Acqui Terme, città fondata sull’acqua

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Una sosta nella cittadina dell’alessandrino consente un piccolo viaggio nella storia: dal caso esemplare dei liguri Statielli nell’impero romano arriveremo fino a Bisanzio.

Da lombardo antico frequentatore della Liguria di Ponente spesso abbandono l’autostrada – e i suoi ormai storici cantieri – per raggiungere la Riviera, privilegiando strade minori e passaggi appenninici. Il fastidio delle curve è ampiamente ripagato, di solito, da una sosta in qualche semplice trattoria, interessante soprattutto durante la stagione dei funghi, che qui non mancano. Diretto verso Sassello e il Savonese sono dunque più volte passato dalla cittadina di Acqui Terme, in provincia di Alessandria, e ho potuto ammirare i resti imponenti dell’acquedotto romano, che ricordano tra l’altro come l’acqua (termale e non) sia stato e sia ancora l’elemento eponimo di questo centro: in età romana, infatti, il suo nome era Aquae Statiellae, con la menzione dell’antica popolazione ligure degli Statielli, della quale parlerò tra poco. Non senza, prima, ricordare che finalmente ho visitato nei giorni scorsi il locale Museo Archeologico, che finora avevo colpevolmente trascurato. Ma andiamo con ordine…

Roma e i Liguri Statielli

Regio IX, Liguria (da Historical Atlas by William R. Shepherd, 1911. Courtesy of the University of Texas Libraries, The University of Texas at Austin. Wikipedia)

I Liguri sono una delle tante popolazioni che abitavano l’Italia pre-romana, e dovevano essere una realtà assai eterogenea, diffusamente presente tra Piemonte, Liguria e Francia occidentale: le varie tribù di Liguri ebbero infatti storie non sempre analoghe e alcune di loro si fusero con i Celti dando origine a gruppi etnici cosiddetti celto-liguri.

Prima o poi, comunque, tutte queste comunità dovettero fare i conti con Roma, potenza che tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C., dopo essere divenuta padrona dell’Italia centro-meridionale e ridimensionato il pericolo annibalico, iniziò un’opera di sistematica conquista della Pianura Padana e di tutto il Nord. Come sappiamo, fossero Liguri, Celti, Veneti etc. i Romani seppero sconfiggerli con la forza, provando poi ad attuare forme di controllo del territorio e integrazione dei suoi abitanti che variavano molto a seconda delle circostanze.

Porzione musiva che menziona Marcus Octavius Optatus, Acqui, Museo Archeologico

Il caso degli Statielli – che ebbero il loro oppidum principale a Carystum (ubicato forse nei pressi dell’odierna Acqui) – ha però una sua singolare peculiarità, secondo la dettagliata narrazione di Tito Livio (Ab Urbe condita, 42, 7-8). Infatti il console Marco Popilio Lenate nel 173 a.C. li sconfisse in una battaglia che vide 10.000 morti tra i nemici e almeno 3.000 tra i Romani; non si accontentò però della loro resa senza condizioni, ma «tolse a tutti le armi, distrusse la città, vendette le loro persone ed i beni, inviando al senato una lettera col resoconto della sua impresa» (la trad. – come le seguenti – è tratta da Tito Livio, Storie, vol III, Utet, Torino 1997, a cura di P. Pecchiura, A. Ronconi, B. Scardigli, G. Pascucci). E qui avviene il colpo di scena: infatti il senato giudicò troppo severo il suo atteggiamento, ordinando «che il console Marco Popilio restituisse la libertà ai Liguri, dopo aver rimborsato il prezzo ai compratori, provvedesse a rimetterli nel possesso dei beni, per quanto fosse possibile recuperarne», poiché «insigne è la vittoria ottenuta superando il nemico che impugna le armi, non già infierendo contro il nemico battuto». Quest’ultima sententia (Claram victoriam vincendo pugnantis, non saeviendo in adflictos fieri) sembra essere proposta sia come parere del senato sia come opinione dello storico, e sicuramente ricorda – d’altronde il clima augusteo è comune – il virgiliano parcere subiectis et debellare superbos (Eneide, 6, 853).

