Fino a una quindicina di anni fa, cioè fino a quando sono stato insegnante di Lettere al liceo, ricordo che ai libri di testo si chiedevano poche cose ben precise: che fossero culturalmente affidabili, didatticamente strutturati, trasparenti nell’impostazione ideologica, ricchi di esercitazioni, prevedibili (per quanto possibile) nella selezione del canone disciplinare, ma senza rinunciare a interessanti spunti di originalità sia nel merito che nel metodo. Al docente spettava il compito di mediare e impreziosire con la propria preparazione e dialettica, e magari con un pizzico di istrionismo, i contenuti offerti dalla carta stampata.
Quindici anni dopo, le cose sono formalmente molto simili, se non per un aspetto, che fa però tutta la differenza del mondo. È cambiato il mondo, in effetti: quello che sta dentro e fuori dalle aule, dentro e fuori dalle coscienze. È stato innalzato l’obbligo scolastico e quello formativo; si sono riformati gli indirizzi e i programmi; si è imposto di lavorare per competenze; sono state accolte prime e seconde generazioni di nuovi italiani; si è diffusa la richiesta legittima di accurate personalizzazioni (se non individualizzazioni) dei programmi scolastici e dei piani di studi.
Fare i libri di testo è cambiato, perché è cambiato il mondo.I banchi si sono popolati dei cosiddetti “nativi digitali”, con le loro fonti alternative di informazioni e di sapere (Facebook e YouTube su tutti); con la loro attitudine alla navigazione di superficie, e all’ipertestualità; con i pollici opponibili usati su minuscole tastiere per scrivere messaggi in codice; provenienti da città e quartieri sempre più multietnici; da contesti depauperati da una decennale crisi economica, che ha invertito priorità e valori, ponendo l’istruzione al fondo della classifica dei mezzi di promozione sociale. A fronte di tali mutamenti del mondo, si sono resi indispensabili cambiamenti significativi anche nel modo di rappresentarlo e di narrarlo. Si è cioè, sempre più, chiesto che la lingua, o meglio, i linguaggi della comunicazione didattica si calibrassero su un nuovo standard d’intellegibilità, che prescindesse da un’idea omogenea e astratta di curriculum scolastico, e mediasse il sapere nelle forme e nei modi più adatti a tutti e a ciascuno.
Io, che il cambiamento l’ho vissuto non più in classe, ma dietro una scrivania popolata di bozze e progetti grafici, ho visto rapidamente mutare anche il mio lavoro, spostandosi il centro di interesse sempre più dal contenuto al metodo, dallo specialismo disciplinare alla mediazione linguistica. Non che il fenomeno sia del tutto nuovo, nella scuola e nella società italiane. Dal saggio manzoniano sulla lingua italiana e “sui mezzi per diffonderla” al “non è mai troppo tardi” televisivo; dai programmi della scuola media dell’obbligo alle contestazioni dell’autunno caldo; dalla lettera alla professoressa alle tesi di De Mauro, ogni stagione sembra aver fatto i conti con una realtà antropologica e culturale diversa e inattesa. Quello che c’è di nuovo, oggi, sembra essere la pervasività del fenomeno, che non si limita più alla “semplice” dialettica verticale tra chi è privilegiato, culturalmente ed economicamente, e chi no, ma che si radicalizza in una divisione orizzontale e generazionale che, nei suoi esiti estremi, rende vicendevolmente muti e sordi genitori e figli, studenti e insegnanti.
Di questo abbiamo voluto parlare, in questo decimo numero della Ricerca. Della lingua che si usa a scuola e di quella che si pensa per la scuola; di pratiche didattiche intelligenti e di errori che diventano risorse; di libri di testo sequenziali e di granularità di contenuti virtuali; di poesia e di comunicazione.
Di comunicazione, soprattutto, ma non come mera tecnica di trasmissione del sapere. Piuttosto, come abito mentale e prassi etica, oltre che come base di una progettazione editoriale che voglia essere al tempo stesso seria, civile, democratica, inclusiva.