Paolo Rumiz, un grande “narratore”
Ma certo non è né banale né noioso il recentissimo libro di Paolo Rumiz, Appia, Feltrinelli, Milano 2016 : pertanto il vostro recensore se l’è divorato in un battibaleno, complice anche l’agognata pausa vacanziera. D’altronde, poteva essere forse banale o noioso un libro scritto da chi è non solo una delle penne più acute del nostro giornalismo, ma anche uno dei migliori narratori italiani in circolazione? Sì, ho detto “narratore” perché Rumiz ha il dono innato del racconto, fatto con ritmo e intensità, tanto da ispirare al lettore vivace curiosità e amichevole confidenza. È infatti come se fossi stato con lui, in passato, sulle strade delle Alpi, lungo il Danubio o il Po, a girare l’Italia in auto o in treno, sulle tracce di Annibale, o alla ricerca dei Cristiani nelle terre d’Oriente (e qui mi fermo); ed è come se (facendo meno fatica, però…) abbia ora seguito il viaggio a piedi suo e di un manipolo di amici da Roma a Brindisi lungo quel che resta dell’Appia antica, la Regina Viarum dei Romani. Un viaggio fatto nella primavera del 2015, già largamente illustrato sulle colonne di «Repubblica», ma che ha avuto delle “code” nell’anno in corso per ripercorrere alcuni tratti e preparare – a cura di Riccardo Carnovalini – un’appendice pratica e “tecnica” per chi lo voglia riprovare. Io però, lo confesso, getto già da ora la spugna…
La Via Appia a piedi: un’istantanea dell’Italia
Rumiz e i suoi amici hanno così ripercorso, dopo avere invocato la “protezione” del compianto Antonio Cederna (uno dei padri dell’ambientalismo italiano), la strada che Orazio (Satira I, 5) fece insieme con Virgilio per raggiungere a Brindisi l’amico Mecenate. Una strada che ancora conserva, in alcuni tratti, il suo originale basolato, ma che è in larga parte scomparsa (o meglio: camuffata) dal “brutto” che in questi due millenni è inesorabilmente avanzato, e che Rumiz duramente condanna, conferendo così al suo viaggio (e al suo libro) una significativa nota di impegno civile.
L’itinerario ha visto 29 tappe di una ventina di chilometri l’una, che nel libro sono state raggruppate in tre sezioni: La pietra (da Roma a Capua Vetere); Il vento (Da Capua Vetere a Venosa); Il grano (da Venosa a Brindisi). La costante è una mescolanza di aspetti positivi (meraviglie archeologiche e naturalistiche, memorabili soste gastronomiche in trattorie d’altri tempi…) e negativi (incuria, abusivismo, inquinamento…), che sono una sintesi vera dell’Italia: e non solo di quella del sud. Così come sono una sintesi vera dell’Italia gli uomini e le donne che la “banda Rumiz” ha incontrato: agricoltori generosi, pastori filosofeggianti, ostesse accoglienti, studiosi e archeologi (soprattutto archeologhe) competenti e battaglieri; ma anche automobilisti maleducati, giovani fracassoni, proprietari di terre o albergatori malfidenti e scontrosi davanti all’inusuale comitiva di camminatori.
- La copertina del libro
- L’itinerario di Rumiz
- Un tratto dell’Appia antica con basolato originale
- Paesaggio deturpato dalle pale eoliche
- Il sarcofago di Rapolla
- Una sosta dei viandanti
Tra contadini e reperti archeologici
Faccio fatica a scegliere qualche località, qualche aneddoto, qualche personaggio da segnalare: certo è che alcuni scempi, come il business delle pale eoliche in Basilicata o il mostruoso (e famigerato) complesso industriale dell’Ilva di Taranto proprio lungo il tragitto dell’Appia sono dei veri pugni nello stomaco.
Vorrei invece continuare e chiudere con due note, per così dire, di speranza e commozione: la prima di natura umana, la seconda più prettamente archeologica.
