Arche dell’Antropocene #1

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L’Antropocene è l’epoca geologica attuale, in cui le componenti fisiche, chimiche e biologiche della Terra sono sconvolte dall’azione umana. La continua alterazione degli equilibri ecosistemici sta impoverendo vertiginosamente la più grande ricchezza del pianeta: la biodiversità. Le arche dell’Antropocene tentano di custodirla.

Il cimitero delle specie estinte

La lapide di Antonio Gramsci al Cimitero Acattolico di Roma. Foto La ricerca.

Qualche settimana fa ho trascorso una settimana a Roma, ospite di amici che non vedevo da tempo. Ogni volta che mi reco nella capitale percorro il tradizionale e doveroso itinerario turistico segnato dalle bellezze della Roma imperiale e classica. Questa volta, invece, oltre a dedicarmi a un mirato e ben pianificato tour gastronomico – per cui le mie papille gustative ancora ringraziano – mi sono concentrato su tappe meno note della città, che ancora non avevo avuto modo di conoscere, seppur siano dei capisaldi.

Alloggiavo nei pressi della Piramide di Caio Cestio e, un po’ per la vicinanza geografica, un po’ per curiosità, mi sono concesso una visita al cimitero acattolico che sorge proprio adiacente al monumento. Il cimitero è ancora funzionante, ha iniziato la propria attività nel 1716 e ospita il ricordo di scrittori, pittori, scultori, storici, archeologi, diplomatici, scienziati, architetti e poeti di varie nazionalità, alcuni particolarmente celebri. Non sono solito passeggiare tra lapidi e commemorazioni, forse anche per questo si è trattato di un momento di introspezione e attenzione. Ci si muove con delicatezza in un luogo dove i suoni della città giungono ovattati. In quella quiete, oltre alla visita alla colonia felina che vi abita, mi sono soffermato sui ricordi lasciati dai cari o da estranei a memoria dei defunti. Uno dei commemorati più visitati è Antonio Gramsci, che riposa tra pini, cipressi, allori, camelie, rose selvatiche e mirti. Di fronte alla sua lapide, su alcune pietre sono riportati i messaggi di visitatori:

Prima di invecchiare bisogna diventare Gramsci.

E ancora:

Stanno vincendo gli indifferenti, ma cominceremo a lottare.

Ora, non mi soffermerò sul significato che Gramsci ha avuto nella storia del pensiero del Novecento e che continua ad avere ancora oggi. Vorrei invece concentrarmi sui messaggi che riposano con Gramsci. La prima delle due scritte mi ha colpito immediatamente. Mi è sembrato uno di quei propositi che si pongono per l’anno nuovo. Certo, diventare Gramsci è un impegno piuttosto arduo. Col passare del tempo però la parola “indifferenza”, contenuta nel secondo messaggio, si è fatta spazio strisciando nei miei pensieri. Inizialmente in modo sommesso, quasi volesse passare inosservata e cogliermi di sorpresa, poi all’improvviso ha iniziato a sgomitare prepotentemente e a sbracciarsi per attirare l’attenzione. È così che, per deformazione professionale o per affinità di luoghi, questa frase – su cui sono tornato a riflettere tempo dopo – mi ha catapultato in un altro luogo di sepoltura che avevo visitato anni prima. Un cimitero molto differente da quello acattolico di Roma, o da quelli in cui siamo soliti ricordare i nostri cari: si tratta del Cimitero delle specie estinte.

Ricordo di essermi trovato lì un po’ per caso, in modo del tutto imprevisto. Non ne conoscevo l’esistenza, eppure in Piemonte, poco lontano da Torino, esiste una costruzione simbolica di questo cimitero a scopo didattico-informativo. È un’immagine che avevo riposto da qualche parte nella mia memoria, vi chiedo scusa quindi se le idee a riguardo non sono del tutto nitide. Ricordo però sensazioni di fascino e curiosità miste a una profonda tristezza mentre camminavo leggendo i nomi di tutte quelle specie che non esistevano più e che mai avremmo potuto rivedere. Incontri che non potranno più avvenire – a eccezione di eventuali scenari futuri più o meno pronosticabili – e un’enorme ricchezza andata perduta.

