“Antologia di Spoon River”, esercizi di lettura #6: traduzioni a confronto

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Dal 6 dicembre 2022 è disponibile la traduzione italiana dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters che ho curato per La nave di Teseo: la quindicesima, a quanto mi risulta, a cominciare da quella storica di Fernanda Pivano del 1943-47, e senza contare le innumerevoli riedizioni, spesso parziali, destinate alle scuole, alle edicole ecc. La domanda non poteva essere evitata, e infatti mi è stata posta, anche pubblicamente: ce n’era proprio bisogno?

Credo di sì, per almeno due ragioni, che a me paiono buone. La prima, che chi abbia soltanto sfogliato il mio libro già conosce, è che oltre alla traduzione l’edizione che ho curato offre al lettore, per la prima volta, un commento analitico a ogni singola poesia. La seconda, permettetemi di esporla con una similitudine: nei negozi di musica e anche in rete sono disponibili ben più di quindici diverse interpretazioni della Quinta sinfonia di Beethoven o della Traviata di Verdi o dei Notturni di Chopin, e non ci si stupisce se qualcuno decide di reinterpretare per l’ennesima volta queste opere in una sala da concerto, in un teatro o in una nuova incisione. Mi appello all’autorità di George Steiner, che in Dopo Babele propone la metafora della traduzione come esecuzione di uno spartito musicale, per sostenere che la traduzione è un’attività ermeneutica, e quindi i classici possono e devono essere continuamente reinterpretati. Potranno esistere traduzioni migliori di altre, ma nessuna potrà aspirare a essere considerata “definitiva”: ci sarà sempre spazio per nuove letture, nuove esecuzioni, nuove proposte di lettura.

Questo tuttavia, almeno per me, non chiude il discorso: mi sembra che sia necessario, quando le traduzioni si moltiplicano come nel caso di Spoon River in un lasso di tempo tutto sommato assai breve, accompagnare la traduzione da qualche riflessione, non voglio dire da qualche giustificazione, per rendere partecipi i lettori dei criteri che hanno ispirato il lavoro e di alcune scelte di fondo. Perché appunto interpretare vuol dire scegliere – e siccome nella traduzione, e soprattutto nella traduzione poetica, qualcosa si è costretti sempre a perdere (perché nessuna lingua è mai sovrapponibile a un’altra, perché se anche lo fossero il passaggio da una lingua all’altra non permette di rispettare la sonorità del testo di partenza, il ritmo, le rime, e infine perché nella traduzione si perdono innumerevoli connotazioni, associazioni, echi e rimandi che le parole portano segretamente con sé nella lingua di partenza e non in quella di arrivo) – per tutti questi motivi il lavoro del traduttore consiste in certa misura nello scegliere cosa perdere, cioè nel decidere a cosa si può rinunciare, per quanto a malincuore, e cosa invece consideriamo irrinunciabile e imperdibile, e perché.

Le traduzioni invecchiano?

Prima di entrare nel vivo del confronto, è necessario sgombrare il campo da un malinteso. Si dice e si ripete, non so quanto meditatamente, che le traduzioni invecchiano. Presa in assoluto, la frase è lapalissiana: tutto invecchia, anche gli originali. Quando ben l’abbiamo ribadito – e allora? I libri sono come il vino: quelli buoni (originali o tradotti) invecchiano bene, altri vanno in aceto.

Ora, io credo che le traduzioni di epoche diverse possano tranquillamente coesistere, con funzioni diverse. Nella mia libreria l’Iliade di Rosa Calzecchi Onesti (1950) e quella di Maria Grazia Ciani (2003) vivono side by side in perfect harmony, come direbbe Paul McCartney: fianco a fianco senza nessun problema. Cosa diversa è la versione di Vincenzo Monti (che completa il mio personale scaffale ed è datata 1810), perché in questo caso, essendo trascorsi non decenni ma secoli, la funzione della traduzione è cambiata: se in origine la si leggeva per conoscere Omero, oggi la leggiamo come capolavoro del Neoclassicismo, perché nel frattempo sono cambiati non solo i gusti, ma i parametri critici con cui affrontiamo l’epica greca. Nel 1810 Omero era un autore assai diverso da quello che conosciamo noi, ci si vedeva altro, ci si cercava altro, e si trascurava ciò che a noi sembra invece di fondamentale importanza.

