo del presunto delitto. Qui Simona, per meglio chiarire l’accaduto, si sfrega i denti con le foglie della stessa salvia e muore come Pasquino. La soluzione del mistero è affidata alle ultime righe della novella: sotto alla salvia viene trovato un enorme rospo, il cui alito (all’epoca ritenuto venefico) ha reso mortali le foglie altrimenti innocue della pianticella.
Patetico vs tragico
La prima precisazione che è opportuno fare riguarda il carattere della novella. La quale, a prima vista, rientra nella categoria del patetico, del commovente, piuttosto che in quella del tragico. Simona e Pasquino sono infatti vittime della Fortuna, di un caso disgraziato, non sono nella condizione tipica degli eroi tragici come Edipo o Antigone, che è quella di trovarsi di fronte a un dilemma insolubile, a una scelta inevitabile che, in ogni caso, li porterà a un esito infelice. La loro storia è tragica solo nel senso che si attribuisce a questo aggettivo nel linguaggio quotidiano, non nel senso aristotelico, diciamo così, del termine.
Nelle scuole medievali, tuttavia, tragico e comico avevano assunto un significato assai diverso, e indicavano in primis le scelte stilistiche dell’autore, e non le caratteristiche della vicenda narrata. Dante può definire «tragedìa» l’Eneide perché adotta un registro stilistico alto, sublime, al contrario della sua «comedìa», che non ha nulla in comune con Aristofane o Plauto, ma ricorre a termini plebei e volgari. Naturalmente, secondo le regole della retorica generalmente accettate, la scelta stilistica doveva adeguarsi ai personaggi e alle loro peripezie: quindi lo stile tragico si usava per narrare vicende di eroi, principi e dèi, lo stile comico per le classi sociali più umili – i «poveri» appunto.
È evidente che Boccaccio gioca in questa novella a rompere gli schemi ancora generalmente accettati nella sua epoca: i protagonisti sono umilissimi, ma il tono con cui viene narrata la loro storia è quello che ci si aspetterebbe per figure di tutt’altra levatura – e lo dimostra l’intervento con cui (caso piuttosto raro, nel Decameron) la narratrice Emilia commenta la loro morte:
O felici anime, alle quali in un medesimo dì adivenne il fervente amore e la mortal vita terminare! e più felici, se insieme a un medesimo luogo n’andaste! e felicissime, se nell’altra vita s’ama e voi v’amate come di qua faceste! Ma molto più felice l’anima della Simona innanzi tratto, quanto è al nostro giudicio che vivi dietro a lei rimasi siamo ecc.
Intervento non solo di ampiezza straordinaria, ma retoricamente assai elaborato, come rivela il gioco delle variazioni («felici anime, alle quali in un medesimo dì… / e più felici, se insieme a un medesimo luogo… / e felicissime, se… / Ma molto più felice l’anima della Simona…»), la presenza di ricercate antitesi («la mortal vita… nell’altra vita… [noi] che vivi dietro a lei rimasi siamo»), e in generale la costruzione sintattica, con proposizioni che giungono al terzo e al quarto grado di subordinazione.
Insomma, con le sue scelte stilistiche Boccaccio conferisce una statura tragica (nel senso medievale del termine) a personaggi che la tradizione relegava a ruoli comici. Ma se ci fermassimo qui, a me pare che la nostra analisi risulterebbe insufficiente e non riuscirebbe a spiegare perché un episodio di cronaca locale, per quanto commovente, dovrebbe ancora interessarci a distanza di settecento anni.
Simona sotto accusa
Torniamo dunque alla vicenda narrata e soffermiamoci su ciò che accade a Simona dopo la morte di Pasquino. È qui, mi pare, che emergere il nucleo segretamente tragico del Decameron.
Simona viene accusata dallo Stramba di aver avvelenato Pasquino. Accorre gente e la poveretta, «per lo dolore […] quasi di sé uscita, non sappiendosi scusare», viene ritenuta da tutti colpevole. Simona è comprensibilmente sconvolta, e quindi non riesce a parlare; ma questo fatto non viene preso in considerazione dalla folla, che la porta in tribunale, dove non solo lo Stramba, ma anche altri compagni del morto, via via più numerosi, insistono perché sia condannata al rogo, e scherniscono come «frivole e vane» le spiegazioni che la ragazza tenta di fornire in qualche modo al giudice.
