Boccaccio rivisitato 2

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Nel 2025 cade il 650° anniversario dalla morte di Giovanni Boccaccio, avvenuta il 21 dicembre 1375. Approfittando dell’occasione, propongo le mie riflessioni su alcune novelle del Decameron, da cui spero emerga qualche indicazione di lettura più complessiva. Ecco la seconda, sulle novelle di Calandrino (VIII 3, VIII 6, IX 3, IX 5).
Quadro "L'onesta brigata" di John William Waterhouse
Di John William Waterhouse – Pubblico dominio, Wikimedia.

Prendiamo le mosse, per una volta, dalla fine – e cioè dalle reazioni delle ascoltatrici alle vicende di Calandrino, il «dipintore… semplice e di nuovi costumi» che Boccaccio rende protagonista di ben quattro novelle del Decameron.

Al termine della prima (VIII 3, quella in cui Calandrino viene convinto a cercare l’elitropia, una pietra che renderebbe invisibili) l’accenno è molto rapido: la compagnia ha ascoltato il racconto di Elissa «non senza gran piacere». Al termine della seconda (VIII 6, quella in cui a Calandrino viene rubato un maiale) il commento è assai più articolato: «Molto avevan le donne riso del cattivello di Calandrino, e più n’avrebbono ancora, se stato non fosse che loro increbbe di vedergli torre ancora i capponi a coloro che tolto gli avevano il porco». Prima di procedere, riflettiamo su questi due casi.

Comicità e violenza

La novella dell’elitropia ha una struttura narrativa molto articolata. Dopo la breve introduzione, con il ritratto di Calandrino, la prima parte è occupata dalla beffa con cui Maso del Saggio, nel battistero di San Giovanni, fa credere a Calandrino che esista la magica pietra che rende invisibile chi la porta con sé. Segue un episodio di transizione, breve ma molto significativo, in cui Calandrino cerca Bruno e Buffalmacco per coinvolgerli nella sua ricerca, e i due trovano una scusa per rimandare l’avventura e poter così organizzare la beffa. La seconda parte della novella è incentrata sulla ricerca dell’elitropia nella valle del Mugnone – e qui Calandrino acquista una nuova complessità: di fronte a Maso del Saggio era solo un ingenuo pronto a credere qualunque sciocchezza, a entusiasmarsi per le favole più inverosimili, insomma uno dei tanti sciocchi che vengono beffati da chi possiede più ingegno di loro; quando va a parlare con Bruno e Buffalmacco, Bruno solletica in lui una vena di egoismo, suggerendo di andare a cercare l’elitropia quando non ci sarà altra gente che potrebbe impadronirsene al posto suo; nella sequenza che si svolge lungo il Mugnone questo lato oscuro dell’animo di Calandrino prende il sopravvento e fa sì che, credendo di aver trovato la pietra, l’ingenuo dipintore lo nasconda agli amici per non dover dividere il tesoro.

Bruno e Buffalmacco si vendicano lapidando il poveretto per tutta la strada del ritorno, durante la quale non solo la fortuna interviene a garantire l’illusione di Calandrino, facendo sì che nessuno dei pochi passanti lo saluti, ma si scopre che alla beffa partecipano anche i gabellieri incaricati di sorvegliare la porta di ingresso della città. Finalmente Calandrino arriva a casa, dove si svolge l’ultima parte della novella: viene accolto dalla moglie Tessa, che ovviamente lo vede, e reagisce da par suo, accusando la donna di aver tolto alla pietra le sue virtù soprannaturali (giacché «le femine fanno perder la vertù a ogni cosa»), e la punisce massacrandola di botte, finché i due compari non arrivano a interrompere il pestaggio e a rimproverare Calandrino per il suo egoismo («egli aveva in animo d’ingannare i suoi compagni, a’ quali, come s’avedeva averla trovata [cioè l’elitropia], il dovea palesare»).

Boccaccio, dunque, attribuisce a Calandrino una serie di tratti (ingenuità, propensione all’inganno e alla violenza, superstizione), che lo rendono umanamente più ricco, o almeno più sfaccettato. Il commento delle ascoltatrici sembra cogliere solo la piacevolezza del racconto, trascurando i due episodi di violenza fisica (la lapidazione di Calandrino e la battitura di monna Tessa) che fanno inorridire il lettore moderno, ma che in teoria non dovevano lasciare indifferenti neanche le lettrici trecentesche, in un’opera che si apre nel segno della “compassione” per gli afflitti.

Dalla comicità all’umorismo

La seconda novella non aggiunge a Calandrino tratti significativi, anzi in certa misura lo semplifica, ma suscita come abbiamo visto una reazione assai diversa. Ripercorriamo rapidamente la storia.