Il cimitero riportava solo una minima parte delle specie una volta viventi che oggi non abitano più il pianeta. Non ci sarebbe spazio per raggrupparle tutte e di molte di loro nemmeno siamo a conoscenza, se ne sono andate prima di conoscerle.

Una rapida e strisciante morìa che, man man che avanza, riempie di silenzio le nicchie di vita una volta abitate. Ecco l’indifferenza, ecco quell’impegno morale e civico catturato sulle pietre di fronte alla tomba di Antonio Gramsci. Ecco forse la più grande crisi del nostro tempo che scivola tacitamente tra le pieghe della società e dell’economia: la sesta estinzione di massa sta avvenendo ogni giorno con conseguenze catastrofiche.

Ma qualcuno, in rifiuto all’indifferenza, ha già iniziato a lottare.

Biodiversità

Prima di raccontarvi le storie di questi ribelli dell’indifferenza, di entrare a curiosare nei loro progetti e intenzioni, ritengo sia necessario inquadrare questa ricchezza che diciamo di stare perdendo.

La biodiversità, da quando c’è vita sulla Terra, è sempre esistita. Il termine però è stato inventato solo nel 1988 dall’entomologo Edward O. Wilson (recentemente venuto a mancare; 1929-2021), uno scienziato che ha dedicato la propria esistenza allo studio e alla scoperta della vita sulla Terra. La Conferenza dell’Onu su ambiente e sviluppo tenutasi nel 1992 a Rio de Janeiro definisce la “biodiversità” come «ogni tipo di variabilità tra gli organismi viventi, compresi, tra gli altri, gli ecosistemi terrestri, marini e altri acquatici e i complessi ecologici di cui essi sono parte; essa comprende la diversità entro specie, tra specie e tra ecosistemi».

La diversità biologica, dunque, riguarda tutta la vita presente sulla Terra e le relazioni che essa stringe con il mondo biotico e abiotico. Questa ricchezza si presenta in tre vesti principali:

  • diversità tra specie. Sulla Terra esistono specie differenti appartenenti ai vari regni di piante, animali, funghi, monera (procarioti, batteri, alghe azzurre) e protisti (organismi unicellulari). Due individui appartengono alla stessa specie se presentano caratteri morfologici o fisiologici comuni e se dalla loro unione discende una prole fertile. Questo primo genere di differenza è quello a cui comunemente ci riferiamo quando pensiamo alla biodiversità: il leccio, la farnia, il cerro, il cedro del Libano così come il pinguino reale, il pinguino imperatore e la tigre di Sumatra appartengono a specie e in alcuni casi anche a famiglie, generi e regni differenti;
  • diversità interna alla stessa specie. Si riferisce alle differenze genetiche presenti all’interno o tra popolazioni appartenenti alla medesima specie. Sulla variabilità genetica lavorano la selezione naturale e artificiale, quella indotta dall’uomo;
  • diversità tra comunità/ecosistemi. Oggi sentiamo spesso parlare di ecosistemi e del valore che hanno per tutti gli esseri viventi. Ma cos’è un ecosistema? In un’area vivono e interagiscono individui appartenenti a specie diverse. L’insieme di questi individui che abitano l’area è detta biocenosi o comunità biologica. Un ecosistema è composto dalla biocenosi e dall’habitat in cui questa comunità vive. La biodiversità quindi comprende anche la varietà di comunità biologiche, di ecosistemi e di relazioni esistenti tra gli elementi che li compongono (biotici e abiotici).

Spiegato così, quello di biodiversità rischia di diventare un concetto tecnico e impersonale, al punto da farci immaginare che forse, in definitiva, non stiamo perdendo un granché, solo un mucchio di contorte definizioni teoriche che ci complicano la vita. Non potrebbe esserci pensiero più sbagliato. Per comprenderlo, però, dobbiamo introdurre un altro concetto, questa volta più poetico ed emotivamente coinvolgente, seppur fondato su basi scientifiche.

