Anniversari: “L’ora di tutti” di Maria Corti

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Vent’anni fa, il 22 febbraio 2002, moriva nella sua Milano Maria Corti: filologa, semiologa, storica della lingua, animatrice della Scuola pavese di critica letteraria insieme a Cesare Segre, D’Arco Silvio Avalle e Dante Isella. Sua l’idea del Fondo Manoscritti di Autori Moderni e Contemporanei, che è dal 1968 un tesoro preziosissimo, costituito a cominciare dai doni che la studiosa offrì all’Università di Pavia.

 

L’ora di tutti ci porta in un Salento di fine quindicesimo secolo, verisimile in virtù degli studi che l’autrice dedicò alla cultura del Regno di Napoli: Otranto vi è ritratta al culmine della sua tragica disfatta attraverso le voci di cinque suoi abitanti, sorpresi dall’assalto dei Turchi di Akmet Pascià. Il romanzo ebbe successo e certamente consolidò il rapporto tra la scrittrice e la terra d’Otranto, che fu per lei una seconda patria e da cui fu accolta con simpatia e devozione che perdurano. Il legame con il Salento, del resto, era iniziato quando d’estate Maria raggiungeva a Maglie il padre Emilio, architetto e ingegnere, e si consolidò da adulta con la frequentazione del gruppo di intellettuali e letterati che a Lucugnano componevano l’Accademia salentina, fondata nel 1948 dai poeti Girolamo Comi, Oreste Macrì e Michele Perri.
Sul finire degli anni Quaranta, il barone Girolamo Comi apriva la propria casa e la propria biblioteca a poeti e pensatori, trasformando questo lembo periferico d’Italia in un centro di cultura internazionale. Intensi scambi epistolari provano che Maria Corti fu presto parte attiva dell’Accademia e favorì la nascita della rivista “L’albero”, su cui pure scrisse.
Per un fortunato capriccio del destino Lecce fu anche la sua prima cattedra universitaria di storia della lingua, proprio nell’anno d’uscita de L’ora di tutti. Alla base del romanzo, troveremo dunque le fonti antiche dei fatti d’Otranto, ma anche la conoscenza diretta dei luoghi e della gente, «Otranto con le sue memorie e leggende, i sogni di vita e la irripetibile meraviglia del morire, i nomi dei decapitati scritti su una lapide al colle della Minerva, le ossa dei poveri pescatori racchiusi nelle bacheche della cattedrale»[1].

Una Spoon River mediterranea

Come nella Spoon River di Edgar Lee Masters si arriva al tempo e al luogo attraverso le testimonianze di chi è morto e racconta tutta la città narrando di sé. A cinque personaggi d’invenzione è affidata la memoria dei “quattrocento”, mentre il narratore di primo grado, alter ego dell’autrice in veste maschile, si ritrae subito dopo l’introduzione: è colui che, camminando tra le antiche pietre, percepisce i sospiri di chi le ha abitate in un tempo lontano.
Ma veniamo ai personaggi: Colangelo pescatore è il primo a distinguere all’orizzonte “la cosa” e riferisce il turbamento della scoperta: «è certo che quando la curva lama del coltello turco m’entrò fra le costole sulla mura di ponente, al confronto fu una cosa smorta». Immaginate lo sconvolgimento delle galee turche nel mezzo del canale d’Otranto: i pescatori riportano con fatica le barche in porto, perché il mare è tormentoso; di lì a poche ore, al cospetto del capitano Zurlo, ascoltano l’araldo comunicare che Akmed Ghedik Pascià vuole la città per sé, ma offre salvezza a quanti concederanno la città e accetteranno di abiurare il Dio cristiano. L’araldo è respinto, gli aiuti di Alfonso d’Aragona sono un’ipotesi incerta, e Iddio stesso sembra lontano, al di là del buio («forse Lui stesso non era felice e non poteva aiutarci»). Il pescatore Colangelo avverte prima di tutti l’ora del proprio destino e diventa filosofo: «Allora mi vennero davanti agli occhi tutte le cose belle che c’erano nella nostra vita di prima, la pesca sulle barche, forti ai venti di scirocco e di tramontana, il ritorno a casa la sera con le reti sulle spalle, la cicoria che fumava nei piatti; mi sembrò che dentro tutta quella cosa che è esistere, da quando si è nati, ci fosse come una musica dolce, stupenda, e che in quel momento essa suonasse precipitosa nella mia anima e che l’anima a quel suono volesse correre via da me, andarsene a finire in mare, sott’acqua, dove c’era adesso la mia barca» (p. 44). E ancora: «Forse bisognava pensarci prima alle nostre cose, nei tempi in cui stavamo bene e non c’erano questi accidenti di palle tonde che cascano dal cielo. […] Forse bisognava conoscere la vita: fare le cose che hanno un corso, ma potrebbero anche averne un altro. Sai cos’è? Noi siamo ignoranti, noi non conosciamo la natura vera delle cose e così non capiamo niente: viviamo come le formiche; passa uno sopra con il piede e ci schiaccia».

