Il regista americano, rivelatosi al grande pubblico con il film I Tenenbaum (2001), ha firmato in seguito una serie di capolavori assoluti, tra cui ricordiamo Il treno per il Daerjeeling (2008), Moonrise Kingdom (2012) e Grand Budapest Hotel (2014).
Fedele alla sua poetica, anche questa volta Anderson si muove con abile disinvoltura sulle trame della commedia, che rivisita secondo la sua personale sensibilità, che vira su toni surreali e sarcastici. Il suo mondo è da sempre abitato da personaggi bizzarri, spaesati e malinconici, che spesso hanno una relazione difficile con la realtà che è incomprensibile, contraddittoria e sfuggente.
Il film è ambientato negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, travolti dall’energia vitale e ottimistica del boom economico e dall’inquietante e minaccioso spettro della guerra fredda e della distruzione nucleare. La vicenda si svolge nella fantasmagorica città di Asteroid City, un piccolo paese disperso nel desolato deserto del Nevada, famoso per un cratere provocato dall’impatto di un asteroide. Il questo luogo fuori dal tempo e dallo spazio quotidiano, si riuniscono alcune famiglie che accompagnano i lori figli prodigio a una convention per giovani inventori.
L’improvvisa visita di un’astronave di alieni costringe la piccola comunità a restare isolata in quarantena. La convivenza forzata genera e porta in superficie una serie di relazioni familiari e sociali problematiche e disfunzionali, che mettono in luce una profonda solitudine esistenziale.
Il microcosmo diventa simbolo di un’America confusa, eccentrica e paranoica, sospesa tra passato e futuro, e immersa in un presente incomprensibile e sfuggente. Lo scenario di un deserto senza confini, che ricorda gli spazi dei grandi film western girati nella Monument Valley, disorienta e crea una sensazione di vuoto angosciante. I fragili rapporti umani si perdono in uno spazio tanto più compresso quanto più generatore di distanze incolmabili, che sembrano dilatarsi all’infinito.
La messa in scena è fedele all’estetica rigorosa tipica del cinema di Wes Anderson. La regia gioca abilmente con contrapposizioni simmetriche, immagini statiche dalla perfetta composizione geometrica, movimenti di macchina lineari ed essenziali. I colori pop e pastello del paesaggio contribuiscono a creare un’ambientazione irreale e artificiosa, quasi da cartoon. La messa in scena è caratterizzata da una struttura suddivisa in tre atti e numerosi capitoli, con continui rimandi meta-cinematografici al processo di creazione del film. Alla narrazione si alternano brevi sequenze in bianco e nero che ne svelano la genesi e i retroscena, con personaggi che entrano ed escono dalla finzione con disinvoltura, sottolineando il disincanto di un giocoso racconto affabulante.