
Vittore Branca, nel suo classico Boccaccio medievale (1956), legge nel Decameron un percorso ascendente che, per quanto meno rigidamente strutturato, richiama quello della Commedia dantesca, dall’inferno al paradiso, da ser Ciappelletto, sentina di tutti i peggiori vizi (il «piggiore uomo forse che mai nascesse», I 1), alla «sopra tutti savissima» Griselda, simbolo della perfetta virtù (X 10). A questa chiave interpretativa si contrappone invece chi (come Mario Marti e altri) propone una lettura più «orizzontale» del Decameron, sottolineando la straordinaria varietà di personaggi, situazioni, vicende, e conseguentemente anche di toni e di stili, che caratterizzano il capolavoro di Boccaccio, e valorizzandone gli elementi di modernità, più che quelli riconducibili alla mentalità e all’estetica medievale.
Un percorso ascendente?
Il dibattito critico, che qui per ragioni di spazio riduco schematicamente ai minimi termini, è in realtà articolato e ricco di interesse. Senza negare l’evidente ricchezza sociale e umana del mondo narrato da Boccaccio, è difficile non riconoscere alla descrizione iniziale di Firenze in preda alla peste un carattere «infernale», contrapposto alla natura edenica dei luoghi in cui si muovono i dieci novellatori, e soprattutto all’assenza di riferimenti all’epidemia nel momento in cui la lieta brigata ritorna in città alla fine dell’opera.
Bisogna inoltre ricordare che il Decameron si apre con una serie di novelle caratterizzate da scene comiche e paradossali (la confessione blasfema di ser Ciappelletto, la conversione di Abraam motivata con l’invereconda corruzione della curia romana, la storia del monaco e dell’abate che condividono l’amore della giovane contadina, le battute di spirito che anticipano i motti della Sesta giornata) e da uno stile che privilegia il registro umile e il sermo cotidianus.
La Decima giornata, viceversa, costituisce una conclusione di grande impegno compositivo e ideologico: il re Panfilo (proprio colui che ha raccontato la storia di ser Ciappelletto) ordina infatti che si parli «di chi liberalmente o vero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a’ fatti d’amore o d’altra cosa». Liberalità e magnificenza sono virtù tipicamente cortesi e aristocratiche, che Boccaccio (è una delle tesi di Branca) non solo esalta, ma propone come ideali vivi, concreti, a cui la classe mercantile protagonista di tante novelle precedenti dovrebbe ispirarsi. E anche lo stile delle ultime dieci novelle, prevalentemente tragico, sublime, si contrappone alla comicità «bassa» delle prime.
A me pare tuttavia che le novelle della Decima giornata abbiano un carattere, nel complesso, tutt’altro che esemplare, e che volerne fare una galleria di modelli etici e comportamentali rappresenti una forzatura. L’analisi non conferma insomma il carattere «paradisiaco» della sezione conclusiva del libro e ci costringe a ripensare il senso del progetto da cui nasce il Decameron.
Casi problematici
La novella X 1 ha come protagonista un cavaliere «ricco e di grande animo», che per mettere in mostra il suo valore lascia la Toscana e va alla corte del re di Spagna. Quest’ultimo, però, lo trascura ingiustamente e il cavaliere decide di tornarsene a casa; durante il viaggio pronuncia parole che suonano come una critica al sovrano, il quale ne viene informato da una spia, richiama il cavaliere a corte e ha con lui un colloquio chiarificatore. Il re dichiara infatti di aver riconosciuto benissimo le qualità del cavaliere, «valorosissimo […] e degno d’ogni gran dono», ma la fortuna non gli ha dato occasione di dimostrare la sua stima; e per confermare che il cavaliere è sì valoroso, ma sfortunato, lo porta davanti a due bauli, uno pieno di ricchezze e l’altro pieno di terra, e lo invita a scegliere – e il cavaliere, effettivamente, sceglie il baule pieno di terra. Poi il re lo riempie di doni e lo rimanda a casa tutto contento.
In che consisterebbe la «magnificenzia» del sovrano? Se aveva riconosciuto il valore del cavaliere, come dice, perché ha dovuto aspettare che questi se ne andasse in preda al rancore prima di intervenire a correggere l’ingiustizia della fortuna? Siamo autorizzati a chiederci cosa sarebbe successo se il cavaliere non avesse pronunciato le parole incriminate, o se avesse scelto il baule pieno di ricchezze, e allora la morale dell’exemplum è che la fortuna (come abbiamo visto già molte volte) governa il mondo e che la magnificenza, quando la fortuna stessa lo consente, è chiamata a correggere l’ingiustizia.
