Arche dell’Antropocene #3

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Se Joel Sartore cercava di farci aprire gli occhi, il secondo progetto delle arche dell’Antropocene tenta di farci sentire, con le orecchie, la ricchezza che stiamo perdendo. Da luoghi remoti e privi di disturbo antropico giunge il suono delle foreste primarie. Imponenti quanto delicate cattedrali naturali, la cui musica è il frutto di milioni di anni di evoluzione.

In principio era il suono

Esisteva Eru, l’Uno, che in Arda è chiamato Ilúvatar; ed egli creò per primi gli Ainur, i Santi, rampolli del suo pensiero, ed essi erano con lui prima che ogni altro fosse creato. Ed egli parlò loro, proponendo temi musicali; ed essi cantarono al suo cospetto, ed egli ne fu lieto. A lungo cantarono soltanto uno alla volta, o solo pochi insieme, mentre gli altri stavano ad ascoltare; ché ciascuno di essi penetrava soltanto quella parte della mente di Ilúvatar da cui proveniva, e crescevano lentamente nella comprensione dei loro fratelli. Ma già solo ascoltando pervenivano a una comprensione più profonda, e s’accrescevano l’unisono e l’armonia (Tolkien, 1978).

Non sono un esperto del suono, né tanto meno di musica. Sono un antropologo e mi interesso delle relazioni tra esseri umani e non-umani, tra l’Uomo e quella che genericamente chiamiamo Natura. Le relazioni, ancor più degli attori che le intrattengono, sono ciò a cui guardo.

Quello che avete appena letto è un estratto della traduzione italiana delle prime righe del Silmarillion, nel capitolo Ainulindalë “la musica degli Ainur”, di J.R.R. Tolkien. Si tratta di un testo appartenente al genere fantasy, non ha alcuna pretesa scientifica, ma rimane il genio creativo dell’autore, l’armonia che ha saputo sviluppare nel corso del testo e il mondo che ha forgiato e illuminato. E lo ha fatto a partire dal suono, dalla musica creatrice, che genera comprensione.

L’articolo che state per leggere andrebbe ascoltato, piuttosto che visto, andrebbe espresso in musica, in frequenze sonore, invece che letto. Andrebbe suonato, piuttosto che battuto al computer. Non entrerò in tecnicismi riguardo al vasto campo del suono, rischierei inutilmente di commettere qualche errore. Ma vorrei raccontarvi una storia, che si aggiunge a quella che abbiamo visto nell’articolo precedente, di un progetto che si ribella all’indifferenza. Se Joel Sartore voleva rendere visibile l’invisibile attraverso le proprie fotografie, la persona di cui vi sto per parlare desidera fare emergere suoni e musiche, rendere udibile l’inudibile, preservare dall’estinzione le voci che stanno scomparendo.

La pervasività dell’occhio

La nostra società è basata sull’occhio, sul senso della vista. Non in maniera esclusiva, ma in modo preponderante. Gli input che riceviamo ogni giorno per mezzo della vista sono innumerevoli e per lo più contiamo su questo senso. Ciò non significa che siamo degli ottimi osservatori, semplicemente facciamo grande affidamento sull’azione del “guardare”, attivamente o passivamente. È una pratica che sembrerebbe essersi amplificata con il procedere della storia umana. Tanto è vero che le popolazioni di cacciatori-raccoglitori che ancora abitano sparute zone della Terra sono molto più abili di noi nel percepire le variazioni dell’ambiente circostante attraverso gli altri sensi. Recepiscono informazioni prestando attenzione a vibrazioni sonore che noi – esseri umani occidentali – non siamo più in grado di distinguere.

L’attenzione alla vista è massima nella nostra società. Pubblicità, segnaletica, regolamentazioni paesaggistiche, canoni estetici sono elementi costituenti la cultura e quotidianità. La televisione e il cinema hanno dato grande valore all’occhio in questo senso: mezzi che sono stati visti prima che uditi. Gli smartphone, poi, hanno amplificato il bombardamento oculare. Anche il turismo – uno dei fenomeni di massa che impattano sulla salute e trasformazione degli ecosistemi –, come scrive la professoressa di Sociologia Judith Adler, a partire dal XVI secolo ha visto una migrazione dalla centralità dell’orecchio e della lingua a quella dell’occhio. Il turismo, inizialmente inteso come attività di erudizione delle classi più agiate attraverso l’ascolto di grandi maestri, è mutato nel godimento visivo di ciò che è bello, come la scultura, la pittura, l’arte in generale e il paesaggio (Adler, 1989).

