Si tratta di manifestazioni artistiche che comprendono anche quelle delle grandi civiltà precolombiane, e che, per comodità, vengono distinte in vaste aree geografiche, rispettate anche negli ordinamenti dei musei specializzati. È il caso, ad esempio, dell’interessante Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma, la cui sezione etnografica è attualmente suddivisa in Africa, Americhe e Oceania.
È un’arte che generalmente presenta forti valenze simboliche o religiose; anonima, perché l’artigiano-artista realizza l’oggetto seguendo la tradizione tramandata dalla comunità; e che si presta a essere studiata da prospettive diverse, non sempre, purtroppo, in dialogo fra loro. L’oggetto, infatti, può essere considerato sia da un punto di vista estetico che antropologico, con attenzione focalizzata sul valore formale e sulla decorazione o sullo scopo e l’utilizzo. Ne conseguono differenti criteri di esposizione, valorizzazione e restauro.
L’Oceania può essere suddivisa in cinque aree artistico-culturali: Australia, Nuova Zelanda, Polinesia, Micronesia, Melanesia. Ci vengono in mente le creazioni degli aborigeni australiani, basate principalmente sul culto degli antenati e fortemente legate al tema del sogno, o l’arte Maori della Nuova Zelanda, che rappresenta eroi culturali e antenati in sculture di legno e pannelli decorativi per case e imbarcazioni.
Il culto degli antenati è molto diffuso fra le popolazioni dell’Oceania e serve anche a rinsaldare i vincoli familiari entro la comunità. Particolarmente interessanti sono le cerimonie tipiche di un’isola a nord della Nuova Guinea, durante le quali danzatori mascherati si esibiscono davanti a grandi sculture rappresentanti gli spiriti degli antenati e quelli della foresta.
L’America ci conduce dalla cultura Inuit (eschimese) a quella degli Indiani delle praterie, di cui sicuramente conosciamo le asce di guerre e i calumet, proseguendo verso sud fino alle grandi civiltà archeologiche di Aztechi, Maya e Inca. Nel Museo Pigorini possiamo ammirare, fra l’altro, alcuni capolavori dell’arte azteca (1300-1521 d.C.), fra cui due maschere e due impugnature di coltello cerimoniale in legno ornate di mosaici. Una sezione tematica introduce ad alcuni argomenti relativi alla vita e alle credenze di queste popolazioni: utensili quotidiani, ma anche oggetti che rimandano ai sacrifici umani e all’autosacrificio.
Nella sezione dedicata al Perù, una bacheca centrale ospita tre fardos (involucri funerari), con il loro corredo funebre. Mi ha fatto piacere scoprire che il disagio che ho sempre provato di fronte all’esposizione in un museo di corpi umani sia attualmente argomento di discussione. Anche se morti da secoli, si tratta pur sempre di esseri umani, che avranno provato i nostri stessi sentimenti e che saranno stati amati, e probabilmente pianti, da altri esseri umani. Non ho mai condiviso del tutto la scelta di esporli in un museo alla stessa stregua di reperti archeologici o documenti storici.
D’altra parte, fin dagli anni Sessanta del Novecento una nuova attenzione all’idea di anthropologically correct aveva fatto emergere alcuni interrogativi, per arrivare al NAGPRA, Native American Graves Protection and Repatriation Act, emanato dal Congresso degli Stati Uniti nel 1990, che obbligava istituti e musei destinatari di contributi federali a restituire alle tribù indiane i resti umani, i corredi funerari e i beni culturali delle comunità.
Nell’estrema varietà culturale che caratterizza l’Africa, la manifestazione probabilmente a noi più nota è quella dell’“arte nera”, che si realizza prevalentemente attraverso la scultura lignea. Fin dal XVI secolo, oggetti provenienti dall’Africa andarono a impreziosire le collezioni di principi e i tesori delle chiese, in una ricerca di opere esotiche e curiose, degne di nota per la preziosità del materiale o la raffinatezza dell’esecuzione. Insieme agli oggetti tipici della produzione locale ne arrivarono altri, non meno interessanti, nati dall’incontro fra le popolazioni africane e quelle europee, come le elaborate saliere in avorio: tecniche africane per una committenza portoghese.
Espressione tipica della cultura africana sono le maschere, considerate lo strumento più efficace per mantenere il contatto fra l’uomo e l’universo e utilizzate nei momenti più importanti della vita collettiva. L’efficacia della maschera è subordinata al suo uso dinamico: è concepita per essere vista in movimento, nell’ambito di musiche e danze che ne rafforzano il potere.
La scultura, invece, raramente veniva esibita in pubblico. Può essere di vari tipi: funeraria, o legata alla rappresentazione della maternità e della fecondità (la continuità della specie), o alla raffigurazione degli antenati (le relazioni di parentela).
Alcune sculture provenienti dal bacino del Congo, esposte al Pigorini (come ci racconta anche un breve, ma utilissimo video nel sito del museo), sono destinate a contenere sostanze magiche. Vengono definite, nella lingua locale, “cose che fanno cose”, a sottolineare il loro ruolo nei rituali propiziatori, per favorire la fertilità, un buon raccolto o una buona battuta di caccia, nei culti terapeutici o nei malefici. Sono le sostanze contenute che danno potere alla scultura, non l’oggetto in sé, che ha valore solo in quanto conduttore della forza dello spirito. Alcune sculture sono individuabili per la presenza di uno specchio, indice della lucidità e della chiaroveggenza del celebrante, altre, caratterizzate dalla presenza di chiodi, hanno frequentemente il braccio destro alzato e armato, in gesto di minaccia contro qualsiasi attacco umano o spirituale.
Generalmente, l’attenzione dell’artigiano-artista si concentra nelle parti più ricche di energia, come il volto, il tronco o gli organi genitali, trascurando la rappresentazione di gambe e braccia; in alcuni casi, invece, anche queste parti del corpo sono rappresentate con cura. Secoli di tradizione costituiscono il riferimento codificato a cui l’artefice deve attenersi nella sua creazione, in cui convivono, strettamente intrecciati, linguaggio formale, sentimento religioso e struttura sociale.
Agli inizi del Novecento la scoperta dell’arte africana ebbe una notevole influenza sullo sviluppo dell’arte occidentale, pensiamo al cubismo, al surrealismo, all’espressionismo, ai Fauves. I valori formali delle opere africane furono recepiti in quelle occidentali, dando un forte impulso di rinnovamento all’arte del periodo.
Ho davanti a me l’immagine di una scultura lignea Nyamwezi proveniente dalla Tanzania. Non posso non pensare alle opere di Alberto Giacometti, che probabilmente vide una scultura Nyamwezi nella collezione di André Lefebvre. Ma l’immagine richiama anche l’Ombra della sera, quello straordinario bronzetto votivo etrusco proveniente da Volterra, il cui profilo allungato ricorda le ombre create dalla luce radente del crepuscolo, in un dialogo di forme che si svolge attraverso tempi e luoghi lontanissimi fra loro.