La scelta di dedicare un numero de “La ricerca” al tema dell’educazione alla cittadinanza appare coraggiosa ma necessaria. Coraggiosa perché ad alcuni potrebbe risultare ridondante; necessaria, poiché in questi anni abbiamo assistito a un moltiplicarsi di progetti e interventi, non sempre sostenuti da un’attenta riflessione sulle premesse, sui princìpi e sulle metodologie a monte del fare.
Parole e azioni si mischiano tra loro pericolosamente, fino a “perdersi” le une nelle altre; a non riuscire più a darsi in una relazione all’interno della quale la parola definisce la direzione dell’azione e l’azione ne arricchisce la profondità.
Lavorare con le parole significa esercitare un potere pedagogico e politico insieme, che comporta la responsabilità delle conseguenze legate agli atti generati da certe visioni del mondo. La scelta di un’articolazione specifica della cittadinanza è un fatto decisivo ai fini della formazione civile. Attivare certi percorsi offre ai ragazzi la possibilità di farsi un’idea di quale contesto sociale sia più adatto ad accogliere il nodo della cittadinanza; di quale tipo di donna e di uomo possano crescere e vivere in quello spazio; di cosa significhi l’essere cittadino e, infine, di come qualificare le relazioni tra le persone.
In questa direzione, siamo chiamati a riflettere e discutere sulle premesse, sulle prospettive insite nelle proposte educative veicolate dal nostro linguaggio.
Gianrico Carofiglio scrive a proposito nel suo libro La manomissione delle parole (Rizzoli, 2010): «Oltre la sciatteria, la banalizzazione, l’uso meccanico della lingua, esiste però un fenomeno più grave, inquietante e pericoloso: un processo patologico di vera e propria conversione del linguaggio all’ideologia dominante. Un processo che si realizza attraverso l’occupazione della lingua, la manipolazione e l’abusivo impossessamento di parole chiave del lessico politico e civile». Un fenomeno graduale che ci sta interessando da anni, caratterizzato dal “prendere” alcune parole fondanti, i pilastri sui quali edificare società e far crescere persone, per poi mutarne il significato, confonderlo fino a farlo perdere completamente. Si pensi a parole come giustizia, libertà, democrazia, legalità e cittadinanza, appunto; trasformate trasformando l’idea di futuro che in esse si istruiva. Dunque, questi sono il potere e la responsabilità di un educatore, che si avvicina alla pratica delicatissima del “maneggiar parole”: aprire a percorsi possibili dentro il solco della giustizia sociale; far crescere cittadini e città oppure consolidare traiettorie di oppressione delle persone e il consolidamento di economie diseguali.
La questione civile
La questione civile emerge dall’osservazione di alcuni dati, cifra distintiva di questo momento sociale e politico. I dati sulle povertà (relativa e assoluta) riguardano oltre 12 milioni di italiani; i giovani fino ai 24 anni in stato di povertà sono oltre 3 milioni; gli analfabeti in Italia sono circa 6 milioni. Si potrebbe proseguire, tuttavia questi dati sono significativi a sufficienza per comprendere come dietro ad essi si nasconda non solo la tanto citata “crisi”, quanto piuttosto un graduale abbandono della giustizia civile, sostituita da una cultura delle disuguaglianze e dell’illegalità e dall’abbandono dell’esercizio del ruolo civile di controllo, denuncia e proposta dei cittadini.
L’educare alla cittadinanza attiva significa dunque occuparsi della questione civile, costruendo impegno per la giustizia e la crescita civile dei cittadini; cogliendone l’attualità e affrontandone le molteplici articolazioni.
Molti sono i nodi che descrivono le traiettorie che compongono la questione civile; tra i più “caldi” è bene ricordare:
la maturazione del senso e della coscienza civile e sociale in ogni cittadino;
lo studio di forme di superamento degli ostacoli che bloccano la piena partecipazione alla vita della comunità;
la riflessione sui princìpi, le pratiche, i contenuti sui quali si fonda una comunità che intende crescere secondo giustizia e libertà;
la valorizzazione dei beni pubblici, della “cosa pubblica”, praticando un severo rifiuto dell’essere al servizio di interessi particolari;
l’allestimento di spazi democratici di confronto sulla città;
lo sviluppo delle libertà individuali, fattori di accesso al pieno sviluppo dell’uomo “civile” e della città.
La delega è dunque rinuncia a un atto importante, rappresentato dal decidere insieme sulle cose che ci riguardano. Un’abitudine che fa parte della proposta culturale di oggi, di fronte alla quale l’educazione alla cittadinanza deve poter promuovere il prevalere dell’uomo sulle altre questioni. Un uomo in relazione con gli altri e con il mondo; dentro il mondo e in relazione con esso.
Aprire uno spazio critico e sperimentale
I contesti nei quali si cresce educano, a volte più efficacemente di molte aperte intenzioni. L’educazione accade, in ogni gesto, in ogni decisione, in molti sensi e direzioni, a volte inconsapevoli. Educare alla cittadinanza attiva implica un investimento in due direzioni: occuparsi di leggere la cifra dell’educazione che c’è, cogliendo nel contesto le premesse di quella che potrebbe concretizzarsi; e fornire le competenze e le conoscenze necessarie affinché ciascuno possa diventare a sua volta ricercatore attento e autonomo. Si tratta allora di dare vita a laboratori di ricerca sui contenuti e sulle didattiche di questo modello educativo; per meglio comprenderlo al fine di individuarne le debolezze, le aree disattese, i nuclei presso i quali sta prendendo forma un’alternativa.