È una riflessione disperata la sua, letterariamente la diremmo verghiana, ma Colangelo la confida a un personaggio che la penna di Verga non avrebbe mai potuto ritrarre, Idrusa: la giovane è l’unica voce femminile, con la sua narrazione occupa la sezione centrale del racconto, ma è il pescatore a introdurre la potenza della sua figura. Lui che per primo ha visto la nave turca, testimonia al cospetto della ragazza la stessa perplessità. Come i Turchi, anche Idrusa è irrimediabilmente altra e, a dispetto della nascita otrantina, straniera: «una donna diversa da tutte le altre Idrusa, non si poteva resisterle”, pareva che “volesse appropriarsi di tutto, appropriarsi del dolore e della felicità del mondo» (p. 61).

C’è nel nemico turco come nella giovane donna un’alterità parimenti respingente e attraente, Colangelo lo scopre la prima volta che si trova ad affrontare un turco sul bastione e la lotta somiglia a un abbraccio: «facce vicine si guardarono bene l’una con l’altra: respirava a fatica dalla bocca aperta e gli tremavano le mascelle, ma gli occhi, quegli occhi neri, fissi nei miei avevano un’espressione triste, accidenti, bella. Ci fu un momento come se non sapessimo più che cosa dovevamo fare: io lo guardavo, lui mi guardava, finché io raccolsi tutte le mie forze e chiudendo gli occhi lo scaraventai giù dalla torre». Dopo il primo ucciso, Colangelo si sente raggiungere da una forza straordinaria e i compagni plaudono al coraggio, ma l’energia impavida non basta a salvarlo; saluta la vita con un ultimo pensiero: «Com’è breve quello che si fa, quando si è vivi; che tremende speranze ogni tanto».

Ha un taglio epico la narrazione di Maria Corti e, come nella tradizione omerica, l’ora ultima libera ciò che il vivere ha tenuto nascosto: «quella notte, nel cuore di quella notte, vidi la volta celeste in un modo nuovo: una rivelazione di cui non riuscivo a capire a fondo il significato e che sfidava tutti i miei pensieri. (…) Vidi la palla del mondo come divisa in due spicchi: da un lato c’erano le cose della vita, infinite, formicolanti in tutte le giornate, cose che si facevano con la massima energia e con la massima energia si disfacevano; dall’altra c’erano quelle poche che stavano celate dentro le prime ma non si confondevano mai con esse, essendo impossibili a smerciarsi, sicché alla fine uniche sopravvivevano e in piccolo corteo accompagnavano l’uomo alla morte», dice il capitano Zurlo.

