Il condizionale dovrebbe essere: se può certificare alta competenza, allora va valorizzato. In realtà non è così: per l’aggiornamento dei punteggi nelle graduatorie d’Istituto il fatto di avere un titolo che dimostri competenze a livello universitario non vale nulla.
Lo Stato spende risorse importanti per dare il dottorato ai suoi docenti (il docente in servizio può dedicarsi alla ricerca, se supera un concorso per il dottorato). Vi sono perciò docenti che, per anni, lavorano e pubblicano, ottenendo riconoscimenti circa la qualità del loro lavoro. Tutto questo però non conta nulla, non dico per l’accesso all’Università, che sta assorbendo se stessa (cioè il personale che già vi lavora: ricercatori come associati e associati come ordinari), perché non ha soldi per reclutare personale che non sia già interno, ma nemmeno per il mondo della scuola nel quale quei docenti lavorano.
Si tratta di una stranezza, certo non la più grossa e nemmeno la più grave del nostro sistema; eppure ha una rilevanza culturale e istituzionale. Mi pare infatti che ciò riveli come le logiche tese a valorizzare le competenze nella classe docente siano materia ostica per la burocrazia nostrana, poco sensibile alla promozione del merito. Non molto tempo fa, in risposta a un articolo di Armando Massarenti apparso sul domenicale de Il Sole 24Ore, il Ministro Giannini scriveva che è opportuno favorire l’alta qualifica e la curiosità intellettuale anche nella scuola, e sosteneva che “non possiamo relegare in un angolo tanti docenti che hanno competenze preziose e capacità e che non hanno ancora trovato la possibilità di esprimersi” (riferendosi qui ai dottorandi). Si direbbe però che il discorso dovrebbe naturalmente estendersi anche a coloro che “hanno, in qualche misura, trovato la possibilità di esprimersi”. Non si può infatti immaginare che se quelle competenze sono dei dottorandi o dei neodottori ci si preoccupa, mentre se le hanno altri non c’è motivo di interessarsene. Altrimenti, il discorso del Ministro sarebbe una formula volta esclusivamente a giustificare strumentalmente nuovi sbocchi lavorativi ai dottorandi, figli di un’università che li ha formati ma non li vuole.
Si può pensare che i problemi della scuola e dell’Università siano ben altri, ma di benaltrismo in questo Paese stiamo morendo. Sarebbe un grande risultato se si cominciasse dalle piccole cose, quelle che si possono fare senza difficoltà e che hanno un grande significato, come segno di promozione della qualità nel nostro sistema.