La romanizzazione del territorio

Sta di fatto che vicino all’antica Carystum sorse presto Aquae Statiellae, a dimostrazione che non si voleva cancellare il nome degli antichi nemici, ma – come si suol dire tra gli storici – “romanizzarli”. Il centro accrebbe la sua importanza con la creazione della Via Aemilia Scauri (109 a.C.), che lo attraversava unendo Derthona (Tortona) a Vada Sabatia (Vado Ligure); in età imperiale la strada fu rinominata Via Iulia Augusta e per mezzo suo il basso Piemonte si poteva aprire addirittura ai commerci con le Gallie e ai traffici navali con la Spagna. Nel frattempo, da semplice città alleata, nell’89 a.C. Aquae ottenne la cittadinanza latina, come tutto il Nord Italia, per assurgere in età cesariana al rango di municipium Civium Romanorum, i cui abitanti liberi – fossero eredi dei Liguri sconfitti, coloni romani o altro ancora – erano accomunati da questa prestigiosa condizione giuridica, che attestava il successo politico-culturale di quella “romanizzazione” cui ho sopra accennato.

Resti dell’acquedotto romano. Foto dell’autore.

Fu Augusto, che divise l’Italia in regioni, a inserirla nella regio IX (Liguria); e fu probabilmente sempre lui che – qui come in molte altre città maggiori e minori dell’Italia – promosse ristrutturazioni urbanistiche e favorì l’erezione di numerosi monumenti e opere pubbliche. Tra queste ultime, probabilmente vi è pure l’acquedotto che ancora oggi si staglia, maestosa e “romantica” rovina, nei pressi del fiume Bormida.

Una plurisecolare vocazione termale

La Bollente. Foto Tony Frisina, Italian Wikipedia, Public domain, via Wikimedia Commons

All’acquedotto tra poco ci arriviamo, ed è quasi ovvio, poiché è l’acqua il “cuore” urbanistico, ma anche per così dire “spirituale” della città. Infatti, come ricorda Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, 31, 2, 4), Acqui era una delle maggiori località termali dell’età romana, al pari di Pozzuoli (Puteoli) e Aix en Provence (Aquae Sextiae); e non solo l’archeologia ha documentato la presenza urbana di strutture termali (almeno due, secondo gli studiosi: di particolare interesse e pregio è la grande piscina i cui resti sono stati individuati nel 1913 presso l’attuale Corso Bagni), ma quell’acqua calda dalle qualità medicamentose che le alimentava (il nome della cui sorgente è la «Bollente») ancora sgorga a 74,5 gradi all’interno di un’edicola monumentale realizzata nel 1870 dall’architetto Giovanni Ceruti.

E proprio di fine Ottocento è pure l’edificazione dell’elegante stabilimento termale «Nuove Terme» e dell’omonimo e lussuoso albergo (ancora oggi, dopo il restauro, «Grand Hotel Nuove Terme»), che ebbe grande notorietà internazionale soprattutto nell’epoca della Belle Époque.

Il Grand Hotel Terme in una foto d’epoca

Il termalismo, dunque, è una plurisecolare costante della vita di questa città, che – durante l’epoca romana – doveva pure essere dotata di un foro, di importanti opere pubbliche, tra le quali un teatro e un tempio oggi riconoscibili (e parzialmente visibili), nonché di operosi quartieri artigiani, e abitata da persone i cui nomi sono in parte noti dalla documentazione epigrafica, che ci ha lasciato oltre settanta esempi.

Frammenti di varia natura trovati nei pressi della Bollente, Acqui, Museo Archeologico.