Biofilia

Ogni giorno mi concedo una passeggiata di poco meno di un’ora nella campagna vicino a casa. Troppo poco tempo per i miei gusti – un pensiero condiviso probabilmente dal mio cane che continuerebbe volentieri l’investigazione di tracce e odori nascosti nell’erba – ma il dovere incombe e bisogna tornare al lavoro. La camminata offre sempre incontri nuovi e di vecchia data: ci sono i due Ginkgo biloba che fanno capolino sulla strada, i salici piangenti che carezzano terra con le fronde mosse dal vento, il gelso che al finire della primavera crea una scacchiera disordinata di macchie violacee sul sentiero, miste a un odore dolciastro. Poi ci sono le ghiandaie, diverse specie di coleotteri, gli scoiattoli grigi nordamericani, anatre, nutrie, rane, chiocciole, lucciole, gazze, merli e tutto quel mondo di insetti pelosi e mollicci, dai millepiedi ai bruchi, che ancora non ho imparato a riconoscere ma di cui resto incantato a osservare conformazione, movenze e sfumature, pazienza del mio cane permettendo. Dopo anni di frequentazione devo ammettere che ad alcuni di loro sono sinceramente affezionato. Mi sento emotivamente coinvolto riguardo al loro benessere. Altri invece mi incuriosiscono, e tento di osservarne i comportamenti, per quanto possibile. Ho notato, con soddisfazione, che non sono l’unico a prestare attenzione a questa comunità che abita lungo il sentiero. Un giorno stavo passeggiando e, costeggiando il rio, ho visto una signora addentrarsi tra le alte frasche che ornano la sponda. Inizialmente mi sono preoccupato, dal momento che tra il letto del corso d’acqua e la parte superiore della riva si presenta un dislivello di qualche metro. Ad ogni modo la situazione pareva sotto controllo, la donna si muoveva con agilità ed era accompagnata da un’amica, ma continuavo a domandarmi quali fossero le sue intenzioni. Fino a quando non ha esclamato: «Ah ecco le mie paperelle!».

A parte la normale confusione circa la differenza tra anatre e papere, mi ha fatto piacere sentire che qualcun altro avesse a cuore la sorte della coppia di volatili. Ho poi notato anche un piccolo gruppo di persone che si ferma a guardare lo stato di salute delle nuove piante introdotte per la risistemazione dell’argine. Insomma, il sentiero è abitato da una comunità silenziosa ma operosa che interagisce, o meglio, osserva con attenzione le relazioni che si creano e si disfano continuamente lungo il percorso.

Foglie di Ginkgo biloba. In autunno assumono la tipica colorazione giallo oro, creando splendidi tappeti al loro cadere. (Foto dell’autore.)

Nella seconda metà del Novecento, lo psicanalista Erich Fromm ha introdotto un termine che sembra ricondurci ai generi di comportamento appena descritti: quello di “biofilia” (in Psicoanalisi dell’amore: necrofilia e biofilia nell’uomo). Fromm si riferiva all’amore degli esseri umani per il vivente, per tutto ciò che cresce ed è vivo. Qualche tempo dopo, l’espressione venne ripresa da Edward Wilson che riportò il concetto agli studi sulla vita e sull’evoluzione biologica del comportamento sociale (sociobiologia). Per Wilson la biofilia si riferisce all’«innata tendenza a concentrare l’attenzione sulle forme di vita e su tutto ciò che le ricorda, e in alcuni casi ad associarvisi emotivamente» (Wilson, 2004). Gli esseri umani amano la vita, ciò che è vivente, gli altri organismi e tutto ciò che riuniamo sotto il termine generico di Natura, che spesso collochiamo in posizione diametralmente opposta a un Noi, individui appartenenti a un genere umano fuori dalla natura. Oggi la biofilia, il bisogno di natura dell’uomo, di immergersi in essa, di relazionarsi, viverla, vederla, toccarla e amarla è sempre più sostenuto da studi scientifici che ci informano dei molteplici benefici che possiamo trarre da una camminata in un bosco, dall’interazione con alberi o altri esseri viventi, dalla costruzione di ambienti che inglobino la natura al proprio interno.