Idrusa

I personaggi maschili appaiono così colti di sorpresa da ciò che sul finale la vita mostra loro; non altrettanto Idrusa che contraddice la regola poiché l’intuizione di uno scarto tra le cose del mondo e il loro significato le appartiene sin dalla prima età. Precocemente orfana, a diciassette anni è data in moglie a un buon uomo, Antonio, pure pescatore, che la ama di una passione protettiva e tenace, ma non ricambiata. Idrusa vorrebbe essere una buona moglie, ma ha una vitalità appassionata, curiosa, che la rende vulnerabile alla felicità e perciò incapace di adattarsi a una sorte già scritta. Al saggio mastro Natale, che le chiede se abbia potuto inavvertitamente incoraggiare l’interesse dell’ufficiale spagnolo (che sarà poi il suo amante) Idrusa confessa la verità: «Io non sono come le altre. Le altre sono meglio di me, ma a me la loro non pare vita. Di che cosa sono contente? Solo di vivere. Io così non sono contenta per niente. E questo non riesco a mettere insieme, che loro sono meglio di me e che l’idea di essere una di loro mi dà la voglia di buttarmi giù dal Malepasso». La sua vita è dunque una sequela di scelte istintive: insegue una felicità che afferra solo per un attimo, in modo del tutto imprevisto, e poi paga caramente perdendo tutto quel che ha, mentre il vivere si trasforma in vana attesa di «qualcosa che a quella felicità somigliasse». Questa fugacissima felicità polverizza ogni cosa: il matrimonio, le persone da cui è amata, la rispettabilità, la possibilità di sentirsi protetta dalla vicinanza degli altri. Idrusa è una donna fragile e coraggiosa, indomita e saggia, irrimediabilmente sola poiché incapace di rassegnarsi alla vita così come le si presenta. Tocca ricordare l’epoca d’uscita di questo romanzo lungamente lavorato, gli anni Cinquanta e Sessanta già segnati dalle battaglie culturali delle donne: forse nel racconto di Idrusa (quasi romanzo nel romanzo) si manifesta un’altra parte della verità che Maria Corti si augurava nella bella lettera al maestro Antonio Banfi. Si può, insomma, narrare d’altri e di storia, fingere ma con una inclinazione ermeneutica, e dunque, al modo in cui si cerca tra le righe di un testo manoscritto l’impronta autentica di chi lo ha vergato e di chi lo ha pensato, ossia indagando nelle vicende umane di cinque secoli prima una verità esistenziale: la potenza del desiderio, il diritto alla felicità, la libertà delle donne, certo, ma poi, in estrema sintesi e per tutti, la scoperta dolente che esiste uno scarto tra l’io che pronunciamo e il resto del mondo e che tuttavia quella distanza non è sufficiente a renderci indipendenti. Unici, non possiamo fare a meno degli altri: in ciò è la pena e in ciò anche la cura. Idrusa risolve questa contraddizione proprio nell’ora che precede la fine, portando consolazione ed essendo finalmente riconosciuta da quelle donne tanto diverse da lei, che più degli uomini l’avevano giudicata male. Lei che non aveva mai avuto cura della propria reputazione e che pareva estranea alla sua comunità, manifesta un’affezione per le persone e la città stessa ancora più intima, perché meglio di chiunque sa (e riscopre, con meraviglia) come basti «prendere un filo e tirarlo» per scivolare «ciascuno per suo conto in un grande mare».

Caffè in ghiaccio

Mi fermo qui: non voglio imbastire retorica su un romanzo che trasmette un pathos autentico, mai compiaciuto. Sappiamo che a tutti gli otrantini fu offerta la possibilità dell’abiura e che in molti resistettero e furono portati sul colle della Minerva, quindi uccisi; Maria Corti racconta che, se ci fu santità, non fu una santità di eroi. L’etimologia della parola fa di tutti i martiri dei testimoni; ma per capire la testimonianza di quelli idruntini serve un aereo per Brindisi o un lungo viaggio in treno e un’auto a noleggio.

Bisogna aspettare tramontana o maestrale con gli occhi rivolti a est oppure sedere a un tavolino in uno dei locali lungo la passeggiata che circoscrive la città, come fanno i poeti (come certo hanno fatto Maria Corti e Carmelo Bene e Roberto Cotroneo, che pure ne ha ricavato il romanzo che della città porta il titolo). Si deve sostare davanti a un caffè in ghiaccio, per una volta non corretto dallo sciroppo di mandorla o da un morso di pastafrolla, e, con quel tanto di coraggio che serve, sfogliare una storia amara, raccontata da una donna acuta e coraggiosa che amava indagare, nelle carte come nella vita, le cose del mondo.


NOTE

Il presente contributo è un estratto da Immaginare Otranto con Maria Corti, comparso sul primo numero della rivista cartacea “Quaderno di Alibi”, intitolato Mare (giugno 2022, a cura di Saul Stucchi, www.alibionline.it, 80-90).

[1] Cit. da Luca Carlo Rossi, Maria Corti o dell’entusiasmo, “Quaderni di italianistica”, XVII, primavera 1996, 135.

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Elena Rausa

Docente di Lettere nei Licei e Dottoressa di Ricerca in Italianistica. Ha pubblicato tre romanzi: “Le invisibili” (Neri Pozza, 2024), “Ognuno riconosce i suoi” (Neri Pozza, 2018), “Marta nella corrente” (Neri Pozza, 2014).

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