Tra loro vi erano anche figure di un qualche rilievo economico, come quel Marcus Octavius Optatus menzionato da un mosaico pavimentale (CIL 5, 7517), il quale, a proprie spese, fece probabilmente costruire un edificio pubblico, ma anche i titolari di alcune eleganti stele funerarie, come quella a ritratti che Rubria Secunda approntò per sé e i figli (CIL 5, 7520), o quella con un timpano ornato da delfini che il marito Lucius Petronius Melior dedicò alla moglie Septicia Sura (CIL 5, 7524). Anche in questo caso, come già per i riferimenti all’archeologia locale, si tratta solo di semplici esempi, senza alcuna pretesa di completezza, consapevole dell’impossibilità, in questa sede, di un reale approfondimento archeologico-monumentale o storico-sociale.

Sedile marmoreo circolare, posto intorno a vasca termale, Acqui, Museo Archeologico.

Le sale del locale Museo Archeologico ci danno un vivace spaccato di tutto ciò, anche se, ancora una volta, è l’acqua a fare da padrona: la sala principale è infatti dedicata alla piazza della «Bollente», laddove doveva trovarsi una monumentale fontana, come pure una vasca circolare circondata da sedili marmorei (in marmo proconnesio) che sono in larga parte conservati.

Anfore usate per il drenaggio del terreno, Acqui, Museo Archeologico.

E il rischio di impaludamento del terreno (l’abbondanza d’acqua poteva avere queste conseguenze) era ben presente agli acquesi d’antan, i quali utilizzavano anfore di risulta (vinarie, olearie, da garum) con funzione di drenaggio: molte di loro – trovate in scavi recenti – sono di provenienza iberica, a testimoniare come, per il tramite del porto di Vado, fossero significative le importazioni da quella terra.

L’imponente acquedotto romano

E ora arriviamo all’acquedotto, databile intorno al I secolo d.C., che doveva avere un’originaria lunghezza di circa 12-13 km, in parte sotterranei e in parte fuori terra, per garantire una pendenza costante che favorisse lo scorrimento regolare dell’acqua – attinta in origine dal torrente Erro, nei pressi della località Lagoscuro (odierno comune di Cartosio) – anche in presenza di variazioni di livello del terreno. Il tratto finale era sospeso e valicava il fiume Bormida su grandi archi in muratura retti da piloni, sette dei quali (dall’altezza di oltre 17 metri) oggi sono ancora visibili in centro città, mentre altri otto (in realtà assai più ammalorati) si trovano in direzione Cartosio. L’acqua qui convogliata dal perduto canale di scorrimento che sovrastava i piloni (forse una quarantina) veniva raccolta in una cisterna e poi distribuita capillarmente attraverso condotti in piombo, in parte da utilizzare come acqua potabile, in parte da mescolare con quella termale per ridurne la temperatura.

Col pensiero a Bisanzio

Castello detto dei Paleologi.

Un’ultima nota, prima di chiudere. Ho più volte citato sopra il Museo Archeologico, che si trova nel cosiddetto «Castello dei Paleologi»; sì, perché a partire dai primi anni del Trecento fino agli inizi del XVI secolo, pur con numerose interruzioni, questo territorio fu governato dai «Paleologi del Monferrato», una sorta di “ramo cadetto” (lo so che la definizione è impropria, ma…) della dinastia che regnava a Bisanzio. Ciò fu la conseguenza di intricate vicende di carattere ereditario, ma è soprattutto indizio della complessa storia di dominazioni che l’Italia tutta subì dopo la caduta dell’Impero d’Occidente: anche qui, come altrove, Goti, Longobardi, imperatori e re di varia origine (fino ad arrivare ai Savoia) lasciarono il loro segno, che è stato sì di “conquista” ma anche di mescolanza di etnie, lingue e culture diverse. Una mescolanza che rende il nostro un Paese dalle molte radici e dall’identità composita, dove perfino la micro-storia di una cittadina di meno di ventimila abitanti (delle cui belle chiese medievali non ho trattato in questo pezzo, e me ne scuso…) ci consente di parlare sì – come è ovvio – di Liguri e Romani, ma anche di proiettarci col pensiero sulle rive del Bosforo.

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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