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Boccaccio rivisitato 3

Tempo di lettura stimato: 10 minuti
Nel 2025 cade il 650° anniversario dalla morte di Giovanni Boccaccio, avvenuta il 21 dicembre 1375. Approfittando dell’occasione, propongo le mie riflessioni su alcune novelle del Decameron, da cui spero emerga qualche indicazione di lettura più complessiva. Ecco la terza, sulla novella delle papere (IV giornata).
Quadro "L'onesta brigata" di John William Waterhouse
Di John William Waterhouse – Pubblico dominio, Wikimedia.

L’introduzione alla Quarta giornata

All’inizio della Quarta giornata, Boccaccio interviene in difesa della propria opera, rintuzzando (a circa un terzo del cammino) una variegata serie di critiche: che ama troppo le donne; che alla sua età farebbe meglio a dedicarsi alle Muse, cioè a generi diversi dalle novelle «in fiorentin volgare e in prosa […] e senza titolo»; che dovrebbe piuttosto pensare a guadagnarsi da vivere «che dietro a queste frasche andarsi pascendo»; e infine (l’accusa più grave) che le vicende narrate non corrispondono alla realtà delle cose («in altra guisa essere state le cose da me raccontatevi che come io le vi porgo»).

Prima di rispondere (ma in realtà: per cominciare a rispondere), Boccaccio racconta «non una novella intera […] ma parte d’una» – è la famosa novella «delle papere», forse di origine indiana, nota da tempo in Europa, che una sessantina di anni prima era entrata a far parte del Novellino. La vicenda (che Boccaccio attualizza e reinterpreta, come sempre trattando le sue fonti con grande libertà) ha per protagonista un fiorentino di nome Filippo Balducci, che resta vedovo e decide di farsi eremita insieme al figlio, un bambino «forse d’età di due anni». Va quindi a vivere in una grotta sul Monte Asinaio e tiene il figlio in clausura fino ai diciott’anni, parlandogli solo di Dio e dei santi e insegnandogli solo preghiere. Quando finalmente permette al ragazzo di accompagnarlo in città, questi è colpito da tutte le novità che vede, e di cui il padre gli rivela il nome; ma quando incontrano un gruppo di giovani donne di ritorno da una festa di matrimonio, il padre lo inganna e gli dice che si chiamano «papere» e che sono «mala cosa». Malgrado ciò, una volta tornati alla loro grotta, il figlio non chiede altro che una papera e il padre, dopo l’ultimo vano rifiuto («Io non voglio; tu non sai donde elle s’imbeccano!»), è costretto a pentirsi di aver portato il ragazzo a Firenze – e con questo il racconto si interrompe.

La semplicità della novella, e della morale che se ne può trarre a una prima lettura, non deve trarre in inganno: a me pare che questo raccontino sollevi tre questioni di grande importanza per comprendere la visione del mondo di Boccaccio e l’ideologia sottesa al Decameron. Con la schematicità a cui invita la misura di questi interventi, proverò quindi a metterle a fuoco.

La pedagogia contro natura

La prima questione riguarda l’educazione che Filippo impartisce al figlio. Per quanto ridotta ai minimi termini, il padre ha una sua pedagogia, ed è una pedagogia di tipo monastico, fondata sul rifiuto del mondo e sulla censura di tutti i piaceri sensuali – non solo il sesso, ma anche il cibo, la bellezza artistica, la raffinatezza nel vestire, il gusto della poesia e della musica. Il povero ragazzo viene tenuto prigioniero e vive «di limosine in digiuni e in orazioni»; il padre, come si è detto, «sommamente si guardava di non ragionare […] d’alcuna temporal cosa né di lasciarnegli alcuna vedere […], ma sempre della gloria di vita eterna e di Dio e de’ santi gli ragionava, nulla altro che sante orazioni insegnandogli».

