C’è un modo di parlare della morte, e del dolore, che non induce sensazioni negative, senso di sconforto, gradazioni cupe, pessimismo, e soprattutto non fa pensare a una lamentazione, nĂ© a un desiderio di autocommiserarsi. C’è un modo di parlare della morte, e anche del dolore, che è immensamente grande, perchĂ© inquadra, descrive, attraverso lo spettro ampio della parola letteraria, uno dei piĂą antichi fatti della vita, una componente nuda e cruda dell’esistenza da che l’uomo ha memoria.
Questa maniera di affrontare il buio, nero su bianco, in un dialogo sincero con esso, che non desidera edulcorare le cose ma sedersi di fronte a loro con la fronte alta e lo sguardo luminoso, presente, si ricollega a quel che siamo abituati ad attribuire ad una fase della tradizione, orale o scritta, che contemplava ancora l’eroismo. E non un eroismo romantico, ma un eroismo classico, omerico.
Stando alle statistiche, alle indagini, agli articoli che tutti i giorni vengono pubblicati a proposito della nostra societĂ odierna, quel che si evince e che crea allarme riguardo ai giovani e ai giovanissimi è una preoccupante fragilitĂ psicologica, che si traduce nella ricerca di supporti qualificati o in gesti autodistruttivi. Una grande facilitĂ di interazione, di connessione e una impensata rapiditĂ nell’esprimere pensieri e raggiungere persone non si traducono quindi in un senso di felicitĂ , appagamento, sicurezza.
Nella sovrabbondanza di stimoli culturali e non, credo sia importante accostarsi, quando li riconosciamo, a degli input validi, che si allargano in un campo positivo di esperienze. La musica è ancora un’esperienza forte, ricca, in grado di aggregare, in grado di interessare, e di mettere in movimento la curiositĂ dei ragazzi, la loro voglia di cercare informazioni, ascoltare di piĂą; questo anche se alcuni dei grandi della musica, icone che hanno ispirato migliaia di persone, si sono suicidate, o avevano dei seri problemi psicologici. PerchĂ© l’esperienza in sĂ© – fruizione della musica, condivisione di significati – è piĂą forte del singolo episodio tragico, lo ingloba così come la vita collettiva (ma anche individuale) riesce a inglobare dentro di sĂ© una morte.
Un’altra grande esperienza sorprendente, per quanto vecchia e nuova riesca a essere, è quella dei legami interpersonali (familiari, amicali, amorosi): ci sono le tempeste, i disastri, le cose strane, le situazioni instabili, non “ortodosse”, gli sconvolgimenti, gli allontanamenti e i riavvicinamenti. E ci sono delle “epifanie”, familiari o extra-familiari, solitarie o condivise, capaci di rimettere al mondo una persona, di darle una nuova vita, un nuovo senso.
C’è anche la letteratura, intesa piĂą come racconto delle vite degli altri che come materia scolastica o corpus di capolavori. Nel libro L’uomo che trema di Andrea Pomella (Einaudi, Torino 2018) si tocca in profonditĂ il tema della depressione. La “depressione maggiore” – è questa la diagnosi dei dottori – è delineata, sondata, descritta, scomposta in miliardi di precisi particolari: da come nasce, alle sue manifestazioni, il preludio, le facce con cui ogni volta si presenta, e poi i pensieri che porta con sĂ©, gli stratagemmi per affrontarla, finanche le sostanze chimiche che si possono assumere per combatterla.
Ma in questo memoir, che pure va nel dettaglio senza il minimo timore, non si trova una frase che ingeneri sconforto. Vi si parla anche di musica, è vero, e in maniera estremamente vitale di legami familiari, ma ciò che lo rende una lettura luminosa è il carattere integro della voce, una parola sapiente e vigorosa anche quando è disperata. C’è dell’ironia, dell’umorismo; c’è un testa a testa, un atteggiamento non passivo nĂ© remissivo persino con i medici; c’è una voce narrante che incarna un protagonista vero, che possiamo seguire attraverso gioie e rovesci di fortuna fidando che non si sottrarrĂ alla lotta.
Non sottrarsi è il messaggio, non negare le debolezze ma anzi intraprendere con esse un confronto che si fa scandaglio molto acuto della condizione umana. Non gettare la spugna e avere il coraggio di rivedere le proprie posizioni, ma anche di lasciarsi andare sinceramente ai sentimenti, quando abbiamo capito che sono rivolti a presenze di valore. La metafora del “ricostruire”, così come quella dello stare, del resistere, sono valide non in quanto eroiche, ma in quanto intrinsecamente umane.
Oltre alla materia importante, ne L’uomo che trema c’è una voce da ascoltare attentamente, una voce maschile schietta capace di accompagnare un giovane lettore senza sovrastarlo, interessandolo e guidandolo da pari a pari lungo un cammino che il destinatario forse non sospettava. L’altra cosa da non sottovalutare è che questo cammino si presenta attraverso uno stile, ovvero in una forma espressiva scritta, molto pregevole. Ma anche in questo caso l’autore è in grado di manifestarlo con discrezione, in modo che senza accorgersene – se non ne ha gli strumenti – il lettore possa ritrovarsi, distratto dalla lettura, nel bel mezzo di pagine che fanno molto bene alla sua formazione linguistica ed estetica.
L’uomo che trema non è un libro per ragazzi, non è neanche un romanzo, ma penso che per un ragazzo, e per chiunque voglia accostarvisi, possa essere un buon raccolto.