Insomma, col tempo, certo, anche le traduzioni migliori invecchiano, nel senso che diventano “superate”, come tutte le interpretazioni, perché gli studi letterari progrediscono, anche se il loro non è il progresso delle scienze e della tecnologia, fanno dei passi avanti, checché se ne dica, e vecchie questioni si risolvono, altre nuove ne sorgono. Alcune traduzioni vengono perciò dimenticate, altre cambiano status e diventano a loro volta dei classici, che si leggono non più come strumento per avvicinare l’originale, ma come classico tout court: l’Iliade di Monti è il caso forse più famoso, ma le si potrebbero affiancare l’Odissea di Pindemonte, l’Eneide di Annibal Caro, il Viaggio sentimentale di Foscolo, i Lirici greci di Quasimodo, l’Ossian di Cesarotti e così via.

Ma è ora di tornare a Masters e di concludere questa digressione leggendo Dorcas Gustine, la poesia n. 43 dell’Antologia di Spoon River, nella versione di Fernanda Pivano. Ecco l’incipit:

Non ero amato dagli abitanti del villaggio,
tutto perché dicevo il mio pensiero,
e affrontavo quelli che mancavano verso di me
con chiara protesta…

Dal testo originale non si ricavano indizi sul genere di chi parla, né il nome Dorcas poteva illuminare una lettrice italiana degli anni Quaranta del Novecento; oggi però sappiamo con certezza che si tratta di una donna. Non possiamo certo imputare alla traduttrice questo errore (che peraltro si sarebbe potuto correggere già negli anni Settanta), ma è evidente che si tratta di un elemento decisivo: altro è che un uomo rivendichi il suo carattere, diciamo così, troppo loquace, cosa ben diversa è che a farlo sia una donna, in un’epoca in cui le leggi sancivano la sua inferiorità giuridica e la mentalità dominante esigeva dal gentil sesso silenzio e sottomissione. Facendo di Dorcas un uomo, si è involontariamente perso il valore di ribellione (e quindi la “funzione sociale”) del suo atteggiamento.

Questo caso, e altri consimili, mi spingono a dire che, come per l’Iliade di Monti, la traduzione mastersiana di Fernanda Pivano ha ormai cambiato funzione: fatta salva la libertà di tutti, non la consiglierei più a chi vuole avvicinare Masters – ma senza dubbio chi dovesse studiare la storia della casa editrice Einaudi negli anni di Pavese, l’importanza che ebbe nell’Italia degli anni Trenta e Quaranta la “scoperta” della letteratura americana, la fascinazione che l’Antologia esercitò su almeno due generazioni (la seconda grazie alla mediazione musicale di De André) ecc. ecc. non potrà prescindere da quell’opera.

Amanda Barker nella traduzione di Porta

Un caso assai diverso, che non riguarda come in Dorcas Gustine il progresso delle nostre conoscenze, ma il diverso modo in cui si legge il testo originale, cioè finalmente le questioni di interpretazione di cui dicevo sopra, è offerto da un altro traduttore celebre di Masters, Antonio Porta, pubblicato prima da Mondadori e oggi dal Saggiatore. Mi servirò anche in questo caso di un esempio, Amanda Barker (la poesia n. 8). Ecco il testo originale:

Henry got me with child,
Knowing that I could not bring forth life
Without losing my own.
In my youth therefore I entered the portals of dust.
Traveler, it is believed in the village where I lived

That Henry loved me with a husband’s love,
But I proclaim from the dust
That he slew me to gratify his hatred.

Ed ecco la traduzione di Porta, datata 1987:

Henry mi ha messo incinta,
sapeva che non potevo portare a termine la gravidanza
senza perdere la vita.
Dunque ancora giovane
ho varcato i portali di polvere.
Oh passeggero, al paese dove ho vissuto credono
che Henry mi amasse di amore coniugale,
ma io proclamo dalla polvere
che lui mi ha uccisa
per gratificare il suo odio.

Che cosa non mi persuade in questa versione? Osserviamo il testo inglese: la poesia è in versi liberi e senza rime, tuttavia la parola centrale del testo, l’appello al “Traveler”, scandisce una divisione in due “strofe” di quattro versi ciascuna. Lo conferma il fatto che nella prima quartina (permettetemi di chiamarla così per brevità), si delinea una contrapposizione fra “life”, vita (v. 2), e “dust”, polvere (trasparente metafora della morte, v. 4) – parole che sono poste in evidenza dalla collocazione in punta di verso, ma soprattutto dalla ripresa, variata, nella seconda quartina: “I lived”, vissi (v. 5), e ancora “dust” (v. 7).