Se Boccaccio si limitasse a una polemica contro la pedagogia delle scuole monastiche e contro l’ideale eremitico, non solo avrebbe scelto un ben facile bersaglio, ma avrebbe intrapreso una battaglia ormai inutile: nel corso del Duecento le scuole monastiche hanno visto quasi annientarsi la loro autorevolezza, sostituite dalle università dove la cultura laica, sia pure all’interno di un quadro complessivo delle conoscenze che riconosce alla teologia un teorica supremazia, si è di fatto emancipata dalla tutela della Chiesa. Alla metà del Trecento, quando Boccaccio scrive il Decameron, i principi che presiedono all’educazione dei giovani non sono certo quelli dell’ingenuo Filippo Balducci.

Ma la morale della novella è un’altra – in estrema sintesi: la natura è più forte dell’educazione. L’errore del padre non è la sua scelta ascetica, ma il fatto che costringe il figlio a un’esistenza contro natura, negando quelli che oggi chiameremmo i bisogni primari, tra cui la bellezza e i piaceri dei sensi. Si noti che il figlio, a cui ovviamente non è stata impartita alcuna educazione sessuale, non comprende il vero carattere della sua attrazione per le «papere», ma è colpito dalle donne per la loro bellezza (non a caso il narratore insiste su questo tratto: le donne sono belle, giovani ed eleganti, «ornate», perché «da un paio di nozze venieno»).

Boccaccio insomma non ci sta parlando di sesso, né di pedagogia, ma della forza irresistibile della natura, che come sappiamo è, insieme alla fortuna, una delle due «ministre del mondo». Qui si fonda la sua autodifesa: i suoi critici, come Filippo, non hanno compreso quali sono i meccanismi fondamentali della realtà, che lo scrittore pone invece alla base della sua rappresentazione.

Il linguaggio dell’ipocrisia

La seconda questione di grande rilievo che emerge dalla novella delle papere riguarda il linguaggio. Il ragazzo, arrivato a Firenze, vede «i palagi, le case, le chiese e tutte l’altre cose», se ne meraviglia e ne chiede il nome – e il padre inizialmente soddisfa la sua curiosità: «di molte domandava il padre che fossero e come si chiamassero. Il padre gliele diceva; e egli, avendolo udito, rimaneva contento e domandava d’un’altra».

È un momento carico di valenze simboliche, soprattutto per un lettore medievale che aveva ben presente l’episodio di Genesi 2:19 in cui Dio fa sfilare davanti al primo uomo tutte le cose create e a ciascuna Adamo attribuisce un nome – perché il nome coincide con la cosa stessa, nasce dalla natura della cosa e non potrebbe essere diverso: «il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome».

Nella novella delle papere accade il contrario. Primo, perché è il padre che dà il nome alle cose, rispondendo alle domande del figlio. Secondo, perché nella Genesi, dopo che l’uomo ha attribuito un nome a ogni cosa, Dio crea la donna perché «non è bene che l’uomo sia solo»; Filippo invece, dopo aver rivelato al figlio i nomi di tutte le cose, gli nega proprio quello che indica la donna, sostituendo «femine» con «papere», e riporta il ragazzo nella sua grotta, nella vana speranza di tenerlo in solitudine come prima. Terzo, perché nella Genesi si configura come ho detto un rapporto «naturale» tra parole e cose, una perfetta adesione del linguaggio alla realtà, mentre nella novella Filippo usa il linguaggio per mentire, attribuendo alle donne un nome che non è il loro.

Se allarghiamo lo sguardo all’opera in cui questa novella si trova inserita, non possiamo fare a meno di ricondurre il comportamento di Filippo al tema dell’ipocrisia, che è oggetto fin dalle primissime novelle della più severa riprovazione, in particolare la «malvagia ipocresia de’ religiosi», cioè l’ipocrisia che si ammanta di religiosità. L’ipocrisia infatti, usando la lingua per mentire anziché per comunicare la verità, infrange il nesso naturale tra parole e cose, e si configura quindi come una vera e propria empietà. La menzogna è quindi un altro aspetto della distorsione a cui Filippo costringe la natura – mentre Boccaccio, per contrasto, rivendica il valore di verità della sua opera, l’uso corretto del linguaggio, contro abusi e falsificazioni (e, indirettamente, accusa i suoi critici di ipocrisia).

