Il 24 settembre 2021 l’Accademia della Crusca o, meglio, il professor Paolo d’Achille, socio Integrale, sembra aver scritto l’epitaffio dello Schwa, segno grafico (ə, plurale з) ben noto agli e alle studiose di glottologia. Nato come sostantivo neutro in tedesco (dunque S-) nell’ambito della grammatica ebraica, lo Schwa indica quella debolissima vocale di appoggio alla consonante finale di molte parole in alcune lingue e dialetti, come l’antico indoeuropeo e il napoletano, che ne abbonda. Tanto che nell’ultimo, infero romanzo di Domenico Starnone, Vita mortale e immortale della bambina di Milano, lo Schwa, scevà o, per i profani, e rovesciata sigilla le trascrizioni fonetiche che il protagonista raccoglie per un esame all’università di Napoli, pendendo dalle labbra della nonna dialettofona.
Quell’apparentemente inoffensivo segno è al centro di un feroce dibattito in quanto ne è stato proposto un altro uso (segnaliamo, tra gli interventi a sostegno, quelli di Michela Murgia e di Vera Gheno): cioè indicare, in italiano, il neutro in presenza di nomi, aggettivi, articoli riferiti contemporaneamente al maschile e al femminile. Rispetto all’asterisco (Car* tutt*), lo Schwa offrirebbe la possibilità di essere pronunciato (Carə tuttə), oltre a evitare discriminazioni o riproposizioni del vieto «maschile neutro», per i meno convinti «non marcato».
Più che entrare nel merito della legittimità di questo suggerimento, evidenziamo con stupore i presupposti teorici dell’intervento della Crusca, un’istituzione che certo ha seguito un indirizzo puristico, di fatto conservatore, quando le periodiche questioni della lingua suggerivano di adeguarsi all’uso moderno.
La prima affermazione da considerare riguarda la definizione di lingua: «ogni lingua» – si scrive – «è un organismo naturale», dunque ne andrebbe rispettata l’evoluzione nel tempo senza interventi esterni. Ora, è vero che le lingue si modificano, ma i cambiamenti non sempre appaiono «naturali» e sono comunque orientati dagli esseri umani. Se solo pensiamo a come si è diffuso l’italiano dopo l’Unità, quando attraverso la scuola e il corpo docente trasferito da un capo all’altro della penisola fu imposto sui dialetti regionali (a parte, forse, in Toscana), è difficile considerare la lingua che parliamo oggi un «organismo» del tutto «naturale». Il concetto di «natura» poi è estremamente fluttuante, come sappiamo dalla scienza e dal diritto; a meno che non ci si appelli all’episodio biblico della torre di Babele o, più indietro, della creazione di Adamo nell’Eden (sulla cui lingua, quella sì, divinamente «naturale» si è a lungo discusso). L’antropologia storica definirebbe la lingua un prodotto «culturale» della specie umana; se Homo sapiens fosse stato sopraffatto da un’altra specie, chissà se le lingue sarebbero nate altrettanto «naturalmente».
L’articolo dell’Integrale si dilunga inoltre sull’uso del maschile e/o del femminile in alcuni casi specifici. Per commemorare il magistero dell’accademica Maria Luisa Altieri Biagi – e citando Pirandello, personalità non proprio fautrice della parità di genere – si fa volutamente uso di «maestro», al maschile, «quasi una scelta obbligata per indicare un’eccellenza femminile in un ambiente a maggioranza maschile». Povere maestre! Quindi, per la stessa ragione sessista, se un uomo svolge con successo la professione di segretario, dovremmo chiamarlo «segretaria» perché tradizionalmente ritenuto mestiere femminile? Oppure un eccellente maestro elementare diventerà «maestra» per i suoi estimatori ed estimatrici?
Discettando dei pronomi da riservare alle persone transgender, si invita a utilizzare, come da prassi, il genere grammaticale corrispondente al «genere sessuale “d’arrivo”»; e lo si fa tra virgolette di stizza, «posto che proprio si debba sottolineare l’avvenuta “trasformazione”». Ricordiamo alla Crusca che, come lo Stato italiano ha stabilito, una persona transgender non deve aver intrapreso la strada dell’operazione chirurgica per vedersi riconosciuta, anche sui documenti, al maschile o al femminile (alcuni Paesi hanno introdotto il sesso X).
Il tono asettico, anzi glaciale, con cui si descrive «un maschio diventato femmina» e viceversa (citazione quasi dantesca, da Inferno, XX 41) fa accapponare la pelle, soprattutto se si pensa alle ricadute di questo atteggiamento nella quotidianità dei contatti umani. Se in una università nordamericana o britannica un professore negasse, o accettasse sbuffando, di rivolgersi a uno studente o studentessa con il pronome gentilmente richiesto (incluso they/them), si mobiliterebbe tutto un sistema di protezione della diversity e costui finirebbe nei guai, come la preside Hope Haddon nella terza stagione di Sex Education.
Spiace vedere che un’istituzione che in passato, attraverso la presidente Nicoletta Maraschio, si è spesa a fianco dello Stato per promuovere il linguaggio inclusivo abbia ora virato verso una posizione conservatrice – e, ripetiamo, tale nei suoi presupposti prima che nei suoi esiti, il che è ancora più impressionante. Si giunge persino a sostenere che l’uso dello Schwa sarebbe «al servizio di un’ideologia» o frutto di un «dirigismo linguistico» degno dei «regimi totalitari»; un po’ come «coda di gallo» per l’esotico cocktail al tempo del fascismo. E quale «ideologia» dovremmo temere? L’ideologia dell’inclusione? Oppure si intende il famigerato complotto del gender, che è ormai l’erede linguistico-culturale di panzane storiche come i Protocolli dei Savi di Sion?
Forse l’uso dello Schwa può essere interpretato inizialmente come una forzatura, ma se non altro risponde a un problema cruciale per la società italiana. Del resto, gli stessi cruscanti precisano che l’Accademia «non ha alcun potere di indirizzo politico» (altrimenti sarebbero loro i dirigisti) e celebrano il valore dell’uso, che si tratti di Schwa o di petaloso (vicenda, quest’ultima, da libro Cuore a cui ovviamente è stato riservato un commento più mite). Chissà che, come sempre, il tempo non dia ragione al nuovo che avanza. Per parafrasare un altro socio corrispondente della Crusca, ai e alle posterə l’ardua sentenza.