La biofilia è l’amore, l’affiliazione emotiva che nutriamo verso quella ricchezza biologica di cui parlavamo in precedenza e che stiamo velocemente e irrimediabilmente perdendo in favore di luoghi sempre più grigi, afoni, inquinati e uniformi.

Il valore di esistere

A questo proposito, prima di addentrarmi davvero nelle vicende di chi lotta per impedire il foraggiamento del cimitero delle specie estinte sulla Terra, vorrei considerare ancora due aspetti. La biodiversità viene calcolata attraverso indicatori, indici e valori molteplici. Due di questi valori mi sembrano di particolare interesse all’interno di questo scenario.

Il primo appartiene a una dimensione più materiale ed economica. Come sappiamo, praticamente tutto ciò di cui ci serviamo per vivere deriva da altri organismi viventi, risorse naturali e così via: cibo, farmaci, vestiti, energia e molto altro. Il valore di opzione di una specie si riferisce alla sua capacità nel futuro di procurare benefici economici agli esseri umani. Di molte specie non conosciamo ancora i vantaggi che possono offrire o non siamo in grado di usufruirne al momento. Per esempio, alcune piante e funghi – che ancora non conosciamo, non abbiamo debitamente studiato o non siamo in grado di approcciare per limiti tecno-scientifici – potrebbero avere enorme valore nella cura di malattie che oggi non siamo capaci di contrastare. È già accaduto in passato che alcune specie acquisissero improvvisamente valore perché ne veniva scoperto un possibile utilizzo.

Il Ginkgo biloba, una specie arborea originaria della Cina, fino a poco tempo fa era impiegato solamente nella medicina tradizionale cinese. Oggi esiste un giro d’affari di milioni di dollari legato alle case farmaceutiche che utilizzano le sue proprietà per problemi circolatori, cognitivi e cardiaci. L’estinzione di specie conosciute o ancora da scoprire, dunque, preclude questo tipo di possibilità.

Il secondo valore che tengo a sottolineare, quello che penso – come altri – debba porsi come stella polare della conservazione della biodiversità, è il valore intrinseco di tutti gli esseri viventi. Ogni specie ha diritto di esistere in quanto vivente, singolarità e particolarità di un sistema meraviglioso e complesso come quello terrestre. Il valore delle specie e degli ecosistemi che compongono la biodiversità è indipendente dai bisogni umani o dal loro tornaconto. Dalle specie con cui ci sentiamo più in empatia – le cosiddette “specie bandiera” – a quelle meno studiate e banalmente “belle”, ognuno ha valore in quanto esistente. Ogni specie è interdipendente, interagisce con le altre e determina la stabilità e il benessere di un ecosistema. L’essere umano deve salvaguardare e custodire questa enorme ricchezza.

(continua)


Bibliografia

E. Fromm, Psicoanalisi dell’amore: necrofilia e biofilia nell’uomo, Newton Compton, Roma, 1971.

R. Primack, L. Carotenuto, Conservazione della natura, Zanichelli, Bologna, 2003.

E.O. Wilson, Il futuro della vita, trad. I. S. Frediani, Codice, Torino, 2004.

E.O. Wilson, Biofilia. Il nostro legame con la natura, trad. I. C. Sborgi, Piano b, Prato, 2021.

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Andrea Nocera

è laureato in Storia e in Antropologia. Negli ultimi anni, anche grazie al Master “Futuro Vegetale”, si è avvicinato al mondo delle piante, da cui trae ispirazione per indagare i rapporti umano-non umano e immaginare modi di abitare più integrati.

Oggi lavora nel gruppo di ricerca della Fondazione Futuro delle Città di Firenze, collabora come autore e revisore di testi per Lœscher Editore e altre case editrici ed è co-fondatore dell’Associazione Fungi CollectIF.

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