I Persiani sono sempre stati percepiti dalle due maggiori civiltà “classiche” – cioè i Greci e i Romani – come pericolosi nemici: ciò dal punto di vista militare, da quello politico-culturale, e perfino da quello etico.
- Pasargade, verso la tomba di Ciro
- Pasargade, la tomba di Ciro
In realtà il concetto di “Persiani” andrebbe meglio definito, perché un conto è alludere al potentissimo impero “universale” degli Achemenidi, che le poleis greche fronteggiarono nelle due celebri Guerre persiane nei primi decenni del V secolo a.C. e che fu abbattuto da Alessandro Magno; un altro è riferirsi al regno dei Parti, avversari storici dei Romani nell’ultima fase della Repubblica (tutti ricordano senz’altro la disfatta di Crasso a Carre nel 53 a.C.); un altro ancora è parlare della dinastia dei Sassanidi, che nel III secolo d.C. instaurarono un “secondo impero”, rivale nel controllo del Medio Oriente di quello romano ormai non più al suo apice.
Pasargade e la tomba di Ciro il Grande
Sono appena stato in Iran e vorrei cominciare il mio reportage proprio con una descrizione di alcuni luoghi archeologici della Persia antica. È allora quasi d’obbligo partire da Pasargade, una delle capitali dell’impero Achemenide, insieme con Susa, Ecbatana e Persepoli: si riteneva infatti utile avere una capitale “itinerante”, che corrispondesse alla sede del momento del Gran Re.
Ma perché partiamo proprio da Pasargade? Perché qui è sepolto Ciro il Grande, colui che durante il suo lungo regno (559-530 a.C.) liberò la Persia dai Medi e quindi conquistò tutta la penisola anatolica (547 a.C.), compresa la Lidia dal potente re Creso, e la Ionia, dove sorgevano anche importanti città greche. Nel 539 a.C. fu Babilonia a capitolare sotto gli attacchi persiani, così che Ciro annesse la Mesopotamia e quindi la Fenicia, la Siria, la Palestina.
Oggi dei palazzi achemenidi di Pasargade resta in loco poco o nulla, ma la suggestione della semplice e nel contempo imponente tomba del Gran Re ubicata in un grande pianoro è enorme. Qui lo scià Reza Pahlavi celebrò nel 1971 i 2500 anni della fondazione dell’impero persiano, cercando di sovrapporre la sua figura a quella del ben più illustre predecessore: sappiamo però che la Storia gli riservò – dopo la rivoluzione del 1978-1979 ispirata dall’ayatollah Khomeini – l’assai meno glorioso destino dell’esilio.
E qui ancora oggi è possibile vedere intere famiglie di iraniani – comprese le donne in chador – farsi un selfie davanti al mausoleo, che assume per loro un forte significato identitario: la Persia di Ciro era infatti uno Stato multietnico e rispettato nel mondo, del quale andare orgogliosi nei secoli, forse con un po’ di nostalgia per la tolleranza che gli storici attribuiscono al sovrano achemenide.>
Persepoli, simbolo del potere achemenide
- Persepoli, Porta delle Nazioni
- Persepoli, Apadana
- Persepoli, Apadana, processione di Assiri che donano arieti al Gran Re
- Persepoli, Apadana, scena di omaggio al Gran Re
Poco distante da Pasargade è Persepoli, centro concepito per essere il simbolo concreto della grandezza dell’impero achemenide, che dopo Ciro fu retto da Cambise II (529-522 a.C.), conquistatore dell’Egitto, Dario I (522-486 a.C.), Serse (485-465 a.C.) e Artaserse (464-424 a.C.). La città, con i suoi fastosi palazzi reali, fu fondata nel 518 a.C. durante il regno di Dario, abbellita dall’azione del figlio Serse, e costantemente ampliata e monumentalizzata anche nelle epoche successive, fino a che non venne danneggiata da un rovinoso incendio che Alessandro Magno, dopo avere sconfitto nel 333 Dario III, fece appiccare per vendicare quello di Atene durante la Seconda guerra persiana.
Al complesso di edifici reali si accedeva attraverso la cosiddetta Porta delle nazioni, varcata la quale si salivano le due grandiose scalinate che portavano all’Apadana (sala delle udienze). Notevoli i bassorilievi – in larga parte conservati – dei muri di supporto alle scalinate, costituiti da splendidi rilievi con immagini vegetali e animali, ma soprattutto rappresentazioni di figure umane: le vediamo in solenne processione, quale atto di omaggio al Gran re. Uomini diversamente vestiti, con barbe curate e acconciature che vogliono mettere in luce la pluralità dei popoli dai quali l’impero è composto, recano infatti doni e animali al sovrano achemenide, probabilmente in occasione della festa primaverile del Nowruz, il “capodanno persiano” di antichissima tradizione zoroastriana.
Oltre all’Apadana, il complesso palaziale di Persepoli vede la presenza di edifici privati come l’imponente Tachar e l’Hadisch, e altri a destinazione pubblica come la Tesoreria e il Palazzo delle cento colonne.