Le città, i luoghi in cui abita l’80% della popolazione europea e statunitense, sono organizzate secondo una struttura visuale. L’emersione della vista come senso predominante ha posto momentaneamente in secondo piano l’orecchio. L’udito e l’ascolto hanno perso di importanza. Ciò non implica che le nostre città siano silenziose, ma che la maggioranza dei suoni che sentiamo negli ambienti urbani, quasi unicamente di origine antropica, non portano informazioni rilevanti, anzi spesso arrecano disturbo. Viviamo in quelle che sono state definite “discariche acustiche” (Monacchi, 2019).

Ricordo che uno dei pochi risvolti positivi del periodo pandemico, quando lo stato di emergenza aveva raggiunto il picco e molti di noi trascorrevano le giornate in casa, è stato il drastico crollo dell’inquinamento acustico antropico. Forse, in quel frammento di tempo di atipicità contemporanea, l’orecchio è riemerso per un istante dalla sordità che lo avvolge. Abbiamo udito il suono non del silenzio, ma dell’intorno, di un ecosistema dove l’essere umano è ridotto al margine.

“L’arca dei suoni originari”, David Monacchi

L’Eremocene o Eremozoico, così come è stato definito da E.O. Wilson, è l’età della solitudine. Una soglia che ci stiamo apprestando a varcare a causa della perdita di biodiversità e della degradazione degli ecosistemi dovuta alla pressione antropica. Il numero di specie si sta riducendo così velocemente da presagire una Sesta estinzione di massa. Con le storie e le vite di queste specie, se ne vanno anche le loro voci. Gli habitat diventano sempre più silenziosi, muti e poveri di suoni.

Come possiamo preservare queste voci? Come riuscire a trasmetterne l’importanza e a conservarne il ricordo?

Un esempio di dipterocarpacea.

Circa vent’anni fa, il compositore e sound-designer David Monacchi ha avviato un progetto d’avanguardia, Fragments of extinction, orientato a fornire una risposta a questi interrogativi. Fin da piccolo è stato appassionato di registrazioni del paesaggio sonoro nelle campagne vicino a Urbino, dove è nato. Un paesaggio sonoro è, come lo descriverebbe Murray Schäfer, la totalità del mondo dei suoni, ma anche le registrazioni di una sua porzione, così come si definisce un paesaggio visivo e una fotografia che ne ritrae una porzione (Murray Schäfer, 1985). Si possono registrare paesaggi sonori in ambienti diversi, in città, campagna, foresta e così via. David Monacchi si concentra sugli habitat a più alta biodiversità, ossia quelli intorno all’Equatore: foreste primarie pluviali indisturbate, luoghi remoti privi di attività antropica di disturbo. Come si può immaginare, spazi simili sono piuttosto rari oggigiorno, per questo la ricerca del corretto ambiente sonoro sul campo può richiedere di immergersi nella foresta anche per alcune ore di cammino. È proprio qui che le guide locali hanno aiutato Monacchi nelle esplorazioni, facendo affidamento su quella capacità di cui noi non godiamo più, che permette di percepire l’ambiente non solo attraverso la vista ma anche con le orecchie e gli altri sensi.

Il progetto mira a compiere registrazioni di 24 ore continue con strumenti acustici dei più avanzati, vengono catturate le vocalizzazioni di insetti, anfibi, uccelli e mammiferi durante un intero ciclo circadiano. Nel corso degli anni le registrazioni sono state condotte in Amazzonia (la prima volta nel 2002) nella regione del fiume Jauperì, dove sono stati campionati i tre diversi habitat della foresta allagata, delle sponde del fiume e delle foreste di terraferma; in Africa (2008) nella Riserva forestale Dzanga-Sangha, nella Repubblica Centrafricana; nel Borneo (2010-2012) nelle foreste primarie di Brunei, Sarawak e Sabah, dove le piante sono in prevalenza dipterocarpacee, alberi alti fino a 60-80 metri che fioriscono in maniera irregolare ogni tot anni.