La seconda novella della giornata ha per protagonista un nobile bandito, il «rubator di strada» Ghino di Tacco, che cattura il ricchissimo abate di Clignì e lo tiene prigioniero, senza svelare la propria identità, nutrendolo a pane e vernaccia finché il prelato non guarisce del suo mal di stomaco. A questo punto riporta l’abate in mezzo ai suoi, gli restituisce tutti i suoi averi e, dopo essersi finalmente presentato, lo lascia libero. L’abate maledice la fortuna «la quale a sì dannevole mestier ti costrigne» e, tornato a Roma, racconta al papa Bonifacio VIII l’accaduto, impetrando la grazia per Ghino; e il papa non solo gliela concede, ma «riconciliatoselo gli donò una gran prioria di quelle dello Spedale, di quello avendol fatto far cavaliere».
La liberalità di Ghino, che non chiede riscatto, è ricambiata dall’abate, che regala volontariamente al bandito tutto quello che può, e dal papa, che lo perdona e gli garantisce una ricca rendita – ma proviamo a essere sospettosi: c’è sempre un momento, nella vita di un fuorilegge, in cui o si diventa cavalieri o si finisce impiccati; Ghino ha catturato i viaggiatori con l’idea di esigere un riscatto, ma quando capisce chi ha di fronte coglie l’occasione e passa progressivamente dalla minaccia della forza («voi siete in parte venuto dove, dalla forza di Dio in fuori, di niente ci si teme per noi») alla più lusinghevole diplomazia («per ciò che voi mi parete valente signore […] non intendo di trattenervi come un altro farei»). L’abate, dal canto suo, chiede la grazia «da magnifico animo mosso», ma sottolinea che Ghino «tra gli altri uomini valorosi e da molto che io accontai mai […] è per certo un de’ più», vale a dire che sarebbe molto più conveniente, per il papa, averlo amico anziché nemico; e il papa, «che di grande animo fu», legge tra i righi e si dichiara disposto a perdonarlo «se da tanto fosse come diceva», cioè se effettivamente il suo valore era tale da renderlo un alleato prezioso e un avversario pericoloso. La liberalità svela insomma un gioco politico-diplomatico tutt’altro che disinteressato.
Ancora più inquietante è quanto accade nella novella successiva: Mitridanes, non potendo gareggiare con Natan in generosità, pensa bene di ucciderlo a sangue freddo; Natan lo accoglie senza svelare la propria identità e gli offre la propria vita, che Mitridanes rifiuta, dichiarandosi pentito. Ma il saggio Natan giustifica l’intenzione omicida del nuovo amico con queste straordinarie considerazioni:
[Non] ti vergognare d’avermi voluto uccidere per divenir famoso, né credere che io me ne maravigli. I sommi imperadori e i grandissimi re non hanno quasi con altra arte che d’uccidere, non uno uomo come tu volevi fare ma infiniti, e ardere paesi e abbattere le città, li loro regni ampliati, e per conseguente la fama loro: per che, se tu per più farti famoso me solo uccider volevi, non maravigliosa cosa né nuova facevi ma molto usata.
Vale a dire: il pensiero di procurarti fama uccidendo un uomo a te superiore per virtù non dev’essere motivo di vergogna, anzi ti apparenta ai «sommi imperadori e grandissimi re», che non si sono peritati di compiere enormi stragi e di annientare paesi e popoli per lo stesso motivo – semmai hai osato troppo poco!
Continuiamo con il caso di messer Gentile de’ Garisendi (è la quarta novella della giornata), che ama senza successo una donna sposata a un altro; quando la donna viene creduta morta e seppellita, il nostro innamorato respinto si infila nella sua tomba per baciarne il cadavere, poi non resiste alla tentazione e incomincia a toccarle il petto – e scopre così che il cuore le batte ancora… e diventa tutt’a un tratto un modello di generosità disinteressata: guarisce la donna, la fa assistere durante il parto e, a tempo debito, la restituisce al legittimo sposo.
E così, tra necrofilia, prostituzione, voyeurismo e sadismo psicologico, si continua fino all’ultima novella, quella che ha per protagonisti Griselda e il marchese di Saluzzo: Petrarca, accentuando nella sua libera traduzione in latino il significato allegorico del racconto, fece dell’umile e sottomessa Griselda una seconda Maria di Nazareth; ma il testo di Boccaccio non conforta questa lettura, perché la saggezza del marchese e la fedeltà di Griselda vengono sbeffeggiate dal narratore nella conclusione della novella: Gualtieri viene giudicato uno «di quegli che sarien più degni di guardar porci che d’avere sopra uomini signoria» e si sarebbe meritato che la moglie, cacciata di casa in camicia, si facesse sbattere (è questo il significato letterale di «s’avesse sì a un altro fatto scuotere il pilliccione») in cambio di una bella veste. Commento che la posizione di massimo rilievo in cui si trova rende impossibile ignorare o sottovalutare come un semplice sberleffo dell’irriverente Dioneo.
