Non deve spaventare il lettore non specialista (come chi scrive, peraltro) il fatto che sia Paolo Bricco, giornalista del «Sole 24ore» e grande esperto di economia, l’autore del recente AO. Adriano Olivetti, un italiano del Novecento, Rizzoli, Milano 2022: le quasi cinquecento pagine del libro scorrono velocissime, riccamente documentate ma scevre da troppi tecnicismi; e se indubbiamente il celebre industriale di Ivrea (1901-1960) è il protagonista dell’opera non è sbagliato dire che l’Italia del Novecento ne sia – in fondo – coprotagonista. Perché è la Storia (con la S maiuscola) – con le due Guerre Mondiali, il Fascismo, i moti operai di primo Novecento, il “mito americano”, il “piano Marshall” del secondo Dopoguerra etc. – a essere il teatro dell’azione di un uomo che sarebbe riduttivo definire imprenditore, poiché fu industriale, editore, mecenate, politico e molte altre cose ancora; eppure Bricco cerca di spiegarci che «l’intera vicenda olivettiana conserva la sua feconda contraddizione: è dentro la Storia, ma allo stesso tempo la pone al di fuori di essa» (p. 217).
Le feconde contraddizioni di Adriano
Solo così, credo, riusciamo a comprendere (o a provare a farlo) come l’uomo che rese grande con le sue innovative macchine per scrivere e calcolatrici l’azienda ereditata dal padre Camillo (1868-1943), di famiglia ebraica e simpatie socialiste, abbia potuto nel 1926 aiutare Filippo Turati a fuggire in Francia e nonostante ciò “flirtare” con il Fascismo per l’interesse proprio e della sua “Ditta”, nonché collaborare poi con gli anglo-americani liberatori; da ultimo farsi pure eleggere nel 1958 in Parlamento con il suo “Movimento di Comunità”, partito dall’impianto ideologico a dir poco utopistico (un mix di cristianesimo, socialismo, federalismo e molto altro ancora) e dagli esiti fallimentari: ma probabilmente chi passa dall’impresa alla politica attiva – come dimostra un esempio a noi molto più vicino… – non può lasciare troppo spazio all’utopia.
Non è però solo quella di natura politica la «feconda contraddizione» di Adriano. Che fu personaggio dal forte profilo internazionale (ebbe fabbriche e negozi in varie parti del mondo) ma allo stesso tempo intimamente legato al “suo” Canavese, per lo sviluppo del quale si batté costantemente. Che fu ingegnere, maniaco della meccanica e dell’organizzazione aziendale (apprese dagli Americani), ma nondimeno amante del design, dell’architettura e soprattutto della letteratura: si circondò infatti di numerosi intellettuali, tanto che si diceva ironicamente che «Olivetti s.p.a.» fosse l’acronimo di «se Pampaloni acconsente», ad attestare l’importanza che il critico letterario Geno Pampaloni aveva in azienda (ed era in buona compagnia, cioè quella di Franco Fortini, Giovanni Giudici, Ottiero Ottieri, Paolo Volponi, Leonardo Sinisgalli, Renzo Zorzi: e qui mi fermo…). Che fu legato alla sua numerosa famiglia di origine (in particolare alla sorella Silvia) – non senza però screzi e incomprensioni – così come alle due mogli, alle amanti e ai figli, anche se forse per la mitezza del carattere non assunse – al di là delle responsabilità aziendali – un vero e proprio ruolo patriarcale dopo la morte di Camillo. O perlomeno lo assunse senza quel piglio più autoritario che autorevole che è spesso tipico degli esponenti del capitalismo familiare nostrano.
Profitto e welfare aziendale
Ma è soprattutto un’altra straordinaria «feconda contraddizione» a rendere Olivetti una figura che sembra sfuggire alle durissime leggi della Storia (e dell’economia), e cioè l’idea da lui sempre professata che il profitto imprenditoriale e il benessere dei lavoratori non dovessero essere posti in antitesi; anzi, il welfare aziendale (fatto di mense, asili nido, ambulatori medici, case vacanze e molto altro, tutto “democraticamente” pensato per operai, impiegati e dirigenti) poteva essere (e lo fu) motore di produttività e sviluppo, e doveva essere accompagnato da salari adeguati, nonché da un clima culturale che favorisse una crescita intellettuale dei suoi dipendenti. Non fu un caso, allora, che «fra il 1948 e il 1955 l’indice generale del costo della vita aumenti da 100 a 123,22. Invece il guadagno medio dell’operaio Olivetti cresca… da 100 a 188,2» (p. 288). Si capisce allora che non siamo davanti al remake del paternalismo “padronale” di fine Ottocento (alla Crespi, per capirci…) ma della ricerca di qualcosa di nuovo, mirato non alla mera tutela del lavoratore, ma alla sua reale emancipazione sociale ed economica.
