Partiamo dunque da questa immagine, uscita su Repubblica di venerdì 10 gennaio 2014. Rimanda a una recente bagarre mediatica esplosa dopo che un concorrente di un quiz televisivo non ha saputo rispondere a una banale domanda su Hitler.
Sulla locandina del film di Faenza – in cui compare il volto di Adolf Eichmann, tra i responsabili dell’organizzazione dello sterminio degli ebrei – c’è scritto: «A quale X-Factor partecipò Adolf Eichmann?». Chi ha ideato il manifesto vuole provocare, mettendo in evidenza i danni causati alla conoscenza della storia dalla superficialità delle narrazioni televisive. Eppure la sensazione predominante, per tutta la durata del film, è quella di trovarsi proprio di fronte a una fiction di Rai Uno.
Anita B. è una ragazza sopravvissuta ad Auschwitz. Viene accolta dall’unica parente rimasta viva, Monika, sorella di suo padre, che non vuole essere chiamata zia e vive l’arrivo della nipote come un peso (qui la trama). La storia è ambientata nell’Ungheria postbellica: un luogo della storia del ‘900 ricco di tensioni, trame, possibilità narrative. Ma il film appare, invece, fin dalle prime scene, soprattutto un grande omaggio alla sartoria degli anni Quaranta, ai tagli impeccabili che mi ricordano di quando mia nonna Isolina mi portava dalla sarta da bambina, e i cappotti erano su misura.
In Anita B. è tutto su misura, anche quando la protagonista è appena arrivata da Auschwitz, in una casa ora assegnata agli zii ebrei ma tolta ai Sudeti, cittadini ungheresi di lingua tedesca responsabili, secondo il nuovo governo comunista, di aver appoggiato Hitler: ecco, anche in quel momento, così drammatico (qui le immagini delle rappresaglie del 1945), tutte le donne hanno il rossetto, giacche in gabardine e sopracciglia curate. La stessa Anita mostra sì una chioma devastata dalla vita nel lager, ma solo per 30 secondi; poi i capelli ricrescono, di decine di centimetri (anche se il bambino, cuginetto di Anita e suo unico confidente, rimane sempre piccolo uguale). I capelli crescono, e lo fanno in misura direttamente proporzionale alla voglia di dimenticare che ha la zia Monika: «Auschwitz deve rimanere fuori da questa casa». Riduzione didascalica dell’enorme conflitto fra necessità del ricordo e volontà di oblio, che scuote non solo la comunità ebraica dei sopravvissuti, ma l’intera società occidentale negli anni che seguono la guerra. Secondo le intenzioni del regista, infatti, il tema centrale di Anita B. dovrebbe essere proprio questo: raccontare il ritorno, le sue difficoltà, l’impossibile integrazione di chi è sopravvissuto al lager, di chi ha trovato indifferenza se non ostilità. Un tema poco indagato dal cinema, soprattutto per quanto riguarda gli ebrei italiani, ma che certo il film di Faenza sfiora soltanto, trasformandosi subito in un plot sentimentale con relativo episodio di violenza sulla protagonista, come a voler siglare il connubio fra i due temi del momento: la Shoah, in vista del 27 gennaio, e il femminicidio.
Un film furbo? No. Nessuno dubita della buona fede di Faenza nello scegliere un tema che ha già affrontato con tutt’altre passione e intelligenza in Jona che visse nella balena. Non è certo, il suo, un modo di attirare un certo pubblico internazionale assai sensibile alla questione della Shoah – come ha fatto ad esempio Paolo Sorrentino, quando in This must be the place ha infilato a forza una storia di caccia al nazista fuori tempo massimo. Un film semplificato, per adolescenti allora? Forse. Dalla scelta dei protagonisti alla storia d’amore, in effetti, molti sono gli elementi che ci fanno pensare che Faenza abbia voluto rivolgersi essenzialmente a loro. Ma gli adolescenti non hanno il diritto di vedere del buon cinema? Non devono conoscere? Come spiegare loro la miseria, la fame, la paura, la guerra scritta sui corpi degli europei nel 1945 se tutti gli attori, anche le comparse, sono giovani, sani e bellissimi?
«Considero Anita B. il mio film più controcorrente – ha detto Faenza a Repubblica – persino in maggiore misura del pluri-censurato Forza Italia!. In un periodo in cui il cinema sempre più si affida a un mondo irreale fatto di universi inesistenti e roboanti effetti speciali, questa storia guarda ai suoi protagonisti con pudore e discrezione, quasi in punta di piedi». Ma essere discreti non significa edulcorare, stemperare, rendere muto l’orrore. Scolpitelo nei cuori, scrive Primo Levi nel 1947 in Se questo è un uomo. Non ci va, risponde l’editore Einaudi, che rifiuta il manoscritto in nome del “frizzante” ottimismo del dopoguerra. Ricordate, insiste Levi. Perché il dovere della memoria è nostro, della nostra generazione, dei salvati perché per i sommersi nessuna voce è più possibile. E questo richiamo è stato accolto, anche dalle generazioni successive. Che non hanno memoria, ma è come se l’avessero, testimoni del non provato, secondo una felice definizione di Raffaella Di Castro. Un dovere diventato legge morale, al quale negli ultimi venti anni si è dato ascolto al punto tale da istituire un giorno della memoria, anzi più giorni della memoria, come quello sulla Shoah, quello sulle foibe, quello sulle vittime del terrorismo. Eppure, dice Faenza in un’intervista su L’Avvenire: «…io penso che la memoria oggi sia un dovere che esercitiamo davvero poco, soprattutto nelle scuole. Facciamo poco i conti con il nostro passato, come se non ci appartenesse. Mi ha colpito un’idea suggestiva, colta in un libro letto di recente: il contrario del termine oblio è giustizia. È proprio così: ricordando, si rende giustizia alle persone che sono vissute, ai dimenticati, agli eventi. Certo, c’è anche il diritto all’oblio, come avviene in psicoanalisi, fino a quando non sopraggiunge il momento della rimozione. Anita ha questa funzione: torna in un mondo in cui nessuno vuole ricordare più, in cui tutti vogliono rimuovere. Lei, invece, vuole esercitare il diritto al ricordo». E sul Corriere: «Non è un altro film sull’olocausto, ma piuttosto sulla memoria. Quella memoria che manca anche al nostro paese e di cui è nemica su tutti la tv». E invece proprio la tv e un cinema come questo di Faenza hanno contribuito a diffondere l’ossessione della memoria, il paradigma del testimone, la fede assoluta nell’io c’ero. Un’ansia bulimica di storie vere, vere perché raccontate in prima persona singolare, come se la verità e la memoria, appunto, potessero coincidere, quando invece è la storia e il suo racconto ciò di cui, oggi, abbiamo davvero bisogno. Una confusione imperdonabile quella fra storia e memoria, imperdonabile e costante, al punto che anche un articolo bello e importante come quello di Benedetta Tobagi sugli archivi e il rischio di una loro distruzione viene intitolato da qualche zelante redattore: Salviamo la memoria degli anni di piombo. Ma quale memoria? È la storia e sono i suoi documenti quel che deve essere salvato, dice l’autrice del pezzo. Altrimenti, appunto, il rischio è che rimanga soltanto la memoria, sempre più confusa, degli eventi (qui una riflessione di Anna Foa). Il dovere di ricordare e il dovere di raccontare. A tutti spetta il primo; a pochi, fortunati esseri umani, il secondo, e mi viene in mente un vecchio adagio toscano che dice così: Chi sa non sprechi.