Le foreste primarie sono luoghi antichi, non toccati dall’azione dell’uomo. In questi ecosistemi, il momento del crepuscolo è particolarmente potente dal punto di vista sonoro: una transizione di voci di specie differenti crea il dusk chorus, il coro del crepuscolo. Qui una registrazione fatta da Monacchi.

Oltre ai suoni, Monacchi trasmette alcune immagini di questi luoghi. Spazi impregnati di sacralità e anzianità, modellati dal delicato ma efficiente processo evolutivo che li ha portati a essere come si presentano oggi. Si tratta di cattedrali con volte che raggiungono i 25 piani di altezza dei nostri grattacieli. La foresta primaria del Borneo conta circa 140 milioni di anni di evoluzione, Homo sapiens è comparso sulla Terra appena 300.000 anni fa. Come afferma Monacchi, studi recenti condotti per comprendere l’età di alcuni alberi della foresta amazzonica grazie alla datazione con il radiocarbonio, hanno stabilito che la metà degli alberi con un diametro superiore a 10 centimetri avrebbe più di 300 anni. La crescita nelle foreste pluviali primarie dell’Equatore è molto lenta, ciò implica che alberi più grandi possono contare anche mille anni di età (Monacchi, 2019). La biodiversità, la varietà di specie di queste aree, è una ricchezza inimmaginabile e si sta spegnendo, in silenzio.

Dalle proprie esplorazioni, David Monacchi ha portato indietro frammenti sonori di habitat intoccati dall’antropizzazione. Una biblioteca, “un’arca di suoni originari” che testimonia la bellezza, la complessità, l’armonia, i suoni e la musica che stiamo perdendo.

Ed essi cantarono, ed egli ne fu lieto

Più volte David Monacchi ha affermato di essere stato assalito da dubbi circa il proprio ruolo di compositore. Di fronte alla bellezza e all’armonia, all’ordine e all’equilibrio del suono naturale di questi habitat, quale poteva essere il suo ruolo?

Uno dei tanti elementi di meraviglia nel racconto del compositore è la relazione sonora che si instaura tra le specie, gli individui e l’ambiente abiotico che riempiono di vita ogni singolo frammento di complessità acustica. I “frammenti di estinzione” registrati sono il frutto di “vocalizzazioni coordinate e interdipendenti delle varie specie [presenti nell’habitat osservato], che eseguono una precisa partitura scritta probabilmente dalla selezione naturale di 65 milioni di anni di evoluzione”. Ogni specie comunica attraverso il suono e può vivere e interagire in maniera intraspecifica e interspecifica grazie a questa capacità di inserirsi in un punto particolare del suono della foresta. Le voci, dunque, non entrano a caso nel coro, ma si collocano secondo precisi ordini di frequenza e di tempo. Ogni individuo occupa una frequenza sonora specifica e vocalizza in momenti precisi. Come afferma Monacchi, si tratta di un’opera perfetta.

Oggi tutto questo si sta perdendo. L’estinzione dovuta ai cambiamenti climatici, all’inquinamento e in generale all’azione antropica, sta riducendo al silenzio queste voci. Vorrei dire che possiamo facilmente immaginare cosa significhi disboscare aree di foresta che racchiudono una ricchezza di questa portata, ma evidentemente non siamo in grado di farlo, poiché ogni giorno radiamo al suolo ampie aree di foresta che contengono un patrimonio biologico inestimabile. Fragments of extinction ha raccolto alcuni frammenti sonori di questa unicità e permette di ascoltarli in teatri con le più avanzate tecnologie acustiche esistenti in 3D, con cui è possibile udire i suoni come se ci trovassimo immersi nella foresta primaria. La Sonosfera di Pesaro offre questa inimmaginabile opportunità.