L’insieme monumentale è davvero unico e sempre caratterizzato iconograficamente dall’ossessiva presenza della figura del sovrano, maestosa in pace come in guerra, sovente con le sue guardie o i suoi dignitari di corte: poco importa se questi sia Dario, Serse o qualche successore, perché al di là dei singoli il potere regale è dato dall’appartenenza alla dinastia achemenide e dalla funzione di Gran Re che i suoi vari esponenti debbono esercitare.
Una funzione che essi ritenevano loro assegnata dalla divinità solare zoroastriana Ahura-Mazda, il cui “logo” faravahar – cioè lo spirito alato che protegge l’anima umana – è anch’esso onnipresente nei rilievi di Persepoli, a dare l’impressione che qui la mescolanza tra l’umano e il divino sia qualcosa di naturale e necessario.
Le tombe reali di Naqsh-e-Rostan
- Persepoli, Tachar o Palazzo privato di Dario
- Persepoli, Tachar, Guardie reali che rendono omaggio a un’iscrizione
- Persepoli, Veduta dall’alto
- Naqsh-e-Rostan, Tombe reali
A Persepoli si trova anche la tomba di Artaserse III (358-342 a.C.), in una posizione dalla quale è possibile vedere tutto il pianoro occupato dai palazzi reali. Ma è nella vicina località di Naqsh-e-Rostan (a una dozzina di chilometri da Persepoli) che sono sepolti gli altri “pezzi da Novanta” della Persia antica, e cioè Dario II, Artaserse I, Dario I e Serse I, da sinistra a destra per chi guarda la montagna. L’ingresso delle loro camere funerarie, scavate nella roccia, è sormontato da immagini dei re in trono, in fogge che ricordano le sculture di Persepoli, ed è evidente l’idea di una monumentale consegna all’eternità della memoria dei re achemenidi.
Eppure, parte di quella memoria è stata loro “scippata” da alcuni sovrani sassanidi che governarono la Persia secoli dopo, i quali vollero incidere le loro imprese – in forma sia iconica sia scrittoria – proprio sulla stessa parete rocciosa delle tombe di quegli Achemenidi dei quali si sentivano i legittimi successori.
Shapur e le sue Res Gestae
- Naqsh-e-Rostan, Shapur trionfa suigli imperatori roman
- Naqsh-e-Rostan, L’incoronazione del re sassanide Ardashir
Tra questi sette rilievi, ce n’è uno che merita un discorso a parte, e cioè quello che raffigura il re Shapur I (241-272 d.C.) a cavallo, che trionfa su ben due imperatori romani: Valeriano, da lui fatto prigioniero dopo la battaglia di Edessa (260 d.C.), e Filippo l’Arabo, inginocchiato davanti al sovrano sassanide al quale – secondo la tradizione – avrebbe chiesto la pace nel 244 d.C.
La verità è che in quegli anni il Medio Oriente stava sfuggendo di mano ai Romani, come dimostra anche la secessione di Palmira ad opera di Zenobia che, a partire dal 267 d.C., tenne lungamente in scacco il potere romano; e che gli scontri con i bellicosi re sassanidi erano frequentissimi, e quasi mai indolore, per un impero che – tra sconfinamenti, invasioni barbariche, pestilenze, carestie e contese religiose – aveva non pochi guai da affrontare.
Shapur, combattendo i Romani, aveva così rinnovato quella rivalità militare e valoriale tra Oriente e Occidente che aveva avuto inizio con le Guerre persiane del V secolo a.C. ed era continuata con gli scontri tra Macedoni e Persiani, nonché tra Romani e Parti.
Certamente, però, lo scontro non era più tra libertà e tirannide (come Erodoto aveva inteso le Guerre persiane), ma tra due grandi imperi: uno – quello romano – che andava verso un pur lento tramonto, l’altro – quello sassanide – nel pieno del suo vigore, una sorta di “secondo impero” persiano, come già si è detto.
L’orgoglio sassanide prende forma anche nell’iscrizione trilingue (in greco, medio-persiano, partico) che affianca il rilievo di Naqhs-e-Rostan, conosciuta con l’appellativo di Res Gestae Divi Saporis; in essa Shapur ricorda le sue imprese militari, e si autodefinisce “re dei re”, rinnovando così gli ideali universalistici degli Achemenidi. Come è ovvio, particolare insistenza è data alle vittorie contro i Romani, presentati come sconfitti e supplici.
Impossibile, allora, non andare con la memoria alle Res Gestae Divi Augusti nelle quali – due secoli e mezzo prima – Augusto scriveva invece “Costrinsi i Parti a rendere spoglie e insegne di tre eserciti romani e a chiedere supplici l’amicizia del popolo romano”; proprio quell’Ottaviano Augusto che raffigurava sulla corazza della sua statua “da Prima Porta” la scena della restituzione ai Romani, ad opera del re partico Fraate IV, delle insegne strappate a Crasso.
Tempi lontani, quelli, nei quali il potere di Roma sembrava davvero sine fine, in Occidente come in Oriente, Persia compresa. Ora erano i Sassanidi a governare larga parte dell’Oriente; e lo faranno – antagonisti dei Bizantini – fino al 651 d.C., quando la Persia cadrà sotto la dominazione araba e si convertirà all’Islam.
Altri tempi ancora, dunque, dei quali parlerò presto su queste colonne, perché l’Iran è tempestato di moschee di una bellezza mozzafiato, pari almeno a quella dei siti archeologici che ho appena descritto.