Come si vede, non siamo più di fronte a un caso sfortunato, a una disgrazia imprevedibile, ma a un comportamento rivelatore: lo Stramba, gli altri compagni di Pasquino, la folla anonima, non hanno alcuna prova della colpevolezza di Simona, anzi tutto dovrebbe indicare la sua innocenza – il pianto disperato, la mancanza di un qualsiasi movente, l’amore che legava i due giovani… Ma proprio questo, cioè il nobile sentimento di Simona e Pasquino, è escluso dal quadro. Né la folla né il giudice concepiscono la possibilità di un amore che non sia un «amorazzo» come quello tra lo Stramba e la Lagina. Né Simona, dal canto suo, è in grado di esprimere a parole questo sentimento, anzi non riesce nemmeno a dare un resoconto persuasivo dei fatti. In altri termini, Simona è in una condizione di fragilità e la collettività si scaglia contro di lei, e al linciaggio morale fa seguire un processo sommario, fondato su una testimonianza che è in realtà un pregiudizio.
Simona evita la condanna per caso: in mancanza di parole efficaci, compie un gesto, fregandosi la salvia sui denti come aveva fatto Pasquino, e muore nello stesso modo. La Fortuna, vale a dire, interviene di nuovo, e se prima si era presentata nella sua forma negativa, adesso garantisce almeno l’onore della ragazza. Ma Boccaccio ci ha fatto vedere come il nostro destino sia sottoposto al caso, all’arbitrio della Fortuna: e non possiamo fare a meno di notare come questa Fortuna non sia affatto lo strumento della Provvidenza divina, giacché nel mondo che Boccaccio descrive in questa novella (ma in realtà in tutto il Decameron) Dio risulta assente.
La natura umana ha avuto modo invece di manifestarsi con uno dei suoi tratti più spaventosi – la stolidità unita alla forza del numero, il gruppo che si unisce contro il singolo. È una situazione che si presenta in continuazione, nel Decameron: i fratelli di Lisabetta (nonché i vicini che li informano) si coalizzano contro la ragazza sola, i sedicenti amici di Calandrino gli giocano scherzi crudeli, le monache invidiose denunciano alla badessa la compagna scoperta con l’amante, i contadini creduloni fermano Cecco Angiolieri, la vittima, e aiutano Cecco Fortarrighi, il ladro, la combriccola di messer Betto a cavallo tenta di schernire Guido Cavalcanti a piedi dopo averlo bloccato tra le tombe…
Il tema della giustizia
Le tragedie (torniamo ad Aristotele, che Boccaccio conosceva, sia pure indirettamente) non sono storie che finiscono male. George Steiner, in un libro dell’ormai lontano 1961, ma ancora utilissimo, intitolato La morte della tragedia, lo chiarisce bene (cito dall’edizione Garzanti, trad. G. Scudder):
Il personaggio tragico è soggiogato da forze che la prudenza razionale non vale a spiegare completamente né a vincere. […] Le azioni dell’uomo sono regolate da forze che sfuggono alla sua comprensione.
La vicenda tragica ci costringe insomma a riconoscere la presenza nel mondo di una ingiustizia misteriosa e radicale, che punisce gli innocenti per la colpa di essere nati, di esistere. Protagonista segreto della novella di Simona e Pasquino non è solo il caso, la Fortuna, ma un insieme di forze che governano il destino dei personaggi – e che sono le stesse che vediamo all’opera in molte novelle a lieto fine, da quella di Andreuccio da Perugia a quella di madama Beritola, da quella di Alatiel a quella di Federigo degli Alberighi. Il caso è infatti affiancato dalle convenzioni sociali, dal pregiudizi collettivi, che limitano il libero arbitrio degli individui e in molti casi lo annullano; e dagli istinti più profondi dei singoli (la sete di ricchezza e di potere, il desiderio sessuale, la brama di vendetta, a volta la semplice follia o la malvagità gratuita) che diventano strumenti attraverso cui la Fortuna interviene a indebolire o a vanificare l’ingegno, l’industria, la virtù, cioè gli aspetti migliori della natura umana.
Osserviamo ancora la conclusione del racconto: a seppellire i due amanti sono proprio gli accusatori di Simona, e cioè lo Stramba e gli altri compagni di Pasquino che volevano vederla giustiziata. I quali, per le loro parole sconsiderate e per le fatali conseguenze che queste hanno avuto (giacché Simona è morta proprio a causa delle loro accuse, nel tentativo di scolparsi), non subiscono alcuna punizione, se non quella di dover svolgere l’umiliante compito di becchini.
