Personalmente, ancor prima che il mondo antico diventasse per me oggetto di studio e ambito di lavoro, ho sempre avuto un debole per Odisseo, affascinato dalla sua capacità di problem solving (così dicono oggi quelli bravi…), dalla sua oratoria suadente, e dalle sue abilità marinaresche. Ovviamente, poi, tutti quanti – da adolescenti – gli abbiamo invidiato le bellissime donne che – Penelope a parte – lo hanno amato (Calipso, Circe) o che avrebbero voluto amarlo (Nausicaa); e per quelli dalla mia generazione, più che l’epica letta a scuola ha potuto in tal senso la suggestione postuma della straordinaria produzione televisiva di Franco Rossi, l’Odissea (1968), le cui puntate erano precedute dall’intensa lettura del poema da parte di Giuseppe Ungaretti. Sì, lo confesso, il bravo attore bosniaco (allora jugoslavo) Bekim Femhiu, l’Odisseo di Rossi, fu tra i miei miti di ragazzino; d’altronde quando vidi il muscoloso Brad Pitt che interpretava Achille in Troy, film del 2004, ero già un occhialuto professore di Lettere di oltre quarant’anni, e non potevo certo pensare di ispirarmi a lui in qualcosa!
Un recente libro di Matteo Nucci
Ma torniamo al confronto tra Odisseo e Achille, da cui sono partito, a cui è dedicato il recente libro di Matteo Nucci, Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno, Einaudi, Torino 2020.
Nucci, che è sia grecista sia narratore, costruisce un volume che alterna un taglio quasi “romanzesco” (il cui filo conduttore è la presenza di Elena, la causa scatenante della guerra di Troia), a porzioni antologiche dei poemi omerici (e non solo: si citano anche Platone, i tragici e diversi altri autori), nonché a considerazioni di natura più decisamente saggistica. Il tutto è ben governato dall’autore (anche se forse c’è qualche ripetizione di troppo: una voluta “formularità” epica?), del quale traspare la genuina passione per i poemi omerici: una passione che – sono sicuro – avvertiranno sia gli addetti ai lavori sia i semplici appassionati che vorranno leggere questo interessante volume.
Come ne escono i nostri due eroi? Diversi, ovviamente, anche perché associati alle caratteristiche di due animali quasi opposti: Achille è un leone, in virtù della sua forza, Odisseo è un polpo, per le sue potenzialità metamorfiche di pulýtropos anér. Inoltre il primo vive con spavalda intensità una sorta di eterno presente, mentre il secondo agisce pensando al futuro, cioè alle conseguenze delle proprie azioni. Nondimeno il Pelide è un essere “terrestre” – saldamente legato ai suoi fidi cavalli parlanti Balio e Xanto – mentre il Laerziade ce lo immaginiamo sempre a solcare il “mare color del vino”. Non credo sia però il caso che mi dilunghi su queste diversità, e dunque proverò – sulla scia di Nucci – a ricordare invece qualche aspetto comune dei due.
Diversamente eroi, ugualmente mortali
Entrambi, anzitutto, sono accomunati dalla volontà di portare all’estremo la loro potenzialità umana e mortale, poiché consapevoli che è solo così che si può davvero praticare l’eroismo; tra l’altro, Achille preferì una vita breve e gloriosa a una lunga e tranquilla, e Odisseo rifiutò l’immortalità offertagli da Calipso. Ciò perché forse we can be heroes anche per più di un giorno, parafrasando David Bowie, ma non certo per l’eternità…
E non sono solo queste le caratteristiche che li accomunano, ma anche altre, sulle quali l’autore giustamente insiste; infatti tutti e due cercarono di evitare la partecipazione alla guerra di Troia (Achille travestendosi da donna, Odisseo fingendosi pazzo), tutti e due pensano spesso ai giovani figli lontani e agli anziani padri, tutti e due non si vergognano di piangere o di mostrare aspetti inediti del loro carattere: perché il feroce Achille sa anche scherzare o suonare, e il paziente Odisseo sa anche essere di una ferocia inaudita, specialmente nella “resa dei conti” finale con i proci.
