È un noir che ruota attorno alla figura solitaria e tormentata di un detective, immerso nelle classiche atmosfere torbide e ambigue del genere poliziesco. Ma la “giungla d’asfalto” dell’America degli anni ’50 si è ormai trasformata in metropoli cangiante, babele sovraffollata e caotica, che pulsa alla sincopata luce di neon colorati. Deckard è un Philip Marlowe calato in una contraddittoria fantascienza, abitata da replicanti, visioni avveniristiche, architetture retrò, dubbi esistenziali e speculazioni filosofiche.
Il difficile compito di portare sullo schermo un secondo capitolo di Blade Runner è stato affidato a Denis Villeneuve. Il regista canadese si è imposto all’attenzione della critica e del pubblico per aver firmato una delle opere più intense e strazianti degli ultimi decenni, La donna che canta (2010), oltre a Prisoners (2013), Il sicario (2015) e all’interessante film di fantascienza Arrival (2016).
Fin dalle prime immagini, ci accorgiamo che il nuovo Blade Runner sta prendendo una direzione estetica e narrativa autonoma rispetto alla pellicola del 1982. Le lande desolate sorvolate dall’agente K ci fanno planare in atmosfere lontane da quelle della Los Angeles cyberpunk di Ridley Scott. Siamo dentro uno spettrale deserto post apocalittico, disseminato di resti inanimati del passato. Spazi sconfinati, alberi morti, edifici fatiscenti, vecchie fonderie arrugginite: sono questi gli scenari che aprono il nostro sguardo. Alle inquadrature sovraffollate, caotiche e spazialmente claustrofobiche di Ridley Scott, si sostituisce un mondo di ampi orizzonti opachi e monocromatici. I personaggi si muovono solitari e dispersi, nel loro incedere incerto, in uno spazio rarefatto e in un tempo dilatato.
Se Blade Runner mutuava la costruzione spaziale dal fatiscente caos di un’ipotetica città del futuro, il film di Villeneuve sembra rifarsi agli scenari crepuscolari del western espanso, metafisico e nostalgico del miglior Sergio Leone. Le immagini ci restituiscono un senso di quieta devastazione, eredità lontana di un planetario black-out.
È la stessa sensazione disorientante che ritroviamo nell’animo dell’agente K, un replicante che comincia a dubitare della sua stessa natura. Il suo isolamento dal mondo, la sua algida solitudine, riempita solo da ologrammi virtuali, improvvisamente vacilla di fronte all’abisso misterioso e oscuro della vita. L’incarico di trovare e uccidere un’anomalia del sistema, ovvero il figlio di una replicante, progettata come tutte le creature artificiali per non procreare, apre un conflitto interiore che lo condurrà ben oltre la sua missione.
Nel film di Ridley Scott le relazioni e i conflitti erano tra umani e replicanti e il confine tra i due mondi era simbolicamente rappresentato da Rachel, il personaggio che accompagnava il film verso un finale aperto e incerto. Nel 2049 il dramma si svolge intorno a un “lavoro in pelle”, che è un altro modo per chiamare i replicanti. L’agente K diviene il terreno di scontro tra i mondi. Il conflitto diventa intimo, solipsistico. I dubbi mettono a nudo la fragilità psicologica delle creature artificiali. La possibilità di generare una vita è una crepa nel sistema del nuovo ordine sociale, che potrebbe sgretolare le sue stesse fondamenta.
L’indagine dell’agente K si trasforma ben presto in una lacerante ricerca interiore, che lo fa sprofondare nell’abisso di oscuri e flebili ricordi, innesti di un passato mai vissuto, forse artificiali o forse realmente vissuti, ma appartenuti ad altri. La storia prende la via di un viaggio a ritroso nel tempo alla ricerca di brandelli di una memoria fallace e illusoria. Una discesa negli inferi di una mente creata al computer, eppure così umana nel desiderare di comprendere qualcosa della propria origine.
Un percorso che condurrà l’agente K a ritrovare il passato – non il suo, ontologicamente inesistente, ma quello del cinema grazie all’incontro con Deckard. I due detective si ritrovano, faccia a faccia, a confrontarsi con i loro dubbi, incubi e rimorsi. Blade Runner 2049 si ricongiunge così all’originale in una sinapsi spazio-temporale, che apre nuovi scenari alla narrazione.
Difficile che il film di Denis Villeneuve abbia lo stesso effetto dirompente del primo Blade Runner, ma regalerà momenti di grande cinema a chi sarà disposto a farsi trasportare nel 2049 senza nostalgie.
Blade Runner 2049
Regia: Denis Villeneuve
Con: Ryan Gosling, Harrison Ford, Ana de Armas, Sylvia Hoeks, Robin Wright, Dave Bautista, Jared Leto, Mackenzie Davis, Barkhad Abdi, Lennie James
Durata: 152 minuti
Produzione: USA, 2017