Sviluppare un’educazione partigiana
Leggere criticamente l’educazione e i suoi attuali dispositivi è un’attività fondamentale, ma non di per sé sufficiente. È necessario che ad essa si affianchi l’esercizio di una precisa proposta pedagogica, con la quale entrare in discussione. Troppo spesso ci si trova di fronte a educatori che pensano all’educazione come a un fatto neutrale: impegnati a “tirar fuori cosa c’è nell’altro”, a riconoscere, valorizzare, promuovere. Ma questa è solo una tra le pratiche dell’educare. Chi cresce si aspetta da chi è adulto una proposta con la quale entrare in relazione, misurarsi, dialogare, confliggere, scoprendo sé stesso e le proprie idee, prendendo posizione.
Educare alla cittadinanza restituisce un potere e alcune responsabilità: il potere di fare una proposta nella direzione di un mondo più giusto; la responsabilità di far crescere competenze e saperi utili a stare nel confronto dialettico in modo costruttivo.
Fornire un intenso accompagnamento formativo
Un accompagnamento formativo dovrebbe essere orientato a due ambiti.
Il primo riguarda la formazione della persona e la crescita del cittadino, e si può sviluppare attraverso la costruzione di percorsi orientati a:
– fornire e discutere conoscenze pubbliche utili all’esercizio del ruolo di cittadino nella relazione con la città, il suo vivere e il suo crescere;
– sviluppare abilità di tipo sociale, legate allo stare con gli altri, pensare e progettare insieme, interloquire con chi amministra, dare vita a percorsi di denuncia e di costruzione partecipata di ipotesi di cambiamento;
– far crescere essenze, utili alla maturazione della coscienza civile, princìpi irrinunciabili attorno ai quali apprendere l’esercizio difficile della coerenza nel quotidiano e costruire lo spazio del vivere collettivo;
– curare il sentire civile, i sentimenti che sostengono le pratiche di giustizia e uguaglianza.
Quattro aree orientate alla piena partecipazione delle persone alla vita della comunità, nella quale vivono per formare il cittadino a far sorgere la propria dimensione sociale.
Il secondo ambito riguarda la cura della crescita di contesti pubblici nei quali poter vivere meglio. Per crescere serve un mondo prossimo, un contesto vicino alle persone al punto da aiutarle a riconoscersi senza perdersi. Nel quale incontrare confini con cui misurarsi; incontrare l’altro. Per crescere serve l’altro, ogni persona esiste se ha uno spazio nell’altro, nei suoi pensieri, nei suoi percorsi. Si tratta di cercare di costruire insieme realtà vive, accoglienti e eterogenee, tenute insieme da diritti e responsabilità.
Un’esperienza educativa civile, che si fa politica pubblica, non al servizio di interessi particolari ma con i beni pubblici come contenuti specifici, una comunità che si trasforma e cresce secondo giustizia.
Della giustizia e delle libertà
Occuparsi dello sviluppo di percorsi di educazione alla cittadinanza rimanda in modo evidente alla cura delle pratiche di giustizia e libertà, di accesso a diritti, risorse e progetti futuri per tutti, proprio come richiama la nostra Costituzione. Purtroppo però troppe persone pagano con la loro esclusione la crescita economica di pochi. Le nostre economie pensano e praticano uno sviluppo attraverso l’applicazione di un modello teorico che prevede le disuguaglianze come elementi funzionali alla crescita.
L’educazione alla cittadinanza non può prescindere dall’affrontare il nodo della giustizia e della libertà nella loro relazione: in questa direzione possono venirci in aiuto le parole del Presidente Sandro Pertini: «Per me libertà e giustizia sociale costituiscono un binomio inscindibile. Non vi può essere vera libertà, senza la giustizia sociale. Come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà».
Occorre ricercare e perseguire la giustizia sociale per realizzare comunità fondate sull’uguaglianza e garantire libertà per permettere un reale accesso a percorsi di vita e di sviluppo possibili; libertà intese come presenza o assenza di limitazioni.
Appare chiaro il concetto di “libertà individuali”, insieme di dotazioni personali, di capacità e competenze, che mettono le persone nelle condizioni di essere interpreti principali del loro processo di liberazione ed emancipazione. Gli studi sulle libertà individuali esprimono interessanti orientamenti, che indicano attorno a quali aree di impegno le politiche e il sistema pedagogico dovrebbero investire:
– i percorsi di liberazione dal bisogno e di costruzione di diritti;
– l’investimento sulla conoscenza e sull’accesso all’informazione;
– l’aumento della coesione sociale e dei legami significativi nelle comunità;
– la pratica di processi partecipativi;
– la cura degli ambienti urbani di vita.
Apprendere e amare l’esercizio del pensare
Se l’esercizio del pensiero è debole, o viene meno, è possibile che gradualmente entri in crisi la capacità di uno sguardo etico sulla vita, la possibilità di distinguere il giusto dall’ingiusto. Si smette di prendere decisioni autonome sulla qualità del proprio esistere e del proprio essere donne e uomini. Ciò che spesso accade in molti percorsi di educazione alla cittadinanza è, purtroppo, la promozione di una cultura della conoscenza fondata sul possesso, in linea con la cultura dominante, un sapere utile a esercitare potere sulla realtà. Si dovrebbe e si potrebbe lavorare invece per lo sviluppo del pensiero, della capacità e della passione per la ricerca del senso delle cose. Un pensare libero e autonomo, critico e partecipativo.