Una riflessione su un recente libro di Matteo Nucci
Una riflessione su un recente libro di Matteo Nucci
Alcuni mesi fa molti osservatori avevano disapprovato – pur se in forme e modi diversi – le lacrime dell’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero mentre annunciava agli Italiani, in conferenza stampa, i sacrifici (appunto…) «lacrime e sangue» imposti dal governo Monti di cui faceva parte. E credo che tutti noi ricordiamo come l’allora premier Mario Monti le abbia garbatamente tolto la parola, continuando a spiegare in modo lucido, apparentemente distaccato, la strategia di rigore economico del suo esecutivo.
Ho pensato molto a questa scena leggendo il libro di Matteo Nucci, Le lacrime degli eroi, Einaudi, Torino, 2013, che proprio di lacrime e pianto parla, in relazione al mondo greco.
L’autore esordisce ricordando un episodio del 429 a.C., quando il grande Pericle, seppellendo il figlio Paralo, morto di peste, al cimitero ateniese del Ceramico, per la prima volta pianse in pubblico. Ed ecco come Nucci descrive la scena:
La peste gli aveva portato via la sorella, il primo figlio Santippo, i migliori amici e molti parenti, ma lui non aveva mai ceduto. La famosa fierezza, la forza d’animo che era il suo vanto. Atene aveva sempre ammirato quella specie di eroe… Depose la corona, strinse i pugni sulle tempie, chiusi gli occhi. Fece per rialzarsi ma non ci riuscì. Poi si sentì un sibilo che si trasformò in una specie di muggito mentre il corpo di Pericle cadeva sul corpo di Paralo. Un urlo devastò la quiete del Ceramico e Pericle per la prima volta pianse.
Poco tempo dopo anche Pericle morì di peste, e questo liberò l’uomo politico dall’onta di quel pubblico pianto. Infatti è Platone, nella Repubblica, scritta in anni non troppo lontani, a ricordare come le lacrime non si addicano a un uomo di Stato; quelle lacrime che invece – come Nucci ci spiega con rigore documentario ma con leggerezza di toni – erano prerogativa dei grandi eroi omerici dell’Iliade e dell’Odissea. Sì, proprio Achille, Odisseo, Ettore, Priamo, etc., protagonisti di quella che Eric Dodds chiamò «civiltà di vergogna», non si vergognavano di piangere. Erano la viltà in guerra, il mancato rispetto dei patti, la violazione dei codici d’onore eroici o l’assenza di amor patrio che ne potevano macchiare la reputazione, non certo un pianto – di rabbia, commozione, disperazione… – che appariva invece come una spontanea manifestazione di vitalismo. Le lacrime, spiega l’autore, sono infatti sentite dalla sensibilità dell’epoca eroica come un liquido vitale, al pari del sangue o dello sperma: un antidoto all’inerzia e all’aridità della morte.
Ma prima di riflettere sul libro torno allo spunto da cui sono partito. Non voglio certo attribuire un atteggiamento «omerico» alla professoressa Fornero e dare del «platonico» al senatore Monti; però a me le lacrime dell’ex ministro erano parse sincere, genuina manifestazione di quel disagio interiore che invece l’ex premier, più abituato alla ribalta politica, riusciva a mascherare. Quel pianto mi era sembrato, insomma, anch’esso un segno di vita in confronto con i mortiferi comunicati di quell’angoscioso dicembre 2011, nei quali si parlava solo di spread e default.
Torniamo al libro, sospeso – come anticipavo – tra il romanzo e il saggio, corredato com’è da una robusta «coda» di note e da una ricca bibliografia. Dopo la parte iniziale (L’età perduta), l’autore analizza la fenomenologia del pianto eroico associandolo a tre grandi «motori» (Nostalgia, Ira, Morte), e conclude il suo lavoro con una sezione (L’età del rimpianto) relativa soprattutto alla cultura filosofica e letteraria di età ellenistica; sezione questa – lo dico subito – che mi è parsa la meno avvincente di questo pur ottimo testo, in virtù della connessione di varie situazioni mitiche sviluppata in modo eccessivamente intricato.
Difficile trovare, tra gli esempi omerici citati da Nucci, qualcuno più interessante di altri da sottoporre ai lettori de La ricerca. Che dire infatti dei quotidiani pianti di Odisseo, nel suo nostalgico esilio dorato presso la ninfa Calipso a Ogigia? Oppure delle lacrime sparse dall’itacense quando – dagli aedi Demodoco e Femio – sente narrare le imprese di Troia delle quali era stato protagonista? Oppure del pianto di Achille, distrutto dalla morte dell’amico Patroclo, e di quello che il Pelide condivide con il vecchio nemico Priamo all’atto della riconsegna del cadavere di Ettore? Insomma, i passi analizzati sono molti, e una loro citazione o trascrizione dettagliata sarebbe inadeguata a questo mio intervento, che – più che una recensione – vuole essere un invito ai colleghi docenti di Liceo a rileggere con i loro studenti alcuni episodi dell’Iliade e dell’Odissea in questa particolarissima chiave. Una chiave che a me ogni tanto sembra mostrare, in questa sua insistenza sul vitalismo dell’età eroica, echi di sapore nietzschiano: ma lo dico in punta di piedi, quasi fosse una «riflessione ad alta voce» che mi piacerebbe discutere con Nucci.
C’è poi, come ulteriore filo conduttore del libro, una serie di immagini della Grecia (dal cimitero ateniese del Ceramico, al Pireo, a Micene, alle isole etc…) e della Troade, che derivano dalla frequentazione personale dell’autore e che si mescolano con suggestioni letterarie moderne che ogni amante dell’Ellade considera veri e propri oggetti di culto: dalle poesie di Kavafis e Seferis, allo Zorba il Greco di Nikos Kazantzakis, al Mani di Patrick L. Fermor, al Colosso di Marussi di Henry Miller.
Non posso dunque negare che chi – come me – ha più volte visitato quei luoghi e letto quei libri si è lasciato piacevolmente guidare dalla scorrevole prosa di Nucci e dalla sua «idea chiave». E vorrebbe anche farsi ingannare da quest’altro che – Matteo Nucci lo sa benissimo – è però solo uno spunto tanto raffinato quanto paradossale, comunque eccessivamente enfatizzato. Infatti il colossale kouros del Museo di Vathy, a Samos, databile intorno al 580 a.C., secondo l’autore sorride nella sua sfida al mondo, sorride con un velo di amarezza, sorride perché si prepara a ridere. E non piange. Non si dispera. Non si strappa i capelli o rompe in singhiozzi che somigliano a ululati per le esplosioni di ira.
Il tutto torna perfettamente con la tesi del libro, poiché quella statua maschile arcaica rappresenterebbe la fase di passaggio dall’età eroica (quella del pianto, appunto) alla serena compostezza della successiva età classica; peccato, però, che gli studiosi ormai da anni attribuiscano il «sorriso arcaico» a un espediente tecnico, e cioè alla resa delle tre dimensioni su piani separati, che porta gli artisti a incurvare eccessivamente la bocca delle statue verso l’alto. Nulla vieta comunque di lasciarsi prendere dalle «parole alate» di Nucci, di forzare un po’ la mano alla razionalità e di seguire fino in fondo il suo percorso. Conosco bene quel kouros – per averlo più volte visto – e penso che ci perdonerà. Marmoreo com’è non si metterà a piangere e ululare, né modificherà il suo sorriso: sa benissimo di essere patrimonio di un’umanità che, se qualche volta travisa i suoi sentimenti, lo fa per un eccesso di amore nei suoi confronti.