Per cogliere tutta l’importanza di questo fatto dobbiamo tornare all’introduzione con cui Emilia presenta il suo racconto, confrontandolo con il precedente, quello della giovane Andreuola, a cui muore tra le braccia l’amante Gabriotto. Emilia dichiara che le due novelle sono completamente diverse
se non che, come l’Andreuola nel giardino perdé l’amante, e così colei di cui dir debbo; e similmente presa, come l’Andreuola fu, non con forza né con vertù ma con morte inoppinata si diliberò dalla corte.
Come spesso accade, i dieci novellatori si rivelano inattendibili, nei loro giudizi, ma la loro inattendibilità è illuminante. Emilia trascura infatti di osservare che non solo Andreuola (come Simona) è accusata ingiustamente, ma che anche nel suo caso l’accusatore rimane impunito – e il suo caso è assai più grave, perché si tratta del podestà e perché l’accusa è in realtà un ricatto sessuale: possiamo ammettere che lo Stramba sia accecato dalla propria stoltezza (a cui si mescola tuttavia una rabbia che è quella degli esclusi, degli ultimi tra gli ultimi, e che spinge gli altri compagni a volere la morte di Simona), ma il podestà sa benissimo che Andreuola è innocente, eppure le garantisce la libertà solo in cambio dei suoi favori, e di fronte al deciso rifiuto della giovane tenta addirittura di costringerla con la forza. E come se non bastasse, alla violenza unisce l’ipocrisia, giacché al padre della ragazza dichiara di aver solo voluto mettere alla prova la sua onestà!
Questa impunità dei villains caratterizza numerose novelle: penso, per limitarci alla IV giornata, al principe di Salerno, che fa uccidere l’amante della figlia e poi, inviandole con sottile perfidia il cuore del giovane, la spinge al suicidio (n. 1); al «povero uomo» che prima dà rifugio a frate Alberto in fuga, poi gli spilla dei soldi e infine lo tradisce, esibendolo in piazza come uomo selvatico e facendolo morire in prigione (n. 2); ai fratelli di Lisabetta, che ammazzano a sangue freddo l’amante di lei e ne nascondono il cadavere, provocando la morte della sorella (n. 5); a messer Guiglielmo Rossiglione, che uccide l’amante della moglie e le dà da mangiare il suo cuore, provocando la morte anche di lei (n. 9). E più in generale il Decameron abbonda di personaggi che, pur compiendo le azioni più efferate, o dimostrandosi del tutto estranei a ogni valore morale (nonché cristiano), trionfano e raggiungono la felicità, come Cimone o il marchese di Saluzzo; e di innocenti che viceversa sono schiacciati dal caso e dai meccanismi sociali e psicologici coalizzati alla malvagità più diabolica.
Conclusioni
Ecco quindi perché una novella come quella di Simona e Pasquino non è un triste episodio di cronaca, né un semplice aneddoto commovente, e neanche un testo da leggere per comprendere i meccanismi alla base della produzione dei panni di lana (che pure sono mirabilmente spiegati in poche parole). Né mi pare che l’intento di Boccaccio si limiti a denunciare la meschinità dei poveri (o, nella novella precedente, la prepotenza ipocrita dei potenti). Accanto agli uomini, agli «altri» (la società con i suoi condizionamenti), a rendere tragiche queste vicende interviene infatti il caso, la sorte, quello che nelle tragedie classiche si chiamava il destino. Come osserva Matteo Dal Soglio (La testa e il rospo, treccani.it, 13 maggio 2024):
Se d’infelice amore muoiono gli amanti, li hanno uccisi gli uomini e il destino: questo forma il paradigma minimo delle novelle della quarta giornata del Decameron. […] Gran parte dell’amore della quarta giornata è infelice perché un male sotterraneo e non visto lo corrompe fino alla morte degli amanti; e questo male sarà il veleno più umano [di cui il fiato del rospo è quindi un’allegoria, o un sostituto simbolico]: gli stretti vincoli della società e una sorte avversa.
Il Decameron ha nutrito per secoli il teatro comico di mezza Europa. Forse è arrivato il momento di correggere questa tradizione e di portare in primo piano la vena tragica che percorre il libro di Boccaccio; senza negargli leggerezza e umorismo, certo, ma senza ridurre Boccaccio a un simpatico autore di intrattenimento.
(fine)