Una poesia “filosofica”
Vorrei affrontare qui una questione di cui solo in anni relativamente recenti si è occupata la critica mastersiana, da quando cioè si è incominciato a riconoscere che l’Antologia di Spoon River è un romanzo lirico che narra la ricerca spirituale e filosofica dell’autore, e non una serie di ritratti finalizzati alla rappresentazione naturalistica e/o satirica della provincia americana. I protagonisti degli epitaffi, per quanto spesso ispirati a figure reali, sono in verità le maschere attraverso cui il poeta ci accompagna nella sua quête – e in questo percorso di ricerca, che è innanzitutto una ricerca di sé e della propria missione di poeta, c’è spazio anche per la critica sociale, e per la riflessione storica, in quanto tale missione viene configurandosi anche come una missione civile. Ma questa tematica sociale e civile assume il suo pieno significato all’interno di un quadro di riferimento più ampio, che è appunto filosofico e spirituale – e lo conferma il fatto che, man mano che il lettore avanza nel libro, le vicende che si potrebbero scambiare per tranches de vie cronachistiche o autobiografiche cedono sempre più spesso e sempre più decisamente a riflessioni astratte, metafisiche, e si moltiplicano i rimandi alle grandi figure di pensatori (religiosi e non) che Masters considera i suoi punti di riferimento fondamentali.
La poesia intitolata a Immanuel Ehenhardt, collocata fra le ultime del volume (n. 216 su 246), sembra presentare una sorta di percorso ideale, quasi una “spiegazione” che, giunti a questa altezza del cammino, l’autore offre ai lettori. Ecco il testo, nella traduzione italiana:
Cominciai con le conferenze di sir William Hamilton.
Poi studiai Dugald Stewart,
E poi John Locke sull’Intelletto,
E poi Descartes, Fichte e Schelling,
Kant e poi Schopenhauer –
Libri che prendevo in prestito dal vecchio giudice Somers.
Tutti letti con beato fervore,
Sperando che fosse riservato a me
Di afferrare per la coda l’ultimo segreto
E tirarlo fuori dal suo nascondiglio.
La mia anima si innalzò diecimila miglia
E solo la luna sembrava un poco più grande.
Poi ricaddi, felicemente terreno!
Tutto grazie all’anima di William Jones
Che mi mostrò una lettera di John Muir.
In estrema sintesi: Immanuel Ehrenhardt incomincia studiando gli esponenti dell’empirismo inglese (Hamilton, Stewart, Locke), a cui seguono i massimi autori del razionalismo francese (Descartes) e dell’idealismo tedesco (Fichte e Schelling), e approda infine ai filosofi che hanno tentato la sintesi fra le due correnti contrapposte (Kant e Schopenhauer). Ciò permette alla sua anima di innalzarsi fino a contemplare la terra da una distanza siderale, ma a questa esperienza fa seguito un lieto ritorno sulla terra stessa, cioè alla concretezza della realtà materiale, simboleggiato dai naturalisti Jones e Muir (il primo ispirato alla figura del naturalista William Strode, come rivela l’epitaffio di cui sarà protagonista poco più avanti; il secondo personalità di rilievo della scienza e dell’ambientalismo ottocenteschi).
L’epitaffio conferma evidentemente, innanzitutto, che la poesia di Masters si nutre di pensiero. Quale, non è altrettanto evidente, qui. Secondo John Hallwas, autore nel 1992 per la University of Illinois Press dell’edizione americana ancor oggi più autorevole dell’Antologia di Spoon River, il nome Immanuel (= “Dio con noi”) alluderebbe al panteismo di Spinoza, che costituirebbe il fondamento filosofico dell’opera. Ma, pur riconoscendo per molti altri aspetti il valore imprescindibile del lavoro di Hallwas, questo è uno dei due punti su cui mi permetto di dissentire da lui (l’altro è la sua costante interpretazione degli epitaffi alla luce della cronaca di Lewistown e della biografia di Masters, che a me pare un impoverimento, come ho già avuto modo di spiegare): il nome Immanuel, a mio avviso, richiama innanzitutto Kant; e non si capisce perché, in questo elenco di filosofi, come in tutta l’Antologia, il nome di Spinoza sia affatto assente, se davvero fosse così decisivo.