L’antefatto ci porta fuori città, nel contado dove Calandrino possiede un piccolo podere e dove tutti gli anni alleva un maiale «per la famiglia». Bruno e Buffalmacco vengono a sapere che la moglie dell’amico, monna Tessa, è indisposta: Calandrino andrà da solo a uccidere il maiale, e loro pensano bene di approfittare della situazione. Prima tentano di coinvolgere Calandrino nel loro piano truffaldino («Vendilo e godianci i denari e a mogliata di’ che ti sia sato imbolato»); poi, di fronte al suo rifiuto, organizzano la beffa, divisa in tre momenti: 1. fanno leva sull’avarizia di Calandrino per indurlo a ubriacarsi, fingendo che offra un loro amico prete, e gli rubano il maiale; 2. propongono a Calandrino di smascherare il ladro con l’esperimento delle galle e della vernaccia, gli spillano soldi perché Bruno vada a Firenze a procurarsi il materiale necessario e infine gli fanno mangiare le polpette adulterate in modo che la responsabilità del furto ricada su di lui; 3. accusano Calandrino di aver nascosto il maiale per goderselo con «una giovinetta» che lui manterrebbe nei dintorni ed esigono due paia di capponi per non rivelarlo a monna Tessa.

Rispetto alla novella precedente, Calandrino appare più disarmato: si conferma la sua avarizia, ma emerge soprattutto un grande timore nei confronti della moglie, dalla quale sembra dipenda il suo benessere economico (il poderetto non è suo, poiché fa parte della dote di Tessa, e lui teme di essere da lei cacciato “fuor di casa” se accettasse la proposta scellerata di Bruno e Buffalmacco). Altro dettaglio interessante, nella novella precedente Bruno e Buffalmacco approfittano della “macchina” messa in moto da Maso del Saggio (che peraltro, dopo la prima sequenza, non compare più nelle successive); in questa i due bricconi sono aiutati da un prete, che come spesso avviene nel Decameron è del tutto estraneo non solo agli insegnamenti evangelici, ma addirittura ai comandamenti mosaici (partecipa attivamente a un furto).

Nel commento delle ascoltatrici, il riso si accompagna a due correzioni importanti: la prima, dove il dipintore viene definito «cattivello», cioè infelice, disgraziato, la seconda, quando si dice che «loro increbbe» del furto dei capponi – aggettivo e verbo esprimono un moto di pietà che corregge, appunto, la comicità della vicenda. Pirandello direbbe che tra la novella dell’elitropia e quella del maiale si attua il passaggio dal comico all’umoristico – dall’avvertimento del contrario (Calandrino è il contrario dell’ideale umano condiviso dai dieci novellatori) al sentimento del contrario (è intervenuta cioè la riflessione – è sempre un termine di Pirandello – a suggerire che insieme al ridicolo è presente in Calandrino un elemento patetico e che le beffe di Bruno e Buffalmacco ci fanno ridere, sì, ma non sono prive di crudeltà).

La verità

Passiamo alla Nona giornata, dove troviamo le altre due novelle di Calandrino. Nella IX 3, Bruno e Buffalmacco fanno credere all’ingenuo amico di essere incinto, con la complicità di un medico. La novella (di struttura tanto più semplice delle due precedenti, anche per quanto riguarda la caratterizzazione del protagonista, che è sciocco senz’altre sfumature) è introdotta da un commento con cui Filostrato giustifica la sua scelta di tornare per la terza volta sul personaggio: «ciò che di lui si ragiona non può altro che multiplicar la festa», cioè parlare di Calandrino non può che trasmettere allegria; ed è conclusa dalle risate «grandissime» di «tutta la brigata», dovute in particolare alle parole «da Calandrin dette della sua moglie», che alludono alla posizione assunta dai due durante l’atto sessuale (è un tema presente fin dalla novella I 4, quella in cui l’abate si mette la giovane prostituta contadina sopra anziché sotto: tema che oggi ci lascia piuttosto indifferenti, ma che all’epoca garantiva effetti comici in quanto rappresentazione di un mondo “capovolto” rispetto all’ordine naturale delle cose). La semplificazione narrativa si unisce insomma a una semplificazione ideologica, che riporta la figura del protagonista nell’ambito della comicità pura.

Anche la quarta novella della serie, affidata a Fiammetta, è seguita da risate, ma l’introduzione ha una complessità inusitata. Fiammetta infatti ripete il concetto già espresso da Filostrato, diffondendosi con maggiore ampiezza: «noi siamo qui […] per aver festa e buon tempo e non per altro» e le novelle di Calandrino garantiscono diletto e allegria. Fiammetta ne racconterà quindi un’altra, «la quale, se io dalla verità del fatto mi fossi scostare voluta o volessi, avrei ben saputo e saprei sotto altri nomi comporla e raccontarla; ma per ciò che il partirsi dalla verità delle cose state nel novellare è gran diminuire di diletto negl’intendenti, in propria forma […] la vi dirò». Questa rivendicazione di verità è di fondamentale importanza, perché il tema è stato affrontato dall’autore stesso nell’introduzione alla Quarta giornata, laddove ribatte ai critici che lo accusano di non aver raccontato fedelmente invitandoli a mostrare «gli originali» e rivendicando quindi la propria libertà inventiva. Ora Fiammetta afferma che avrebbe potuto inventare, ma ha deciso di attenersi alla verità per non diminuire il piacere «negl’intendenti».