L’ideale della concorrenza
Ciò che mi preme sottolineare è il carattere problematico di queste novelle, che non comunicano a chi legge una morale semplice, univoca, al contrario confermano l’idea (che è alla base di tutte le giornate precedenti) di un mondo complesso, in cui bene e male si mescolano in maniera inestricabile, spesso nella stessa figura, nello stesso gesto. Boccaccio amava la Commedia di Dante e sapeva bene che all’inferno necromanzia, lussuria, sostituzioni di persona e altre frodi, brigantaggio e violenze sono severamente puniti, e quindi all’inferno si troverebbero senza dubbio coloro che secondo i novellatori incarnano gli ideali «paradisiaci» di liberalità e magnificenza.
A questo carattere ambiguo dei racconti e dell’insegnamento che dovremmo ricavarne sembra volersi contrapporre la nobile gara dei dieci narratori interni, che inscenano un vero e proprio crescendo di virtù. Incomincia Elissa, nella seconda novella:
l’essere stato un re magnifico e l’avere la sua magnificenzia usata verso colui che servito l’avea non si può dire che laudevole e gran cosa non sia: ma che direm noi se si racconterà un cherico aver mirabil magnificenzia usata verso persona che, se inimicato l’avesse, non ne sarebbe stato biasimato da persona? Certo non altro se non che quella del re fosse virtù e quella del cherico miracolo.
Filostrato, introducendo la terza novella, rincara la dose:
grande fu la magnificenzia del re di Spagna e forse cosa più non udita già mai quella dell’abate di Clignì; ma forse non meno maravigliosa cosa vi parrà l’udire che uno, per liberalità usare a un altro che il suo sangue, anzi il suo spirito, disiderava, cautamente a dargliele si disponesse…
E così via, con un’insistenza sul confronto («niun con ragion dirà messer Gentile non aver magnificamente operato, ma il voler dire che più non si possa, il più potersi non fia forse malagevole a mostrarsi», novella 5; «Chi potrebbe pienamente raccontare i varii ragionamenti tralle donne stati, qual maggior liberalità usasse, o Giliberto o messer Ansaldo o il nigromante, intorno a’ fatti di madonna Dianora?», novella 6; ecc.) che deve insospettirci. Tanto più quando, nell’ultima novella, il solito Dioneo si incarica di ridurre a concretezza tanta idealità, prima ironizzando sugli ingenui commenti della compagnia («Il buono uomo, che aspettava la seguente notte di fare abbassare la coda ritta della fantasima, avrebbe dati men di due denari di tutte le lode che voi date a messer Torello») e poi chiamando in causa proprio Dante, con una citazione puntuale da Inferno XI: «vo’ ragionar d’un marchese, non cosa magnifica ma una matta bestialità…» (corsivo mio).
Il fatto è che questa gara, in quanto tale, rivela come i dieci novellatori siano partecipi della mentalità mercantile, e non di quella cortese, ed esaltino nei fatti il valore della concorrenza, non quello della liberalità e della magnificenza. Lungi dal costituire una serie di ritratti ideali, le novelle della Decima giornata confermano l’analisi della realtà che l’autore ha svolto nel corso dell’intera opera: i protagonisti non incarnano le massime virtù cortesi, ma i vari aspetti della natura umana e dei rapporti sociali che ne conseguono.
La realtà della natura umana
Lungi dal voler semplicemente divertire le sue lettrici, Boccaccio persegue un progetto di svelamento della realtà nei suoi aspetti più tetri e ferini: violenze, furti, inganni, stupri, malvagità gratuite, tradimenti, e vizi come avarizia, viltà, ipocrisia, meschinità d’animo, ira, stoltezza, ignoranza, follia, gelosia e bigotteria. Questo è il mondo che emerge nelle prime pagine del libro, quelle dedicate alla peste, e questo è il mondo che ci viene mostrato fino all’ultima frase dell’ultima novella.
Non l’epopea dei mercatanti e del loro ingegno, né l’esaltazione di valori cortesi come liberalità e magnificenza, e neppure il problematico rapporto tra natura e fortuna, costituiscono il cuore del Decameron, bensì una rappresentazione spietata della natura umana, dei suoi pregi certo (la nobiltà d’animo di Ghismonda, la dignità di Cisti, l’ingegno di Guido Cavalcanti, la resilienza, l’intraprendenza, la simpatia…), ma soprattutto dei suoi difetti, quale solo la narrativa naturalistica riuscirà a darci, molto più tardi, nel corso del XIX secolo. Leggere il Decameron è un’operazione inattuale, se si pensa che Boccaccio abbia rappresentato il mondo (il suo mondo, la sua epoca, la sua mentalità) per intrattenerci. Come tutti i grandi artisti, invece, Boccaccio è uno scrittore estremo, aspro, non addomesticabile, e il suo capolavoro è l’espressione di una insofferenza per il mondo, di una non accettazione dell’orrore che, allora come oggi, è intorno a noi.
(continua)