È infatti toccante l’incontro dei nostri camminatori con dei contadini (Giuseppe e Franco) dell’Agro Falerno che – come scrive Rumiz – “posseggono una cosa che la gente di città ha perduto. Il senso del limite” (p. 114). Come hanno appreso dai loro padri, essi non sfruttano mai la loro terra al massimo della sua potenzialità, perché “quacche frutto ‘ncopp a pianta lo devi sempre lasciare, per far mangiare ‘e passarielli”: e per chiunque passi di lì, fave, acqua fresca, vino non mancano mai, perché questa è “‘a legge di Dio”. Orazio – credo – li avrebbe iscritti d’ufficio tra i “filosofi naturali” come l’oscuro contadino Ofello (Satira II, 2), un personaggio “scarpe grosse e cervello fino” conosciuto per la sua saggezza e la sua misura.
E altrettanto commovente (soprattutto per l’epigrafista latino che qui scrive) è l’Ode che l’autore intona a Melfi, città carica della memoria di Federico II di Svevia, davanti al bellissimo sarcofago romano – trovato a Rapolla, proprio lungo l’Appia – sul cui coperchio giace una donna scolpita nel sonno della morte. Rumiz, seguendo una lunga (e malcerta) tradizione, la identifica nella nobile Emilia, figlia di Marco Scauro, alla quale l’autore dice “ci regali la certezza di andare nella giusta direzione; ci dici che qui Roma fu signora e, tra Benevento e il mar di Brindisi, passavano mercanti e legionari, pecorai dell’Epiro e carrettieri venuti dalla Tracia o la Bitinia, patrizi di Neapoli e nocchieri sbarcati dalle Cicladi ventose” (p. 198). Sì, il monumento funebre di una donna romana non è un’icona di morte, ma simbolo della dinamica vita di quei tempi, quando Roma (la “Dominante”, come la chiama Rumiz) era signora del mondo: una signora che sapeva quanto il controllo e l’amministrazione del territorio fosse importante.
E se è vero che “pontefice” (pontifex, in latino) ha la stessa etimologia di “ponte” (pons, in latino) e “re” (rex, in latino) quella di “regione” (regio, in latino), significa che le autorità religiose e politiche romane non potevano dimenticarsi l’urbanistica, la topografia, la geografia, la cura e salvaguardia di assi viari antichi e moderni. Non così hanno fatto e fanno le nostre autorità repubblicane che, ad esempio, da sessant’anni guardano impotenti ai tre ponti romani (a proposito di pontes) minati dai tedeschi nel ’43 nella regione del Sannio, tra Montesarchio e Benevento; quei ponti infatti sono ancora oggi macerie, quando invece il famoso ponte di Mostar, distrutto durante le recenti guerre nei Balcani (1993), è già stato ricostruito da un pezzo (2004)! Le stesse autorità che – a livello più alto – hanno fatto ben di peggio, cancellando o quasi la geografia dagli studi liceali, il che fa dire a Rumiz (ma anche a me): “Cancellate, cancellate pure la geografia dalle scuole. Consegnerete la terra ai predoni delle ultime risorse” (p. 164).
Un “Cammino di Santiago laico”?
Grazie, allora, a Paolo Rumiz, per avere condiviso con noi la sua lunga marcia. Non so se l’Appia diventerà – come egli auspica – una sorta di “Cammino di Santiago laico”, e francamente io dubito che ciò possa avvenire a breve, a meno che non si riescano a ridurre almeno in parte i troppi “pericoli” che lo contraddistinguono (tir selvaggi, branchi di cani randagi, sentieri che scompaiono nel nulla…). Non dubito invece che questo libro possa essere considerato una delle più lucide fotografie del nostro Paese, che per risolvere i suoi guai troppo spesso si affida a Padre Pio (onnipresente da Roma in giù) e che troppo raramente valorizza la cultura e la saggezza dei suoi uomini migliori. E tra questi ci metto senza dubbio quelle coraggiose archeologhe di cui già ho parlato, le cui Sovrintendenze – dato che funzionavano… – sono state di recente abolite e sostituite con nuovi Enti che avranno bisogno di anni di rodaggio: ma niente panico, nel frattempo ci penserà il Santo di Pietrelcina a tutelare i nostri Beni Archeologici!