Tante esistenze, una morte improvvisa
In barba alla Storia, dunque, Adriano viveva – lo ripete spesso l’autore – «tante esistenze simultanee», cioè quelle di «imprenditore… organizzatore culturale… riformatore sociale… animatore urbano… politico in evoluzione» (p. 378). Ma – continua Bricco – «tutto questo costa: in termini di energie psicologiche e fisiche, ma anche in termini di denaro», tanto che «dal 1948 al 1960, per le attività estranee all’azienda, Adriano spende non meno di un miliardo di lire suo personale» (p. 381). Così nel 1960 egli muore improvvisamente durante un viaggio in treno proprio mentre familiari e azionisti stanno perdendo (o già avevano perso) la fiducia nel suo ruolo di capitano d’impresa, troppo distratto da tutto il resto, troppo rapito delle sue utopie; e proprio mentre l’elettronica (le cui potenzialità il Nostro aveva comunque intuito) stava per soppiantare la meccanica e consegnare così l’azienda alle turbolenze del mercato e agli insuccessi degli anni a venire. Forse – Bricco mi perdonerà per questa boutade – la sua morte è stata un po’ come la provvida sventura di manzoniana memoria, e cioè uno strumento per sottrarlo alle angosce che lo aspettavano, al “conto” che la Storia – che aveva spesso provato a eludere od orientare a proprio vantaggio – gli stava presentando.
Dal mito della macchina per scrivere…
Il bellissimo libro AO (saggio che si legge come un romanzo, anche per la rimarchevole brillantezza dello stile) mi ha inoltre – mi si perdoni l’addendum personale – riportato spesso dalla Storia alla cronaca familiare e personale delle mie infanzia, adolescenza e giovinezza.
Infatti una splendida macchina per scrivere – Olivetti, ovviamente – campeggiava nello studiolo che mio padre aveva in casa, ma soprattutto più d’una ce n’era nel suo ufficio, insieme con le calcolatrici, Olivetti anch’esse ça va sans dire. Non solo: possedevamo pure una Olivetti portatile, con tanto di custodia, una “Lettera” della quale non ricordo il numero e che non so che fine abbia fatto… E sia mio padre (classe 1924), ragioniere con successivi studi di economia, sia mia madre (classe 1927), dal diploma magistrale, erano dattilografi provetti, rapidissimi, che io guardavo con invidia e provavo a imitare goffamente scrivendo con un dito solo; dovevo però stare attento, usare la macchina con cura, non pigiare troppo i tasti e non rovinare il nastro bicolore.
Insomma, la costosa e datata (era degli Anni Cinquanta o Sessanta) Olivetti da tavolo dello studiolo paterno meritava rispetto e necessitava pure – ogni tanto – di una manutenzione domiciliare fatta da un tecnico specializzato.
… a uno sfortunato computer
Arriviamo ora ai primi anni Novanta, quando chi scrive venne convinto da un persuasivo negoziante milanese ad acquistare un pc Olivetti. Forse sono stato sfortunato, ma quello è stato di gran lunga il computer peggiore che abbia mai avuto; ricordo i suoi numerosi problemi di hardware e le difficoltà a ottenere assistenza tecnica; e ricordo anche – già insegnavo… – qualche ironica battuta dei miei studenti più grandi che quando raccontavo loro i miei guai informatici (sperando in qualche aiuto) non si capacitavano della mia scelta di acquistare un pc Olivetti, con tanto ben di Dio già in circolazione.
Ecco, la comparazione tra la macchina per scrivere paterna e il mio deludente pc – un tipo di oggetto che Adriano, morendo prematuramente, non ha potuto vedere – può forse, plasticamente, essere metafora di quanto già alluso sopra. Così bruscamente sottratto alla Storia, egli è allora – al pari della “sua” azienda-modello – divenuto un mito per molti; proprio come per me lo era e lo è tutt’oggi la sontuosa, pesantissima e “immortale” Olivetti nera della casa dei miei genitori, il cui musicale ticchettio (credo) saprei riconoscere ancora.
P.S.: per chi voglia sapere (e soprattutto vedere di più) doverosa è a consultazione del sito web dell’Archivio Storico Olivetti. È un sito web moderno, fantasioso ed eterogeneo: credo che sarebbe piaciuto anche ad Adriano.