Che la voce dell’autore, i suoi giudizi e la sua visione del mondo non coincidano con quelle dei dieci novellatori è scontato – se così non fosse non esisterebbe la cornice del Decameron; ma è raro che Boccaccio fornisca alle lettrici indicazioni così nette, quasi un invito esplicito a non fidarsi di Pampinea e C., delle loro reazioni e dei loro commenti. Vediamo allora qual è la verità che emerge dalla novella in questione.

La vicenda presenta un numero di personaggi assolutamente straordinario: Niccolò Cornacchini (1) incarica Bruno (2) e Buffalmacco (3) di decorare una sua proprietà, costoro si avvalgono dell’aiuto di altri due colleghi, Calandrino (4) e Nello (5) (parente della moglie (6) di Calandrino stesso), nella proprietà (gestita da un’anziana donna (7)) si reca spesso il figlio di Niccolò, Filippo (8), che vi porta varie amanti, tra cui una certa Niccolosa (9), prostituta alle dipendenze di un losco figuro detto il Mangione (10). È un’intera collettività che viene alla luce, almeno per accenni, e che partecipa in vario modo alla beffa – la quale ha a sua volta una complessità assai maggiore delle precedenti: Calandrino incontra casualmente la Niccolosa al pozzo della proprietà, travisa il suo atteggiamento (la donna lo guarda colpita dalla sua evidente stranezza, lui immagina che sia invece colpita dal suo irresistibile fascino), Bruno e Buffalmacco se ne accorgono, fomentano l’infatuazione di Calandrino, spingendolo a comportamenti sempre più ridicoli, finché s’inventano un incantesimo che farebbe cadere la donna ai piedi dello spasimante, e nel frattempo avvertono la moglie di lui, che arriva e lo sorprende in flagrante (a battitura finale di Calandrino da parte di Tessa chiude così la serie vendicando quella a cui il dipintore ha sottoposto la moglie nella prima delle quattro novelle).

L’impegno compositivo, insomma, è evidentissimo, come il carattere patetico di Calandrino (col suo rimpianto per la giovinezza ormai lontana, unito a una infantile inconsapevolezza di sé) e di Tessa (col suo doloroso amore per un marito così inadeguato: si rilegga in proposito tutta la sua sfuriata, e in particolare le parole “maladetto sia il bene che io t’ho voluto” ecc.). Bisogna arrivare a Fantozzi, credo, per trovare nella letteratura italiana un tale miscuglio di ridicolaggine e malinconia, comicità e pathos. Ma i dieci novellatori colgono solo il primo tratto, la comicità di Calandrino, e questo accade perché, come gli altri personaggi delle novelle considerate, essi non si sentono parte della stessa umanità: il riso a cui si abbandonano e a cui invitano le lettrici è quello che il sociologo Émile Dupréel (giustamente citato nella “Scheda dell’opera” di Giancarlo Alfano, premessa all’edizione critica Fiorilla del 2013) definisce «riso di esclusione», il riso cioè con cui il gruppo allontana da sé una persona facendone lo zimbello.

La verità di Boccaccio, tuttavia, non è la verità di Fiammetta, e l’insistenza con cui quest’ultima torna ossessivamente sul divertimento e sul riso degli altri personaggi («ordinò quello che ciascun di loro dovesse fare e dire per aver festa e piacere dello innamoramento di Calandrino»; «il miglior tempo del mondo prendendo de’ modi di Calandrino», «traevano de’ fatti di Calandrino il maggior piacer del mondo», «Nello […] avea di questa cosa quel diletto che gli altri», «Bruno e Buffalmacco, che con Filippo e con la Niccolosa avevan di questa cosa riso a lor senno»; «avendo molto dato da ridere a’ suoi compagni e alla Niccolosa e a Filippo») è l’indizio che l’autore fornisce a chi legge perché sospetti di un’allegria così esibita da apparire nevrotica.

Seconda conclusione provvisoria

A me pare che le beffe nei confronti di Calandrino, lungi dall’esaltare l’intelligenza e l’arguzia di Bruno e Buffalmacco e dei loro complici, mettano in luce piuttosto la loro spietatezza, la loro mancanza di empatia, l’assoluta estraneità dei beffatori a ogni valore morale, nonché al principio cristiano della compassione. La comicità non ha il carattere liberatorio che Bachtin riconosceva alla carnevalizzazione, perché non di rovesciamento dei rapporti di forza reali si tratta, ma anzi della loro sanzione: Calandrino è il più debole (e i suoi difetti sono la conseguenza di tale debolezza, che è innanzitutto intellettuale, ma anche sociale: è solo, anche se si illude che Bruno e Buffalmacco siano suoi amici, ed è relativamente povero, o almeno si percepisce come tale), e le beffe sanciscono il dominio dei forti, cioè degli “intendenti”, degli astuti, di coloro che sanno muoversi senza scrupoli in una società che ignora misericordia, tenerezza e umana pietà.

(continua)

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Alberto Cristofori

ha organizzato nel 2015 “Milano per Dante”, una lettura integrale della Commedia affidata a 100 esponenti della società civile milanese. È autore di manuali scolastici e traduttore. Ha pubblicato con Bompiani un romanzo e una raccolta di racconti, e dirige una casa editrice per bambini e ragazzi (Albe Edizioni).