Mi verrebbe allora quasi da dire – sulla scia del “principe centauro” golpe et lione del Machiavelli – che il perfetto eroe omerico dovrebbe essere polpo et lione, ma si tratta poco più che di una battuta; perché Omero (o chi per lui) non voleva certo creare eroi prefetti, bensì proporre diverse modalità eroiche in uno straordinario contesto narrativo, arricchito e reso eterno proprio dalla peculiarità dei suoi attori. Perché Agamennone non è Aiace, Nestore non è Diomede, Ettore non è Paride ecc., anche se il mondo in cui vivono è permeato dagli stessi codici comportamentali e valori morali.
Interessanti le riflessioni sull’incontro tra i due nell’Ade (Odissea, XI), quando un Achille già morto tesse ad Odisseo ancor vivo uno straordinario elogio della vita (tornerebbe infatti in vita anche da servo, il che ha fatto scrivere in passato chilometri di carta agli storici dell’economia antica…), e soprattutto sulla misteriosa “contesa” che di due avrebbero avuto, cui allude l’aedo Demodoco (Odissea, VIII), un episodio che né Omero né altri sanno o vogliono spiegare. Forse perché non ce n’è bisogno, e perché non si tratta di una contesa vera e propria, ma solo di due modi diversi di guardare il mondo e vivere la vita, di due differenti manifestazioni di eroismo.
Il mio nome è Nessuno
Concludo con una riflessione personale, e ribadisco che la mia simpatia si orienta ancora verso Odisseo; inoltre, come già ho scritto in un altro recente articolo, è stato sicuramente più facile che le sue avventurose vicende diventassero “patrimonio dell’umanità” rispetto alle cruente imprese guerresche del Pelide. Ciò anche con la complicità di una lunga tradizione (comprendente pure la Commedia dantesca) che ce lo ha presentato come un campione della conoscenza, per così dire una sorta di antesignano dell’Umanesimo o dell’Illuminismo, o più semplicemente, come interprete di quel trasformismo adattivo che ha consentito al genere umano di sopravvivere nei secoli.
Sì, perché Odisseo è conscio dei propri mezzi, della propria astuzia e del proprio rango regale, eppure non esita ad autodefinirsi “Nessuno” per sfuggire le insidie del Ciclope, con una celebre espressione che trasuda una modernità “pirandelliana”. Perché davvero lui è capace di essere Uno, Nessuno, centomila persone nello stesso tempo.
Concordo però con Nucci sul fatto che qualche volta lo vorremmo – da lettori – un po’ meno razionale e un po’ più coinvolto, un po’ più focoso (un po’ più Achille?), come nel celeberrimo episodio di Nausicaa, principessa bellissima, chiaramente invaghita del nobile naufrago, al cui fascino però Odisseo razionalmente resiste: d’altronde dopo i sette anni con Calipso e l’anno intero con Circe Odisseo non aveva altro tempo da perdere in avventure galanti. Ma perché – potremmo chiederci – con Circe e Calipso sì e con Nausicaa no?
Consentitemi in chiusura una risposta scherzosa, da antico telespettatore dell’Odissea di Rossi: perché il nostro eroe sapeva che il ruolo di Nausicaa era interpretato da Barbara Bach, giovanissima attrice statunitense che sarebbe poi divenuta celebre come Bond girl. E, si sa, dove c’è una Bond girl ci sono inseguimenti in auto, arti marziali, rapimenti, conflitti a fuoco… Insomma, dopo l’ira di Achille che aveva tirato in lungo la guerra di Troia, l’ira di Poseidone che lo faceva vagare da un decennio nel Mediterraneo, non poteva permettersi altri guai dall’ira del Numero 1 della SPECTRE; perché lui non solo non aveva l’Aston Martin anfibia, ma aveva pure perso la nave con i suoi amati compagni, e l’ingegnoso cavallo che aveva ideato (gadget davvero degno di 007) era rimasto entro le mura di Ilio, dopo l’espugnazione della città. Insomma: se avesse flirtato con Nausicaa Odisseo non avrebbe forse rivisto mai più quella paziente e saggia Penelope che, per chi scrive, avrà sempre lo sguardo intenso e i lineamenti severi della grandissima attrice greca Irene Papas, protagonista anch’ella – ovviamente – dell’Odissea di Rossi, manifestazione di un’epica pop che – sono sicuro – al venerabile Omero non sarebbe dispiaciuta.