Spiritismo e spiritualismo
Che l’esperienza di Immanuel abbia qualcosa di religioso è indubbio – al lettore italiano non mancheranno di risuonare, senza che vi siano citazioni puntuali, luoghi danteschi che raccontano un’esperienza simile e che forse risuonavano, subliminali, anche all’orecchio di Masters (di Dante attento lettore): “Forse seimila miglia di lontano/ ci ferve l’ora sesta…”, “L’aiola che ci fa tanto feroci, / volgendom’io… / tutta m’apparve…” e simili.
Ma vorrei concentrare l’attenzione sul distico finale: è stata “l’anima di William Jones” a mostrare al protagonista la lettera del grande naturalista, che gli ha dischiuso i cammini della conoscenza e della verità. È un’espressione curiosa, che credo rimandi alle pratiche spiritistiche, molto di moda tra fine Ottocento e inizio Novecento (in Italia ne parlano fra gli altri, per limitarci ai nomi che si studiano a scuola, Capuana, Pirandello e Svevo; ma di medium, sedute spiritiche, colloqui con i morti e simili si tratta in un’infinità di opere dell’epoca, letterarie e filosofiche, e i fenomeni che oggi definiamo paranormali erano presi sul serio da intellettuali al di sopra di ogni sospetto, da Bergson a Eliot…).
A conferma di questa lettura, un altro epitaffio dell’Antologia, il n. 230, ha come protagonista proprio una medium, Zilpha Marsch, sconvolta dall’improvvisa rivelazione delle proprie facoltà, che ne fanno una diversa e la escludono quindi dalla serena comunione con gli altri esseri umani. Ora, parlare con i morti è la prerogativa, prima che dei medium, dei poeti. L’Antologia stessa nasce dalla capacità dell’autore di “evocare gli spiriti” e farli parlare. Ma quello che più ci interessa in questo momento è che lo spiritismo, e più in generale il tipo di esperienza che si delinea in questi versi di Immanuel Eherenhardt, mal si concilia con il rigoroso materialismo di Spinoza, che esclude senza esitazioni l’immortalità dell’anima.
La linea Swedenborg-Nietzsche
Il nome di Spinoza non è però assente negli scritti con cui Masters ha commentato il proprio capolavoro e ha tentato di indirizzarne la lettura. Spinoza è infatti uno dei pensatori che influenzano l’autore più amato da Masters, e cioè Goethe.
Ecco quello che scrive Masters stesso nella Genesi di Spoon River, un articolo datato 1933 (la traduzione è di P. Montorfani, il Saggiatore, Milano 2016):
Goethe per me è stato per tutta la vita una fonte di ammirazione e di interesse. Shelley, Byron, Keats, Swinburne, persino lo stesso Wordsworth, li ho dimenticati da tempo – non così Goethe.
Non solo: nell’edizione definitiva dell’Antologia, quella del 1916, Masters aggiunge un Epilogo teatrale in versi chiaramente ispirato alla famosa Notte di Valpurga del Faust – un testo trascurato come inessenziale nelle prime edizioni italiane (e anche in alcune più recenti), che è invece di fondamentale importanza, al di là della sua mediocre riuscita artistica, perché racconta la creazione dell’uomo e la caduta nel peccato mescolando mitologia ebraica, mitologia indiana e mitologia norrena (accanto a Dio, infatti, agiscono tre spiriti “diabolici” che rimandano a queste diverse tradizioni: Belzebù, Yogarindra e Loki). Il sincretismo caratterizza la religiosità di Masters e viene ribadito in più occasioni: Cristo viene accostato ora a Buddha, ora a Socrate, il Vangelo e le Upanishad sono fonti di verità poste sullo stesso piano.
Che cosa c’entra tutto questo con Spinoza? Sicuramente poco. C’entra molto, invece, con Goethe. Goethe è un poeta, ma anche un pensatore e uno scienziato, che si colloca in polemica antitesi rispetto alla cultura dominante del suo tempo, quella (chiedo scusa per la brutale semplificazione) dell’illuminismo filosofico e del materialismo scientifico – Kant e Newton. Goethe guarda al panteismo di Spinoza, certo, ma anche all’alchimia rinascimentale e, ciò che più importa ai fini del nostro discorso, al misticismo di Emanuel Swedenborg – figura oggi quasi dimenticata, se non da qualche esigua minoranza di antroposofi e di omeopati, ma decisiva per tutto l’Ottocento, da Goethe appunto a Schopenhauer (il primo pensatore, già nel 1819! a inserire l’induismo nel suo “sistema”), da Baudelaire (che a Swedenborg si ispira per le celebri “corrispondenze”) a Nietzsche (che è il filosofo alla moda, insieme ai trascendentalisti americani, negli anni della formazione di Masters).