Non siamo di fronte a un gioco linguistico fine a se stesso: dal modo in cui si esprime, il lettore ricava indicazioni sulla psicologia della protagonista, sulla schematicità del suo modo di intendere la vita e di leggere il mondo; Amanda “abbaia” la sua protesta (se vogliamo considerare “parlante” il suo cognome, dal verbo “to bark”), ma non è una vittima innocente come vorrebbe farci credere, è una donna dalla mente piccina, una rigida manichea, e il confronto con i personaggi solari e luminosi che si incontreranno nel prosieguo dell’Antologia non farà che avallare questa impressione. Se per caso restassero dei dubbi, ecco infatti una seconda antitesi, quella fra “love”, amore (v. 6), e “hatred”, odio (v. 8), che conferma il suo modo schematico e semplicistico di leggere la vita e il mondo.

Porta, come si vede, rispetta la divisione in due parti, anzi aggiunge il sospiro “Oh” a sottolineare l’importanza di quel vocativo. Non rispetta però la collocazione delle parole chiave, che infatti (tranne “polvere”) risultano nascoste all’interno dei versi, in posizione non rilevata. Inoltre, passare da quattro a cinque versi per strofa non è (se la mia analisi regge) una variazione da poco: è il passaggio dal modo di esprimersi “quadrato” di Amanda a una modalità espressiva più duttile e aperta. Ecco dunque la mia proposta di traduzione:

Henry mi mise incinta,
Sapendo che non potevo dare alla luce una vita
Senza perdere la mia.
Nella giovinezza varcai dunque i cancelli di polvere.
Viandante, si crede nel paese dove vissi

Che Henry da buon marito mi amò,
Ma io proclamo dalla polvere
Che mi uccise per soddisfare il suo odio.

Purtroppo non abbiamo la possibilità di chiedere a Porta le ragioni delle sue scelte, ma credo che in esse abbia operato (ancora negli anni Ottanta) un ricordo della sua antica militanza nel Gruppo 63, cioè fra gli esponenti di una poetica neoavanguardistica che privilegiava un oltranzistico sperimentalismo e la programmatica delusione dell’orizzonte di attesa del lettore. Masters è un autore che, in questo senso, si presta a fraintendimenti: già nel 1915, prima della pubblicazione in volume dell’opera, Ezra Pound aveva esaltato il nuovo poeta, paragonandolo a Villon, nientemeno, e a Whitman: “Finalmente il West americano ha prodotto un poeta abbastanza forte da affrontarne il clima, capace di trattare la vita direttamente, senza giri di parole, senza vuote frasi sonore. Pronto a dire quello che deve dire, e a tacere quando l’ha detto”. E ancora: “Nell’Antologia di Spoon River troviamo la scrittura diretta, la lingua schietta […] le parole di un uomo che sta dicendo qualcosa e non sta solo cercando polisillabi decorativi”. Lo stesso Pound, però, a una lettura più attenta si era ricreduto – senza dubbio cogliendo, dietro alla mancanza di rime, dietro alle soluzioni “prosastiche” e al linguaggio “basso”, la presenza di un classicismo di fondo che non poteva apprezzare. La mia impressione è che Porta, nella sua traduzione, tenda a negare questa componente classicista, che emerge com’è ovvio non solo nei frequenti riferimenti alla mitologia classica, ma nella ricerca di simmetrie, di forme chiuse, di armonia costruttiva; e privilegi viceversa gli elementi whitmaniani, che pure sono presenti in Masters, ma assai attenuati e “regolarizzati” rispetto alla sovrana anarchia del modello ottocentesco. Da qui (ripeto: è un’ipotesi interpretativa, la mia) la scelta di aggiungere due versi, creando qualche enjambement, e di nascondere antitesi e simmetrie interne.