Incompiutezza e apertura

La riflessione sulla natura e quella sul linguaggio come si vede sono connesse: Boccaccio sta dicendo alle sue lettrici che la sua opera non è affatto un libro di intrattenimento, leggero e divertente, e se qualche affermazione, di primo acchito, poteva dare questa impressione, una rilettura attenta del Proemio, dove si spiega il valore addirittura salvifico della letteratura («tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d’alcuno amico e le sue laudevoli consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avvenuto che io non sia morto»), e dell’introduzione alla Prima giornata, dove si delinea lo sfondo apocalittico (con le drammatiche pagine sulla peste) su cui fiorisce la narrazione delle novelle, dovrebbero averla contraddetta a sufficienza. Il Decameron (è questa la sostanza dell’autodifesa dell’autore) è un’opera che nasce da una riflessione radicale sulla realtà (sociale, psicologica, umana), e questa riflessione è affidata a un linguaggio capace di svelare ciò che di solito viene celato. È questo il vero scandalo del Decameron, e Boccaccio, nel momento in cui si passa dalle novelle di esaltazione dell’»industria» umana a quelle di amore infelice, ci mette sull’avviso, ci invita a una pausa meditativa.

A conferma del valore decisivo della pagina che stiamo esaminando, e della consapevolezza con cui l’autore conduce il suo discorso, si noti che Boccaccio conclude il racconto come se la vicenda restasse in sospeso. Ma il confronto con la versione del Novellino che ricordavo sopra rivela che la novella è perfettamente compiuta: il testo del Novellino (il n. XIV) si chiude infatti con le parole «il re di ciò si maravigliò molto, dicendo: ‘Che cosa tirànnia è bellore di donna!’» e quello di Boccaccio con la corrispondente riflessione del padre «sentì incontanente più aver di forza la natura che il suo ingegno; e pentessi d’averlo menato a Firenze».

Perché dunque, subito dopo, commenta «Ma avere infino a qui detto della presente novella voglio che mi basti», lasciando intendere che la narrazione ha carattere di incompiutezza? Boccaccio ha dichiarato, prima di narrare la storia di Filippo Balducci e del figlio, di non voler fare concorrenza ai dieci novellatori; la risposta tuttavia chiama in causa una scelta strutturale ben più importante del confronto con Pampinea e i suoi compagni: Boccaccio sta sgretolando dall’interno il paradigma dantesco – i cento canti della Divina Commedia sono lo strumento con cui il poeta realizza la sua ambizione a rappresentare la totalità del mondo, le cento novelle del Decameron, viceversa, non sono sufficienti, l’autore ne introduce una in più (questa delle papere appunto) e dichiara che non è finita, lasciando così la sua opera «aperta», volutamente imperfetta. Come a dire: nessuna opera è in grado di riprodurre la totalità del mondo, nessun testo può render conto di tutte le innumerevoli sfaccettature della realtà – questa è la fiducia che ancora anima Dante, ma non più Boccaccio.

Il realismo di Boccaccio trova qui il suo senso più alto: non si tratta solo di rispettare la verità cronachistica, come vorrebbero i suoi critici, né di cogliere la meravigliosa varietà dei tipi umani e delle situazioni e dei sentimenti e così via; si tratta invece di indagare i fondamenti della realtà (la natura, la fortuna), e di affidare alla lingua (e quindi all’arte che della lingua si serve, la letteratura) il compito di svelare tali fondamenti.

In questo momento-chiave della sua opera l’autore chiama le lettrici a condividere la sua ideologia. La novella delle papere, dietro la leggerezza arguta e ammiccante, svela i meccanismi di fondo della realtà e dichiara la funzione che Boccaccio attribuisce alla sua scrittura.

(continua)

 

 

 

(continua)

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Alberto Cristofori

ha organizzato nel 2015 “Milano per Dante”, una lettura integrale della Commedia affidata a 100 esponenti della società civile milanese. È autore di manuali scolastici e traduttore. Ha pubblicato con Bompiani un romanzo e una raccolta di racconti, e dirige una casa editrice per bambini e ragazzi (Albe Edizioni).

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