Una rapida verifica
Come Goethe, come Schopenhauer, Masters è affascinato dalla commistione fra oriente e occidente e più in generale da uno spiritualismo sincretistico e aperto al paranormale. Nell’ultima parte dell’Antologia di Spoon River (quella meno frequentata dai lettori: lo rivela qualsiasi veloce indagine online, nonché per esempio il fatto che delle nove canzoni del famoso album di De André solo Un ottico sia tratta da una poesia della seconda metà della raccolta, la n. 178, collocandosi tutte le altre “ispiratrici” entro i primi cento testi del libro) questi temi assumono un’importanza crescente. A conferma di ciò, citerò un’ultima poesia, fra le molte che sarebbe necessario leggere per approfondire questo aspetto dell’opera. È quella intitolata a Judson Stoddard (n. 239):
In cima a una montagna, al di sopra delle nubi
Che scorrevano come un mare ai miei piedi,
Io dissi quella vetta è il pensiero di Buddha,
E quella è la preghiera di Gesù,
E questa è il sogno di Platone,
E quella laggiù la musica di Dante,
E questa è Kant e questa è Newton,
E questa è Milton e questa è Shakespeare,
E questa la speranza di Santa Madre Chiesa,
E questa – be’, tutte queste vette sono poesie,
Poesie e preghiere che bucano le nubi.
E io dissi: “Cosa se ne fa Dio di montagne
Alte quasi fino al cielo?”
Ciascuna delle “vette” indicate da Stoddard rappresenta una conquista spirituale: Buddha, Gesù, Platone, Dante e gli altri spiriti magni “hanno raggiunto l’immortalità̀ grazie alla forza del loro intelletto”, commenta Hallwas, “approfondendo l’intuizione della verità. Le vette che si innalzano ‘quasi fino al cielo’ simboleggiano la comunità eterna di questi individui. Fra loro c’è ‘la speranza di Santa Madre Chiesa’ [che] rappresenta l’intuizione della realtà primigenia resa possibile alle persone comuni, dotate di capacità intellettuali molto minori”.
Il richiamo iniziale a Elevazione di Baudelaire: «Al di sopra degli stagni, al di sopra delle valli, / delle montagne, dei boschi, delle nubi, dei mari…», confermato dalle coincidenze lessicali (montagne, nubi, mari) è fondamentale: la lirica di Baudelaire è un’esaltazione della capacità della mente di elevarsi al di sopra della realtà materiale, lasciandosi alle spalle noie e dolori, i pesi della vita, per slanciarsi verso campi luminosi e sereni, libera e felice. L’elevazione di Judson Stoddard lo porta a riconoscere il valore sacro della poesia (poesia-preghiera che “buca le nubi”), ma si conclude con una domanda in sospeso, un dubbio metafisico.
La risposta si trova forse nell’ultimo epitaffio della raccolta, in cui Masters rinuncia finalmente a ogni maschera e traccia il proprio autoritratto e in cui soprattutto richiama il mito di Apollo e Dafne, chiarendo il valore sacro della parola poetica, chiave di accesso a un mondo “altro” rispetto a quello dell’esperienza quotidiana.
Conclusione provvisoria
Insomma, avvicinandosi alla fine del libro, Masters propone ai suoi lettori nuove e più complesse dichiarazioni di poetica, che escludono ogni possibilità di lettura dell’opera in chiave di realismo sociale e di satira dei costumi: il poeta è una sorta di medium, che frequenta il mondo dei morti e trasmette ai lettori le “vibrazioni” o le “visioni” (parole-chiave ricorrenti nell’Antologia) di cui ha fatto esperienza – e in questo modo assolve la sua funzione civile. La poesia ha un valore sacro, in quanto ci consente di rompere il velo dell’illusione e di attingere a una più alta consapevolezza della condizione umana, contemplando la realtà con distacco. È questa la saggezza che contraddistingue gli spiriti illuminati.
Non il rigoroso panteismo spinoziano, ma la linea Swedenborg-Goethe-Schopenhauer (quest’ultimo quasi certamente mediato da Nietzsche) è alla base di questa riflessione. Hallwas nel suo studio attribuiva quindi eccessiva importanza a Spinoza, che è solo un aspetto del goethismo di Masters; e trascurava il peso degli elementi induisti e buddisti, in particolare la teoria della metempsicosi e il concetto di Nirvana, che emergono in vari epitaffi e nel già citato Epilogo della raccolta.
(continua)
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