Ascoltando perveniamo a una comprensione più profonda. Lasciando spazio di nuovo all’orecchio e all’udito, al posto di vivere in una discarica di rumore antropico e nel mezzo di un bombardamento visuale, potremmo accrescere l’unisono a l’armonia. L’obiettivo del progetto di Monacchi non è quello di comparare registrazioni di paesaggi sonori in periodi di tempo differenti, per vedere come e se muta la “voce” di questi luoghi, per stabilire che anche dal punto di vista sonoro l’estinzione sta mostrando i propri effetti. L’intento è piuttosto quello di creare un’arca di suoni che stanno scomparendo, di sincronie acustiche. Un’arca ancora una volta in bilico tra il desiderio di custodire una ricchezza e il pericolo della perdita incombente. Tra la vita e la morte.

Quelle raccontate in questi articoli sono arche che contengono la vita, intere storie di specie che abitano o hanno vissuto su questo pianeta, ma sono arche che scivolano velocemente verso una fine, questa volta definitiva. Sono contenitori necessari e preziosi che possono farci uscire dall’indifferenza e iniziare a lottare.

Qualche tempo fa parlavamo di biofilia, come forma di affinità tra gli esseri umani e tutto ciò che è vivente. Lascio allora le ultime parole a David Monacchi per descrive l’obiettivo di questa arca dell’Antropocene, che è tanto preziosa in un’epoca dai volti mostruosi, ma ricca di altrettante speranze.

La grande polifonia che l’evoluzione ha creato attraverso una lunghissima e paziente selezione naturale, adesso sta scomparendo. […] Ma il suono di una foresta perché ci entra così in profondità? […] Io credo che l’uomo riconosce la natura come armonica perché della natura è rimasto orfano. Ma la conserva scritta nel patrimonio genetico che i due secoli della Rivoluzione industriale, o i quattro, cinque millenni delle civiltà organizzate – che sono comunque un battito di ciglia nella nostra storia biologica –, non sono stati sufficienti a mutare; e quando la sente la riconosce.

[…] Spero che la “biblioteca” dei suoni costituirà un beneficio di memoria sonora, disponibile alle generazioni future, a valle purtroppo dei cambiamenti climatici attesi e inevitabili nei prossimi decenni, che degraderanno fortemente gli ecosistemi originari. Registrarne e conservarne almeno frammenti è oggi un dovere della nostra generazione! (Monacchi, 2019)


Bibliografia

J. Adler, Origins of sightseeing, «Annals of Tourism Research», 16, 7-29, 1989.

D. Monacchi, L’arca dei suoni originari, Mondadori, Milano 2019.

R. Murray Schäfer, Il paesaggio sonoro, Ricordi, Milano 1985.

A. Nocera, Verde Meraviglia: immaginare un nuovo modo di abitare, «Geographies of the Anthropocene», Il Sileno Edizioni, Lago 2021.

J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion, trad. I. F. Saba Sardi, Rusconi, Milano 1978

E.O. Wilson, Il futuro della vita, trad. I. S. Frediani, Codice, Torino 2004.


Note

A proposito del progetto Fragments of Extinction, indico anche il documentario realizzato da David Monacchi, Alessandro d’Emilia e Nika Saravanja, Dusk Chorus, Basato su “Frammenti di Estinzioni”, 2016; la puntata di TEDx Talks Fragments of Extinction: the sound of ecosystems, David Monacchi, TEDxVicenza, 18 dicembre 2017; e il sito ufficiale del progetto, dove è possibile ascoltare alcuni estratti delle registrazioni sonore: https://www.fragmentsofextinction.org/.

Gli altri articoli della serie Arche dell’Antropocene: qui il primo, e qui il secondo.

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Andrea Nocera

è laureato in Storia e in Antropologia. Negli ultimi anni, anche grazie al Master “Futuro Vegetale”, si è avvicinato al mondo delle piante, da cui trae ispirazione per indagare i rapporti umano-non umano e immaginare modi di abitare più integrati.

Oggi lavora nel gruppo di ricerca della Fondazione Futuro delle Città di Firenze, collabora come autore e revisore di testi per Lœscher Editore e altre case editrici ed è co-fondatore dell’Associazione Fungi CollectIF.

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