Lucius Atherton nella traduzione di Terrinoni

Mi soffermo su un altro esempio di contrasto interpretativo leggendo la traduzione di Enrico Terrinoni, pubblicata da Feltrinelli nel 2018, di uno dei testi più complessi e interessanti dell’Antologia, l’epitaffio intitolato a Lucius Atherton, il Don Giovanni del paese. Ecco l’originale inglese:

When my moustache curled,
And my hair was black,
And I wore tight trousers
And a diamond stud,
I was an excellent knave of hearts and took many a trick.
But when the gray hairs began to appear—
Lo! a new generation of girls
Laughed at me, not fearing me,
And I had no more exciting adventures
Wherein I was all but shot for a heartless devil,
But only drabby affairs, warmed-over affairs
Of other days and other men.
And time went on until I lived at Mayer’s restaurant,
Partaking of short-orders, a gray, untidy,
Toothless, discarded, rural Don Juan…
There is a mighty shade here who sings
Of one named Beatrice;
And I see now that the force that made him great
Drove me to the dregs of life.

e la mia traduzione:

Quando avevo i baffi arricciati,
E i capelli neri,
E i pantaloni aderenti,
E un diamante all’occhiello,
Ero un eccellente rubacuori e me la giocavo bene.
Ma quando i capelli grigi cominciarono a mostrarsi –
Ecco! una nuova generazione di ragazze
Rise di me, senza temermi,
E io non ebbi più avventure emozionanti
In cui rischiavo una pallottola con diabolica nonchalance,
Ma solo storie squallide, storie riscaldate
Di altri tempi e di altri uomini.
E a poco a poco mi ridussi a vivere nella locanda di Mayer,
Prendendo il menù del giorno, un grigio, sciatto,
Inutile, sdentato Don Giovanni di campagna…
C’è un’ombra possente qui che canta
Di una chiamata Beatrice;
E io capisco adesso che la forza che ha reso lui grande
Ha trascinato me nella feccia della vita.

Dopo una esistenza tutta dedita alla ricerca del piacere sensuale più immediato e superficiale, che si è spenta tristemente man mano che sopraggiungeva la vecchiaia, solo confrontando da morto la sua concezione dell’amore con quella di Dante (iper-spiritualizzata quanto la sua era fisica e carnale), Lucius comprende il proprio errore. E come ci fa comprendere di aver compreso? Organizzando il suo resoconto intorno al tema del tempo: “When”, quando, è la prima parola della poesia, viene ripetuta all’inizio del secondo periodo (v. 6), e il concetto torna poi ossessivo, in maniera diretta e indiretta: “new generation”, “no more”, “other days”, “And time went on”… Nei quattro versi finali, una sorta di epilogo, si passa al qui e ora: “here” e “now” indicano la condizione dell’anima dopo la morte – ed è paradossale che Lucius, che ha vissuto un’esistenza tutta risolta nel presente, nel soddisfacimento immediato degli istinti, usi questi avverbi per comunicarci la sua scoperta di una prospettiva opposta, che proietta l’amore sul piano dell’eterno.

Terrinoni, di cui riporto i primi versi, elimina proprio quelle che a me paiono le due parole-chiave del testo, i “when” che aprono in anafora i primi due periodi e che in qualche modo indirizzano l’attenzione del lettore:

Coi miei baffi arricciati,
E i capelli neri,
I pantaloni attillati
E un diamante al colletto,
Ero uno splendido fante di cuori, e sapevo il fatto mio.
Ma poi apparvero i primi capelli grigi –
Ecco qua! Una nuova generazione di ragazze
Rideva di me, non mi temeva…

Le traduzioni, voglio ribadirlo, si affiancano, non si sostituiscono, né si “superano”. Pivano, Porta e Terrinoni (con Ciotti Miller, Ballerini e altri) stanno side by side sullo stesso scaffale della mia libreria. Ma spero di aver mostrato con queste brevi note, se non che della mia traduzione c’era bisogno (questo lo decreteranno i lettori e il tempo), almeno in che cosa consiste una parte del lavoro di un traduttore letterario.

(continua)

Leggi il primo articolo, su Minerva Jones.

Leggi il secondo articolo, su Johnny Sayre.

Leggi il terzo articolo, su Lois Spears e Willard Fluke

Leggi il quarto articolo, su Immanuel Ehenhardt

Leggi il quinto articolo, su Thomas Rhodes

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Alberto Cristofori

ha organizzato nel 2015 “Milano per Dante”, una lettura integrale della Commedia affidata a 100 esponenti della società civile milanese. È autore di manuali scolastici e traduttore. Ha pubblicato con Bompiani un romanzo e una raccolta di racconti, e dirige una casa editrice per bambini e ragazzi (Albe
Edizioni).

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